Nawal al Sa'dawi-L'amore ai tempi del petrolio (recensione di Giulia De Martino)

 

Nawal al-Sa’dawi
L’amore ai tempi del petrolio
Il Sirente, Altriarabi, 2009
Traduzione di Marika Macco, introduzione di Luisa Morgantini

 

altUn testo, come si può notare, non recentissimo, apparso  in Egitto nel 2001, con il titolo di Love in the Kingdom of oil,  subito censurato, della scrittrice e psichiatra Nawal al-Sa’dawi, assai nota nel mondo del femminismo internazionale e di tutti coloro che lottano per i diritti delle donne e per la libertà . Lo presentiamo ora che molta letteratura egiziana “contro”, grazie anche a questa preziosa casa editrice, è arrivata a conoscenza di un  pubblico attento, desideroso di colmare la distanza con la cultura egiziana, dopo che la “primavera araba” ha scosso le coscienze e l’interesse di molti.
Quando, nell’86 con la Giunti Astrea, comparve il primo libro di Nawal al-Sa’dawi, tradotto in italiano Firdaus. Storia di una donna egiziana, colloquio tra una psichiatra e una detenuta condannata a morte  per l’assassinio del suo protettore, dal profilo crudo e realistico, mai ci si sarebbe aspettati la trama intrigante e il linguaggio visionario di L’amore ai tempi del petrolio, scritto all’età di circa 70 anni. Un romanzo perfettamente allineato con il linguaggio allusivo, metaforico e allucinatorio della letteratura dei giovani scrittori egiziani come Ahmed Nàgi o  Ahmad al-‘Aidy, certo diversi nel retroterra culturale e generazionale, ma simili per alcuni esiti di scrittura.
Tutta la straordinaria forza e determinazione della paladina dei diritti umani presente nell’autrice, più volte incarcerata, censurata, esiliata, si riversa nella protagonista, un’archeologa che decide di scomparire dal lavoro e dal marito, prendendosi un “impossibile” vacanza, per intraprendere da sola un cammino arduo e irto di difficoltà, quale può essere quello di una donna araba in un paese molto tradizionalista e conservatore, oppresso da un regime autoritario.
Nel paese in questione, un regno immaginario che si prepara a festeggiare, con ogni forma di servilismo, il compleanno del re - come per il compleanno di Francesco Giuseppe nell’ Uomo senza qualità di Musil -  gli abitanti sono immersi nel petrolio dai piedi fino al collo (e nel romanzo si ha modo di vedere che non è una frase fatta) per estrarre , trasportare, immagazzinare un liquido talmente invadente e vischioso da penetrare non solo nelle case e nei corpi, ma anche nelle anime. La parte più pesante tocca ovviamente alle donne, costrette a trasportare barili con la fronte senza ristoro né salario, usufruendo solo in parte di alcune gocce misteriose che servono a purificare dai miasmi petroliferi, la maggior quantità essendo, infatti, riservata agli uomini.
La vicenda si connota, fin dall’inizio, come emblematica più che realistica: si svolge in un paese non si sa quale, con protagonisti uomini e donne senza nome, individuati solo dal ruolo che svolgono nella società. Spiccano solo i nomi del passato: quelli delle antiche dee mesopotamiche, egizie, arabe, detronizzate da tempo da tutte le culture patriarcali che si sono succedute, senza distinzioni religiose, perché il patriarcato ne è stato comunque a fondamento. La Signora Immacolata, forse la vergine Maria, la profetessa Sayyda Zeinab, Num, la prima dea dell’acqua, Enana, la dea della fertilità, Sekhmet, la signora della vita e della morte, Hathor, la signora dei serpenti, Marat-Ra, figlia di Hatshepsut e altre ancora: una malinconica litania, testimonianza di ciò che gli uomini hanno usurpato alle donne, arrivando perfino a rendere maschili statue originariamente scolpite con i seni femminili.
La protagonista, provvista di uno scalpello, strumento del mestiere di archeologa che assurge qui a oggetto magico, dotato di vita propria, fugge da una vita matrimoniale insulsa quanto brutale, fatta di silenzi e violenze psicologiche se non fisiche, di sesso senza piacere, senza alcuno scambio né verbale né affettivo, nata sul presupposto: io, maschio, ti proteggo, donna, e questo ti basti. Ma la donna fugge anche da un mondo del lavoro che non le offre spazio e prospettiva, considerato una specie di hobby non necessario: nessuno crede alla sua ricerca delle tracce del dee del passato mitico, cancellate dalla memoria culturale. Il datore di lavoro è identico al marito e, spesso, quando lei li pensa, sono intercambiabili.
