Alice Zeniter- L'arte di perdere- recensione a cura di Giulia De Martino

Alice Zeniter

L'arte di perdere

edizioni Einaudi, 2018

traduzione di Margherita Botto

 

E' da qualche tempo che recensiamo testi di autori algerini o francesi di origine algerina; questa notevole produzione è segno di una volontà di superare, attraverso la letteratura, le vicende terribili intercorse in Algeria negli anni '90 ( o il decennio nero come è chiamata la guerra civile di quegli anni) e di interpretare o dare un senso a ciò che accade oggi con il terrorismo islamico.

L’autrice in questione, che ha già dato prova di sé in altri testi e a teatro come regista, con  l'apparizione di questo romanzo di circa quattrocentocinquanta pagine, ha ricevuto numerose espressioni di  ammirazione ed entusiasmo, non solo per lo stile brillante e curato, ma soprattutto per il suo soggetto. Si tratta infatti di un romanzo - possiamo tranquillamente definirlo storico -  che solleva un velo su una questione quasi misconosciuta ai francesi: il trattamento riservato a quegli algerini che nel 1962, alla firma degli accordi di Evian siglanti la fine della guerra contro il colonialismo francese e la nascita dell'Algeria indipendente, si trovarono a dover scegliere se restare francesi sia pure di serie B e partire per la Francia, sottraendosi alle rappresaglie dell'FNL, o adeguarsi alle nuove richieste del nascente governo. Una volta partiti, harki furono chiamati da entrambe le sponde, un appellativo che fu  sempre sinonimo di traditori.

La scrittrice proviene da una  di queste famiglie , pertanto ha voluto far  luce sulle situazioni che indussero circa centomila algerini a rifugiarsi in Francia nel 1962 e su come furono accolti in campi di rifugiati, recintati da filo spinato, con scarsissima assistenza medica, alimentare, scolastica (per i bambini e ragazzi  partiti al seguito dei capifamiglia), sbattuti ai margini di foreste o, in seguito, alloggiati in quartieri periferici tirati su in fretta e presto degradati dalla mancanza di manutenzione.

Certo il lettore italiano necessita di  qualche informazione in più, rispetto a quello francese. Spesso pensando alla guerra d'Algeria tutto quello che ci viene in mente è il bel film di Gillo Pontecorvo  "La battaglia d'Algeri" e non conosciamo la differenza storica tra un francese di origine algerina, in genere un artista o un intellettuale che ha studiato in Francia , un harki e il successivo immigrato algerino. Tutti  agitano problemi identitari, ma quelli del gruppo in questione sono più forti: non sono dei veri francesi, perché, da sempre tenuti ai margini, si sono rinchiusi nelle loro lingue d'origine arabo e kabilo e hanno un basso profilo d'integrazione.  Inoltre come algerini non possono tornare in Algeria, in quanto nemici della patria, neanche per far visita al resto dei famigliari rimasti al paese. E questo si estendeva fino a poco tempo fa anche ai discendenti di seconda e terza generazione, come è il caso della nostra autrice il cui nonno soltanto era stato, originalmente,un harki.

Ma l'autrice non vuole condurre una indagine unicamente sulla sua famiglia, il suo progetto è più ambizioso: da un lato vuole mettere in primo piano una vicenda storica, rimasta oscura per molti anni e a cui, solo di recente, lo stato francese ha concesso un qualche riguardo e attenzione; dall'altro intende anche sottolineare come, solo eliminando il rimosso,  un individuo  può capire chi è, cosa vuole o non vuole essere: un paese non si eredita solo con i tratti somatici. Si ribella all'idea che, in tempi di terrorismo e  xenofobia, lei debba essere inchiodata come algerina in forza del suo aspetto o di suo nonno harki e che in Algeria viga ancora una legge di sapore medievale che passa ai discendenti le colpe degli avi.

Anche la protagonista, la giovane gallerista d'arte Naima, alter ego della scrittrice, per gran parte dell'infanzia e della adolescenza è all'oscuro delle vicende del nonno: l' 'algeritude', come la chiama la Zeniter, è più che altro per lei e le sue sorelle un susseguirsi di pranzi con le famiglie dei fratelli  del padre a base di couscous e di storielle mitiche e rurali di quella parte di Algeria kabila montanara. O di divieti: non rispondete mai quando vi chiedono da quanto tempo la famiglia risiede in Francia, la data del '62 scotta: equivale a dichiararsi harki sia per gli altri algerini sia per i francesi. Per le figlie di Hamid, il primo figlio maschio del patriarca Alì, che non sanno nulla di ciò, si tratta di una ben misteriosa proibizione. Ma perché non andiamo in vacanza in Algeria come gli altri? Per molto tempo si accontentano di risposte più o meno pretestuose. Anzi il decennio nero  offre finalmente un motivo plausibile per rispondere a a questa domanda.

