Karim Miské, Appartenersi - recensione a cura di Giulia De Martino

Karim Miské, Appartenersi
Fazi editore, 2016
traduzione di Maurizio Ferrara
 
Immaginate un bambino di nove anni e mezzo, in seno alla famiglia da cui è molto amato, assistere alle bizzarie di suo nonno che, in preda ad un furore insensato, in seguito ad un colpo al cervello, pronunci nei suoi confronti la parola 'bastardo'. Sarà un ferita che non si rimarginerà più e segnerà tutta la sua vita di una inquietudine ed una rabbia che si attenueranno, in età adulta, solo con un'analisi psicanalitica e il rifugio nella letteratura.
Così comincia questo libretto straordinario cui è difficile affibbiare una categoria: testimonianza, inchiesta spregiudicata, autobiografismo,riflessione sul mondo e sulla natura umana, racconto?Tutte queste cose insieme lo rendono godibilissimo e annunciano uno scrittore notevole, che aveva già dato eccellente prova di sé con il poliziesco "Arab jazz".
 Quella parola pronunciata da suo nonno qualche mese prima di morire richiama il bambino alla sua condizione di eterno doppio: l'autore, infatti , è figlio di una francese, femminista e comunista internazionalista e di un principe del deserto mauritano, diplomatico e militante di opposizione nel suo paese. Eppure suo nonno gli aveva voluto molto bene e per lui era stato un modello maschile da seguire, dato che suo padre era sempre stato un giramondo e poi ,ad un certo punto, i suoi genitori avevano divorziato.
Ma quella non era che una delle tante contraddizioni della famiglia: bisnonni atei e anticlericali da un lato,nonni cattolici conservatori di provincia dall'altro, madre educata al catechismo che fieramente rivendicava di essersi sottratta alla prima comunione, militante comunista cieca, come tanti in quell'epoca, di fronte alle nefandezze dei sistemi dei vari Mao, Enver Oxa, Pol Pot e via dicendo. Padre, paladino di diritti umani, tuttavia comodamente ambiguo nei retaggi schiavistici del suo clan.
Il piccolo Karim vi aggiunge l'ambivalenza in cui cresce: essere di modi, lingua e cultura francese con una faccia inequivocabile da arabo in una società francese che sembra aver smarrito i suoi valori illuministici e che sembra apprezzare sempre più il nazionalismo e l'identitarismo.
Il suo è un continuo sottrarsi allo specchio, per non essere costretto a definirsi, è un continuo rifiuto dell'unicità dell'appartenenza. Perché deve rifiutare la sua parte musulmana e araba, perché deve sempre dimostrare quanto sia francese?
Bambino di scuola elementare, durante la ricreazione in cortile, si sente attribuire la nomea di algerino tagliagole,tanto un arabo vale l'altro; è costretto a sentire i racconti sui padri dei suoi coetanei finiti preda di sanguinari terroristi: ma che ne sa lui dell'Algeria? In casa sua di una sola guerra sente parlare ed è quella del Vietnam, allora su tutti i telegiornali.Solo in seguito capirà che quella che ascoltava da quei bambini era solo una parte della storia.
E le amiche della nonna, da cui trascorreva sempre le vacaze? Sempre lì a domandargli se avrebbe fatto il servizio militare, che equivaleva a chiedergli come si sarebbe schierato in caso di una guerra 'tra noi e loro'?
Come avrebbe voluto assomigliare al biondo compagno, il più bravo della classe: bianco,cattolico di solida famiglia di destra tradizionale, francesissimo. E, invece, gli era toccata una famiglia fuori dell'ordinario, che lo aveva portato a vivere a New York, durante il periodo in cui la madre aveva ricoperto incarichi diplomatici all'Onu, in qualità di moglie di un politico mauritano.Con una madre che non faceva altro che istruirlo sulle guerre imperialiste degli americani e sulle magnifiche sorti e progressive che ci si doveva aspettare dalla Cina di Mao o dagli sforzi degli albanesi diretti da Enver Oxa. Nel frattempo condividendo le idee materne atee e resistendo ad ogni cristianizzazione da parte dei parenti cattolici.
