Yasmina Khadra - Khalil- recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

Yasmina Khadra

 Khalil

Sellerio, 2018

traduzione di Marina Di Leo

 

Non è la prima volta che l'autore algerino ci mette davanti ad un attentatore: lo aveva già fatto con una kamikaze ne "L'attentato". Ma nel precedente romanzo il lettore restava estraneo alle autentiche ragioni per cui la donna palestinese si faceva saltare in un ristorante a Tel Aviv: come per il marito della protagonista, per chi legge, resta il mistero.

Questa volta invece noi siamo dentro la testa di Khalil, un giovane belga di origine marocchina, e quasi in presa diretta seguiamo gli eventi, veniamo tuffati nei ricordi del passato e seguiamo le evoluzioni dei suoi stati d'animo. Il testo entra subito in medias res: una macchina sta portando quattro giovani kamikaze da Bruxelles a Parigi nel fatidico giorno del 2015 in cui ci furono le stragi degli attentati allo Stadio S.Denis e al Bataclan .

Due sono Khalil e il suo amico d'infanzia Driss: il suo compagno fraterno morirà ma Khalil, che ha il compito di farsi esplodere in uno dei treni urbani su cui salgono i tifosi alla fine della partita, a causa di un sistema difettoso della sua cintura esplosiva, non riuscirà a scatenare l'inferno che avrebbe voluto provocare e resterà vivo proprio nel giorno in cui si aspettava di diventare martire della fede.Questo non è che l'antefatto: le vicende del romanzo iniziano proprio da questo fallimento.

E' una storia rischiosa da narrare : come sottrarsi all'identificazione con il protagonista, come conciliare la comprensione delle ragioni del gesto del giovane e la condanna del terrorismo islamico? gli islamici sono  i soli cattivi e noi soltanto siamo i buoni ? Fortunatamente siamo in presenza di un eccellente scrittore che riesce a trovare una modalità narrativa che schiva questi pericoli e ci regala una storia sorprendente.

Per buona parte della vicenda entriamo in Molenbeek, il quartiere ghetto da cui proviene e si radicalizza  la maggioranza dei giovani attentatori belgi di origine africana e nordafricana. Orecchiamo le conversazioni dentro i bar dove si commentano le stragi da parte di giovani delusi dalle promesse dei genitori, scandalizzati dalle fatiche a cui questi si sono sottomessi in cambio di diritti mai effettivamente raggiunti,  rifiutati da una scuola non in grado di includerli,  esclusi dal mondo del lavoro che conta.

Ma sono poche le voci in favore delle stragi, non troviamo tutte belve assatanate pronte al martirio: sono belgi a metà ma non hanno nessuna intenzione di tornare nei loro paesi d'origine, che molti conoscono solo come luoghi di ferie della famiglia e sono profondamente offesi da questi assassini che si arrogano il diritto di fare giustizia sommaria a nome di tutti i musulmani. Per colpa loro le comunità straniere di religione islamica subiscono ostracismi, intolleranze, razzismi e non ne possono più di tutti: 'barbuti', buonisti occidentali, famiglie tradizionali, governi di qua e di là dal mare mediterraneo, incapaci di affrontare con efficacia la questione. 

Tra questi giovani c'è chi si domanda come si fa a non aiutare un amico d'infanzia con cui, a  partire dalle strade del quartiere, si è condiviso tutto e di cui si intuisce che è nei guai? Ecco entrare nella storia Rayan, l'amico che ce l'ha fatta: seguito da una madre attenta, non ha mai abbandonato la scuola, ha raggiunto un lavoro soddisfacente e vive una vita piena di speranza e di futuro da musulmano laico. Sarà questo giovane, dalla parte di Khalil nonostante tutto, a testimoniare la lunga strada interiore che dovrà percorrere il protagonista  per arrivare a una conclusione diversa da quella preannunciata nella prima pagina del romanzo.

Il testo è pieno di amici d'infanzia e compagni di scuola e di quartiere che per primi hanno ceduto ai gruppi di islamisti installatisi nelle zone problematiche, per azioni di proselitismo proprio nei confronti dei soggetti più fragili. Come Lyès,che ha fatto carriera nella Fratellanza ed è divenuto emiro di raccordo tra la moschea di quartiere e i giovani da convincere al sacrificio supremo o come Bruno Lesten, un ragazzo belga, un tempo picchiatore dei più deboli nei cortili e nei corridoi della scuola,  che ormai con il nome di Zakaria, convertitosi all'islam radicale e maritato ad una musulmana, si dichiara pronto per il paradiso e la visione eterna di Allah.