Il testo è tutto una lotta contro il silenzio, il silenzio del nonno, privato del suo ruolo di patriarca benestante e ridotto a quello di un  lavoratore analfabeta sfruttato,  morto troppo presto perché la giovane Naima potesse fargli delle domande serie; il silenzio del padre Hamid, che vuole scrollarsi di dosso l'Algeria e le terrorizzanti esperienze subite da bambino durante la guerra. Il silenzio della nonna Yema, che, occupata ad allevare 10 figli, non ha mai imparato il francese e non riesce a comunicare in arabo con dei nipoti che non lo parlano quasi per niente.

Il romanzo è diviso in tre parti: la prima parte ha per protagonista Alì, il nonno, e per sfondo la Kabilia, il sud provenzale e la Normandia. Alì è un contadino povero che si arricchisce con un ritrovamento mitico e miracoloso di un torchio arrivato a lui e ai suoi fratelli via fiume. Divenuto proprietario di estesi uliveti diventa uno dei maggiorenti del villaggio, facendo concorrenza agli Amrouche, clan rivale da sempre. E' stato nell'esercito francese, ha combattuto valorosamente nella seconda guerra mondiale e ne percepisce la pensione di guerra. Proprio perché ha conosciuto i francesi sotto il profilo militare e ne ha apprezzato l'organizzazione e la forza non pensa che lasceranno mai la colonia algerina e la difenderanno ad oltranza. Lui vuole stare dalla parte dei vincenti per poter mantenere lo status raggiunto. Un errore di valutazione di un contadino ignorante, chiuso tutto nei suoi principi di onore e attaccamento alla 'roba', tanto più che gli odiati Amrouche si sono invece avvicinati all'FLN.  Non ha combattuto contro altri algerini, ha cercato di difendere, alleandosi con la polizia francese, il suo villaggio dalla tattica dei rivoluzionari di reprimere , con atti spesso brutali, qualsiasi velleità di sottrarsi alla loro egemonia. Quando il pericolo di rappresaglie per sé e per i suoi diventa insostenibile, imbarca, nel 1962,  la sua famiglia tra le ultime navi che trasportano pied noir e harki a Marsiglia, andando incontro fatalmente al destino di espatriato.

La seconda parte è essenzialmente la storia del figlio Hamid, il padre di Naima, che ha conosciuto l'infanzia libera dei bambini kabili, ma è rimasto traumatizzato dai feroci atti di guerra di entrambe le parti, tanto da continuare ad avere incubi o insonnie anche da adulto. Cancellare l'Algeria è per lui l'unica  risposta al suo malessere. Si trasferisce dalla Normandia a Parigi, studia come un matto, ma si sceglie un lavoro non troppo importante che gli consente di non uscire fuori dal suo perenne stato di sradicamento, sposa una francese non intellettuale con cui condivide una vita al riparo dagli scossoni, mediocremente francese.

La terza parte vede in campo Naima, la figlia di Hamid e Clarisse. Vive una vita libera a Parigi, non intende avere legami duraturi, crede nell'amicizia e cerca di limitare i rapporti famigliari all'essenziale.

E' proprio dal suo lavoro di gallerista che arriva l'imput per un viaggio in Algeria : il suo capo e amante la vuole spedire laggiù per organizzare una mostra dell'artista kabilo Lalla, ormai ritiratosi in Francia, malato di cancro e disilluso sulle capacità del suo paese di uscire fuori da una crisi che domina ormai da tempo.

In lei si stanno già attivando inquietudini rispetto al rimosso della famiglia e del paese sugli harki, su questa sua ricerca del passato  si accumulano  i libri e gli studi, ma tarda a fare le pratiche per partire: ha paura di quel viaggio che potrebbe siglare in modo definitivo la sua appartenenza all'Algeria kabila, da cui ha sempre tentato di fuggire. Il fatto è che lì incontra un paese che i suoi non hanno mai visto nè conosciuto: non è più solo il paese degli ulivi, delle capre, delle montagne, della miseria e dei racconti mitici. L'Algeria di Tizi Ouzou - una città importante per la cultura-  le si rivela come un posto pieno di artisti , intellettuali, donne audaci e indipendenti, capaci di relazioni stimolanti. Con tutto questo lei pensa di avere  finalmente una affinità, dopo aver passato una vita a chiedersi che cosa avesse da spartire con la Kabilia.

"La terza parte - afferma la stessa Zaniter - finisce come è cominciata perché Naima dice che quel viaggio l'ha acquietata, probabilmente,  e che alcune delle sue domande hanno trovato risposta, ma sarebbe sbagliato scrivere un testo teleologico su di lei, come i romanzi di formazione. Lei non è arrivata da nessuna parte nel momento in cui ha deciso di interrompere il testo, lei è movimento, avanza ancora."

Terminiamo con le parole della  giovane autrice, per indicare che una cultura non è per sempre, un'appartenenza muta nel tempo e nello spazio, le identità sono in perenne marcia nel mondo di oggi,  solo stati o governi incapaci e culturalmente retrogradi  possono pensare di fissarle con leggi e decreti.

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