Giulia Caminito- La grande A- recensione a cura di Giulia De Martino

                                   Giulia Caminito

                                               La grande A  

                                               Giunti, 2017

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Una giovane scrittrice pressoché trentenne vince diversi premi letterari, tra cui il Premio Berto , quello Brancati e il Bagutta con un soggetto che non sempre è stato gradito agli italiani: la storia, infatti,  in parte si ambienta , durante gli anni ‘50, nelle ex- colonie italiane, ad Assab, ad Asmara e Addis Abeba, toccando anche Massaua ed Harar.

Sappiamo come l’Italia non abbia mai fatto volentieri i conti con il suo passato coloniale, rimuovendo non solo la storia delle violenze , dei soprusi e del razzismo nei confronti degli africani, ma anche quella dei tanti italiani che credendoci o no ai miti del fascismo, si sono imbarcati per far fortuna, partendo spesso da situazioni di autentica miseria o mediocrità, comportandosi, a tutti gli effetti come dei veri e propri migranti. L’Africa imperiale fu per molti di loro una opzione alle lontane Americhe. Alcuni di questi romanzi partono da memorie familiari, lasciando emergere testimonianze di un vissuto, necessarie  per ricostruire un pezzo importante della nostra storia.

Tuttavia spiace un po’ sottolineare come in certe recensioni del presente romanzo sembra che dai tempi di Flaiano o Alessandro Spina nessun italiano abbia mai scritto romanzi ‘ africani’: dobbiamo invece dire che dalla fine degli anni ‘90 a tutto il 2000 si assiste ad un certo fiorire di romanzi italiani ambientati in Libia, in Eritrea, in Etiopia o in Somalia. Rimandiamo per queste conoscenze agli approfondimenti, certo non esaustivi e ormai un po’ datati o ad alcune recensioni presenti nel nostro sito. 

Anche la vicenda della protagonista  di questa storia ,Giadina,  è la rielaborazione di una saga familiare di emigrazione, per di più tutta al femminile, dato che le figure maschili presenti non emergono per coraggio, forza, intelligenza pari a quella delle donne.

Dunque la grande A è l’Africa sognata da Giada, una bimba gracile e minuscola, che viene affidata dalla madre Adele ad una zia di Legnano : lei infatti  molla il marito geloso e incapace e tre figli per andare in Africa orientale, a fare fortuna girando con un camion, a vendere un po’ di tutto, fino a prendersi ad  Assab, un bar ai bordi del deserto, esibendo un soprannome maschile ,Adi, i pantaloni e il fucile in spalla. Ma i soldi non li fa mancare ai figli, lei conduce una vita spartana e anche quando si mette a vivere con un grosso ravennate, fascista rozzo e ignorante, i suoi risparmi partono tutti per l’Italia. E’ vero, anche per i profumi, le sigarette costose e una pelliccia con cui si presenta a Legnano, ogni tanto, per trovare i suoi figli. La mamma, pensa Giadina, però non sa cos’è la guerra, per questo è bella e profumata.

Ma la bambina non nutre rancore nei suoi confronti, anzi ne è affascinata e la immagina in un’Africa tutta splendente e ricca, piena di colori e animali, al contrario della sorella Rina, che al momento in cui Adele vuole portare tutta la famiglia con sé le preferisce la famiglia affidataria a cui si è molto affezionata.

La prima parte della storia si svolge tutta durante l’infanzia di Giadina, alle prese con fame nera, bombardamenti e notti passate al rifugio, maltrattamenti della zia e della cugina, amicizie  e ripicche, riflessioni infantili sulla guerra e sulla comunità un po’ gretta e provinciale in cui si trova costretta a vivere, novella Cenerentola,  sempre con il pensiero alla grande A.

E finalmente il momento arriva: la partenza per il mondo mitico dove vive la madre. Ma che delusione in quel paese ai limiti del deserto! Colori smorti, siccità e vento arido implacabili, una casa che non è una casa, un lettuccio sotto le stelle e un lavoro duro nel caffè gestito dalla Adi.

Niente però fa veramente paura a Giada, sempre sorretta dai consigli un po’ duri e disillusi della mamma.

Dell’Africa di Giada i lettori conoscono solo Ahmed, l’inserviente tuttofare del bar, fedele e discreto , una infelice gazzella che la ragazza tenta di crescere nel retro del locale e che fa ben presto una brutta fine,  i ragazzini di strada tutti presi dalle loro faccende di sbarcare il lunario e dagli scherzi un po’ feroci ai danni della sensibilità degli europei, le scorribande nel deserto con la jeep. 

 

Nel frattempo cresce senza mettere un etto di ciccia in più dove vorrebbe e conosce Giacomo, con cui  contrae a 18 anni un matrimonio precoce e infelice. Il marito, bello come un divo del cinema, divertente e allegro, elegante e faccendiere, perso sempre dietro alle carte da gioco e ad investimenti improduttivi se non rovinosi, la introduce però nel bel mondo della comunità italiana degli anni post-guerra.

Italiani che, sia ad Asmara che ad Addis Abeba, conducono una vita che in patria non avrebbero mai potuto permettersi: case lussuose, con uno stuolo di servitori, club esclusivi, cavalli, feste eleganti, vestiti all’ultima moda. Inquieta , si accorge del razzismo più o meno latente della famiglia di lui nei confronti dei nativi, ascolta i discorsi degli italiani che si sentono abbandonati dalla madrepatria e non tornano perché non hanno nessuna intenzione di rinunciare a quei privilegi di cui in Italia non godrebbero.

Abbandonata con un figlio dal marito, che appare e dispare a suo piacimento, si trova un lavoro e una autonomia che mai avrebbe pensato di raggiungere. 

Ma non dura a lungo il benessere di madre e figlia: venti di ribellione e di guerra corrono in Etiopia e in Eritrea e Adi decide per il ritorno in patria: i loro uomini se vorranno raggiungerli, bene, altrimenti ne faranno a meno, data l’inconsistenza dei loro aiuti…

Amaro è il ritorno in patria: li accoglie una cascina nel ravennate , nessun aiuto da parte dello stato,  un lavoro in campagna, chilometri da fare per raggiungere tutto quello che occorre loro, l’incomprensione degli italiani che trattano tutti coloro che erano andati a lavorare nelle colonie come fascisti: loro che si sono districate tra il tigrino, l’amarico, l’inglese e altre svariate lingue locali non riescono a farsi capire dai ravennati campagnoli. Adi non schiaffeggia più i preti come ad Assab, ma è  sempre più dura, scostante e disillusa nei confronti del genere umano ;  Giada ormai indipendente trova un lavoro sfiancante in una tavola calda, accetta il ritorno del marito, ma alle condizioni che lei impone a Giacomo,  approda nella Roma delle Olimpiadi, piena di offerte e speranze.

La grande A non è mai stata l’Africa ma la A di sua madre Adele, che ha sostenuto tutte le sue speranze, tutte le sue traversie fumando e spargendo profumo, scandalizzando ma pensando sempre con la testa  sua : ce l’hanno fatta perché le donne hanno una marcia in più, si adattano e sanno accettare i cambiamenti , sembra dirci l’autrice attraverso questa storia. Scritta in un linguaggio originale, difficile a trovarsi in una autrice così giovane, con un senso delle lingue e dei dialetti che permea tutto il romanzo. Forse non si parla molto di Africa, ma certamente si parla delle difficoltà di affrontare un periodo controverso della nostra storia da un punto di vista tutto femminile.

 

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