Il lettore, dopo le prime pagine, comincia a fare le sue connessioni. Da un lato si pensa ovviamente all’Arabia Saudita: il petrolio, la presenza di occidentali e affaristi locali,  la grave sudditanza dell’elemento femminile che non può gridare la sua rabbia per la mancanza di percezione di salario, che non può uscire o guidare senza un accompagnatore maschile, che non può allontanarsi per una vacanza senza permesso scritto del marito e timbrato dal datore di lavoro. ” Non era mai successo che una donna fosse uscita e non fosse più tornata. L’uomo , invece, poteva partire e non tornare per sette anni e, solo dopo questo periodo, la moglie aveva il diritto di chiedere la separazione”. Dall’altro, nelle ossessioni di voler controllare ogni aspetto della vita dei cittadini, di tutti e non solo delle donne, il pensiero corre a Mubarak, oggi cacciato dal paese, ma nel 2001, anno di uscita del libro in Egitto, ancora saldamente al potere, con la benedizione degli americani e degli organismi economici internazionali. Anche negli elementi culturali e ambientali si oscilla tra l’Egitto e l’Arabia Saudita.
Ma in questo romanzo il lettore è condotto a dubitare di tutto: il marito, il datore di lavoro, lo psichiatra consulente del commissario che si occupa dell’inchiesta della scomparsa della signora, il poliziotto stesso , l’uomo cui viene affidata quando arriva nel villaggio dove si estrae il petrolio e di cui lei si innamora (forse) esistono o sono tutti lo stesso uomo? I tratti con cui sono descritti sono simili e dicono o fanno le stesse cose. E il viaggio alla ricerca delle tracce delle dee è reale o è un viaggio interiore alla ricerca di se stessa e delle radici della forza e resistenza al sistema patriarcale, al maschilismo, al neo-colonialismo, all’autoritarismo?
Perché tutto avviene in una dimensione letteraria fortemente onirica, fatta di pozzi maleodoranti di un liquido vischioso e inarrestabile come il potere di cui è la solida base, lavorati da uomini e donne sfruttati fino all’inverosimile da un regime ingiusto, fondato su un fondamentalismo oscurantista che si accoppia con la avidità mortifera di un occidente post-coloniale, ma sempre identico a se stesso.
Nel testo è interessante la solitudine della protagonista anche a confronto con le altre donne, che pur sentendo il giogo sulle spalle pensano che sia un destino immodificabile e disprezzano l’archeologa che tenta di convincerle come sia possibile un ribaltamento della situazione, se solo capissero la forza e il valore che hanno dentro.
In ultimo, l’amore è o no una trappola per le donne che attraverso questo sentimento mascherano la realtà di oppressione?  ”L’uomo era coricato con gli occhi aperti. Improvvisamente scoppiò una risata nel profondo della notte, era sicuramente l’uomo che stava ridendo. Forse con la risata nascondeva qualcosa. Il suo viso era rivolto alla parete e lei non capiva a che cosa stesse pensando. Ma quando lo sentì ridere, rise anche lei… Fino a quando l’uomo avrà la capacità di ridere, la donna non avrà desiderio di scappare, almeno non questa notte. Continuerà a dormire e domani ci proverà di nuovo”.
Fondamentalmente però l’autrice ci avverte che è attraverso la conoscenza che è possibile cambiare, non a caso, nel testo la donna che legge è sanzionata severamente; conoscere porta ad attivare e ad elaborare una creatività che può fare paura agli uomini perché li minaccia, alle donne perché le scuote dal lungo e rassicurante torpore in cui sono cadute e dal quale è necessario che si risveglino per la costruzione di una società civile autenticamente democratica. Gli egiziani di oggi sono avvertiti…..
 

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