Non è che coi parenti mauritani fosse andata meglio: l'autore, prima di questo testo, aveva scritto un articolo, sul suo memorabile viaggio in Mauritania, con il padre, all'età di quindici anni. Stufo di non riuscire ad essere quel francese che tutti chiedevano, aveva sperato in una identificazione con la famiglia del padre: tanto vale essere con orgoglio quell'arabo che tutti mi accusano di essere. Era arrivato a essere molto vago, oseremmo dire, a mentire, sui suoi sentimenti religiosi islamici, pur di essere accettato dalla nonna, madre di suo padre, che pare fosse svenuta nell'apprendere la notizia che suo figlio si fosse sposato con una francese. La cui colpa non era tanto quella di essere una straniera ma di essere una miscredente: meglio cristiana che atea !
Finché il ragazzo non sente affermazioni in famiglia sugli sporchi e incivili neri e sulla presenza degli schiavi, che sia pure nominalmente affrancati, continuavano a essere tali. Quando un mauritano nero era veramente libero? Quando a sua volta si dimostrava possessore di schiavi... La mente e la psiche dell'adolescente hanno un sussulto: non sono arrivato fin qui per essere uno schiavista, si dice in cuor suo e la sua identificazione con il popolo mauro vacilla definitivamente.
Gonfio di rivolta e disillusione non esita a ribellarsi contro la madre, preferendo il jazz, il rock e il punk alla rivoluzione predicata dalla genitrice.Come tutti gli adolescenti, soprattutto nei tardi anni '70, passa attraverso la triade sesso , droga e rock and roll. Va bene la politica, ma non al punto di rinnegare Hendrix o Janice Joplin o la serie di Twin peaks di Linch,  come pretende sua madre.
Comincerà a fare i conti con la madre, quando, adulto vedrà un documentario su Enver Oxa, ormai caduto e sull'Albania, in cui sua madre l'aveva trascinato da piccolo per accedere ad un incarico di traduzione e diffusione dei testi del dittatore Oxa. Con gli occhi dell'innocenza aveva visto le disuguaglianze e la povertà estrema della popolazione comune, ma era stato tacitato o irriso dalla madre e dagli altri adulti per le osservazioni che aveva osato fare.
Tutto è stato una menzogna: rilegge tutti gli episodi dell'infanzia e ne rabbrividisce. Cosa resta, allora, al di fuori della religione, dell'etnia, della politica?
Dopo un periodo di buio, un'ancora di salvezza: a qualcosa bisogna appartenere, per tenere a bada la bestia selvaggia che è in ogni uomo. Sarà la patria della letteratura, non per nascondersi ma per riuscire a nutrire ancora qualche illusione sulla natura umana, nonostante tutto.
Non è un roussoiano il nostro autore, l'uomo non è buono per natura, ma un essere primordiale che se non trovasse delle 'giuste cause' per uccidere distruggerebbe se stesso definitivamente.
Da parte sua, quasi romanticamente, sceglie di scrivere, dopo essere passato per l'esperienza di documentarista: recupera le letture 'gialle' dell'adolescenza e accetta la violenza connaturata all'uomo e la possibilità di sfuggirvi attraverso la letteratura: sembra quasi un'eco leopardiana...
Libro crudo e tenero ad un tempo: in francese il titolo "N'appartenir" sottolinea la difficoltà ad aderire, a identificarsi per forza, la traduzione italiana "Appartenersi" sottolinea la risposta di Karim adulto: forse apparteniamo solo a noi stessi, ma questo non ci trasforma in egoisti o indifferenti, solo ci tiene al riparo dai disastri della mono identità, cosa sotto gli occhi di tutti, purtroppo, ai nostri giorni.

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