Il punto di forza della narrazione è proprio farci entrare nei meccanismi di reclutamento dell'Isis, di mostrarci tutte le sfaccettature di cui si compone la galassia islamista: Khalil capisce che non si entra solo per fare la volontà di Dio ma anche per fare affari o gestire poteri, piccoli o grandi che siano: quando c'è una crisi delle cellule, dopo un attacco kamikaze, è normale il raddoppio dei controlli e degli arresti, ma i capi spariscono, protetti in nascondigli d'eccellenza o, tagliata la barba e dismesso l'abito tradizionale, si eclissano su aerei con destinazione medioriente.

Anche l'autore marocchino Mahi Binebine aveva tentato la stessa operazione ne "Il grande salto" del 2016 (vedi recensione su questo sito): aveva descritto i ragazzi poveri e analfabeti di Sidi Moumen, un periferia degradata e dimenticata di Casablanca da cui provenivano i giovanissimi kamikaze degli attentati  del 2003 a Casablanca.

Tuttavia qui l'analisi è più complessa: i giovani provengono dall'occidente, sono nati in Europa , figli di politiche migratorie distorte, dell'esclusione sociale che li accomuna ai poveri occidentali, di quell'inclusione bastarda che consiste nel restare zitto e buono dentro il proprio ghetto e guai a superare i confini, perché resti sempre uno sporco arabo...

Molti,  stanchi e resi inerti dai colpi delle loro vite difficili, si sono anche abituati ormai a crogiolarsi nel proprio malessere e a guardare con sospetto quelli che veramente se ne fregano dei confini e vogliono riuscire, che non sono  ottenebrati da quel che succede ai musulmani  in Palestina o in Siria. Ci permettiamo di suggerire, per questi aspetti,  le analogie di analisi delle seconde e terze generazioni contenute nel bellissimo documentario "A voce alta, la forza delle parole" di Stephane De Freitas e quelle più edulcorate di Yvan Attal nel film" Quasi nemici, L'importante è avere ragione".

Questo romanzo si apre anche sul commovente rapporto tra Khalil e la sorella gemella , sulla rancorosa relazione con il padre e la sterile pietà per sua madre: la famiglia conta quanto la conoscenza dei fascinosi emiri della Fratellanza, per far decidere Khalil sulla sua militanza islamista. Questi  hanno le risposte a tutte le domande che arrovellano il cervello del giovane: rimandano alle sconfitte subite, alle ferite mai cicatrizzate, "il poveraccio diventa tuo sosia, il ribelle , tuo fratello siamese, le prediche la tua valvola di sfogo, la violenza la tua legittimazione. Al diavolo i razzisti, a morte gli islamofobi: non porgerai più l'altra guancia[...] sei un essere nuovo fiammante. Sei un essere rispettato, ascoltato, amato: ti scopri una vera famiglia, dei progetti, un ideale, diventi un fratello e cammini a testa alta tra gli uomini[...]le nozioni di Bene e di Male, tutto ciò che credevi di aver capito, imparato, vissuto ti crolla intorno come una cortina di polvere,sei di fronte all'unica verità che conta: te stesso, cioè un soldato di Dio o un seguace di Satana.  Arrivati a questo livello di levitazione, non c'è più marcia indietro possibile. Se togli anche un solo chiodo, crolla tutta l'impalcatura. E chi mai vuole assistere allo sfascio del proprio mausoleo?".

Ma levitare come un angelo non è proprio facile per Khalil.  Lo agitano i sospetti sui capi che gli hanno consegnato una cintura difettosa, come pure la sgradevolezza dei contatti con quelli che gravitano intorno alla Fratellanza per interesse.  Forse  la cosa più bruciante è smentire dentro di se l'idea inculcata dai Fratelli che gli effetti collaterali della guerra condotta dai puri per donare ad un  mondo recalcitrante il Bene, effetti quali uccidere degli innocenti o altri appartenenti alla tua stessa religione sono un male necessario.  Una cosa è certa: non riesce a fare a meno dell'affetto di Rayan che gli ricorda che non tutto è compiuto, si può ancora tornare indietro; ecco allora evocare le immagini delle vacanze felici nel Rif marocchino, l'amore per il mare, le parole semplici indirizzatigli da un vagabondo ubriacone che lui conosce fin da bambino: "vivi e lascia vivere". Tutto questo contribuisce ad allontanarlo dallo stato angelicale di martire in cui si sente immerso per sentire i morsi della sua umanità. Non cederà nemmeno al meschino surrogato del supremo sacrificio dell'esplosione salvifica consistente nel  farsi ammazzare dalla polizia con un modesto coltello in mano mentre grida contro i malcapitati di turno “Allahu akbar". Non sceglierà più mirabolanti e celesti scorciatoie.

Dopotutto si è sempre in grado di scegliere come individuo.

A volte Yasmina Khadra cede all'enfasi e alla retorica: ma una retorica nel senso più alto del termine, per niente vuota e parolaia e ricca di una profonda moralità.

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