Leggere il vento di Dinaw Mengestu, recensione di Habtè Weldemariam

  

altCon il nuovo romanzo Leggere il vento,  edito da Piemme 2011, che arriva a circa tre anni dall’opera d'esordio, Le cose che porta il cielo, che ne ha fatto uno degli autori emergenti più seguiti negli Stati Uniti, Dinaw Mengestu si conferma ancora una volta un grande narratore, grazie al suo sguardo sul passato che sa ricollocare ogni cosa nello spazio che gli è deputato.
Scritto ancora con la notevole scioltezza che aveva caratterizzato il primo, la semplicità della narrazione è lodevole, il tono è sempre delicato, privo di acredine e rancore contro la società americana che non è sempre aperta verso le minoranze etniche e/o classi sociali, anche se «gli atteggiamenti razzisti, risentimenti e frustrazione degli altri», come ha affermato Mengestu in una recente intervista, «mi hanno permesso di trasformare in qualcosa di cui “bisogna essere grati”, perché alla fine ti formano e ti aiutano ad avere un’idea abbastanza precisa di chi sei e allo stesso tempo consapevole di come ci si sente quando si è intrappolati nei problemi di razza».
Attraverso il racconto incrociato di due storie e due mondi, così lontani eppure così vicini, il matrimonio fallito di Jonas e Angela si rispecchia in quello, ugualmente finito male, dei genitori di Jonas. Il padre di Jonas, Yosef, fuggendo da un paese in guerra era arrivato in America all’inizio degli anni ‘70, dopo un travagliato viaggio dentro una nave, nascosto in una cassa per le bestie. Mariam, sua moglie, lo aveva raggiunto qualche anno dopo, trovandolo diverso, un altro uomo, da quello che era: «alto e fiero che aveva sfidato i militari nelle strade di Addis Abeba, ora divorato da incubi e nevrosi violente»(p.81). Si tratta di un racconto di una doppia estraneità, di un disagio che se ha radici nell’impatto negativo di chi migra da un paese lontano, approda poi nel paese dell’inquietudine individuale.
Leggere il vento che sin dal titolo ci rimanda a questa dolorosa erraticità, all’inafferrabilità di una vita che si è costretti a vivere con la mobilità stessa del vento, una vita in cui i problemi dell’identità divengono fondamentali, ha il merito di raccontare una storia che nell'oggi appartiene a molti, con tutte le sfumature, i problemi, le difficoltà e le soddisfazioni che le esperienze di migrazione possono produrre.
Cosa sia successo a Yosef nel lungo viaggio che dalla sua terra, l’Etiopia, lo ha portato nell’ Illinois, non l'ha mai voluto dire. Perciò, al figlio Jonas, non rimane che riempire di storie le scatole vuote, collezionate o disegnate in modo ossessivo, di cui il padre si è circondato negli ultimi anni di vita. Così l'immaginazione di come era stata la vita dei genitori prima di venire in America, ha spesso il sopravvento sul ricordo reale, frammentario e lo compensa inventando storie per colmare il vuoto della memoria.
Si tratta di un processo necessario per ognuno di noi, per costruirsi un'identità, l'idea di chi siamo e cosa vogliamo. E di conseguenza della capacità della letteratura di restituirci l’essenza e le conseguenze psicologiche di un dramma dello sradicamento che altrimenti rimarrebbe confinato alla brutale realtà della cronaca. Perciò sogno, immaginazione e recupero della memoria fanno di questo romanzo un dolente ritratto di famiglia sradicata, ma anche un dolente ritratto di una giovane famiglia americana incapace di mettere radici. «Nonostante vivessimo a New York da anni», dice ad un certo punto Jonas, «nessuno dei due si era legato profondamente e a lungo a un particolare quartiere. Non c'erano strade cui ci sentivamo affezionati, ristoranti che ci piacevano, o bar dove avevamo trascorso molte ore seduti da soli. Angela era arrivata per studiare legge, mentre io avevo passato troppo tempo vagando da un quartiere all'altro per rivendicare uno spazio mio anche in luoghi che non erano alla mia portata».(p.43)
La storia della migrazione come pedagogia
Lasciamo ad altri recensori occuparsi degli spunti offerti dalla trama (e sono tanti): le relazioni con l’”Altro” nei centri sociali di accoglienza; i problemi relativi alla condizione del disagio materiale e ambientale; il razzismo; i problemi legati all’appartenenza ecc. Vorrei riflettere sull’impegno sociale e pedagogico di questo romanzo. Esso infatti ha il pregio di porre in luce, in maniera netta, uno dei temi centrali nella vita degli immigrati:  l’interazione con la società di accoglienza nell’era della società globale che questo romanzo testimonia con grande valore.
Jonas, lavorando in un centro per immigrati a New York, non si fa problemi a mettere in moto la fantasia per mettere in bella prosa le richieste di asilo dei suoi assistiti. Raccogliendo le storie dei rifugiati provenienti dai paesi poveri e in guerra, Jonas legge ogni giorno tristi frasi: «il villaggio da cui vengo, dove sono nato e dove sono vissuto per quarantacinque anni è stato conquistato, occupato, bombardato, incendiato, distrutto, ridotto in macerie e io con la mia famiglia, mia sorella, cugina, zia, zio, nonni siamo stati arrestati, fucilati, stuprati, imprigionati, costretti a confessare, torturati perché confessassimo...» (pp.32-33). Perciò arricchiva le storie di altri particolari, riscrivendole per  renderle più credibili, enfatizzandole, per ottenere un effetto narrativo più convincente.
Ma la raccolta delle storie e la serie di racconti e testimonianze che trascriveva diligentemente nel centro sociale di accoglienza e le storie che inventa e racconta non sono fini a se stesse. Esse sono diventate pregevole fonte di lettura e progetto didattico di pedagogia narrativa nell’ambito di una educazione interculturale nella scuola dove egli insegna.
Jonas, con la sua proposta pedagogica, vuole dire innanzitutto che tale educazione non riguarda solo i suoi alunni, ma l’America: «non si tratta solo delle lezioni, dissi ad Angela dopo qualche giorno mentre ci preparavamo per andare a letto. Penso che queste lezioni potrebbero confluire in un progetto di ricerca più ampio che prima o poi affronterò» (p.232)
«L'accademia era attraversata da ondate di solidarietà per me e per il mio defunto padre. Studenti con cui non avevo mai parlato, neppure quando erano nella mia classe, ora mi salutavano incontrandomi in corridoio. Fuori dall' aula, prima o dopo il suono della campanella, ero una figura da non ignorare e per alcuni giorni nessuno mi passava accanto senza dar segno di riconoscermi. Dovunque andassi ero accolto da sorrisi, solo perché avevo portato a casa loro una tragedia che batteva qualunque cosa i miei studenti potessero sperare di vivere personalmente.
Una volta che la storia ebbe assunto tali proporzioni, sapevo che era solo una questione di tempo prima che fossi convocato per rendere conto di quanto insegnavo ai miei studenti. Mi aspettavo da parte del preside una reprimenda dai toni severi in cui mi facesse presente i principi e i doveri della scuola non solo verso gli studenti, ma anche verso i loro genitori, che spendevano fior di quattrini per mandare i loro figli all'accademia» (pp.274-275).
Ciò che segue lasciamo alla lettura e all’immaginazione dei lettori, ma prima preme sottolineare il boicottaggio seguito alla sua proposta pedagogica e poi, forse, “il licenziamento”. Licenziamento che viene descritto senza che mai il lettore sappia che cosa avviene dopo. Infatti la discriminazione e il razzismo sono così forti e profondi che Jonas sembra ignorare, come se questi fossero cosa naturale, che avvengano nel profondo dell’America.
 

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