Ayesha Harruna Attah - I cento pozzi di Salaga - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

Ayesha Harruna Attah

I cento pozzi di Salaga

Marcos y Marcos, 2019

traduzione di Monica Pareschi

 

Nascita in Ghana, studi in America, attuale residenza in Senegal: questo il profilo della giovane e promettente scrittrice, in Italia tradotta per la prima volta con un romanzo accattivante e ben confezionato che si svolge alla fine  dell' '800 nel Ghana precoloniale.

Non è ben chiaro se è un trend indotto dall’editoria o è un clima culturale che si sta diffondendo tra i giovani ( ma non solo) scrittori africani o di  origine africana o entrambe le cose,  ma sono diversi i testi di ricostruzione storica o di un passato recente coloniale e post-coloniale o di un passato lontano, cui si vuole dare una voce che finora è mancata.

Sicuramente, in questa autrice,  si sente l’eco di “Non dimenticare chi sei” della ghanese-americana Yaa Gyasi, con una attenzione alla intelligente costruzione della storia, resa con l’alternarsi dei capitoli che seguono le emozionanti avventure delle due donne protagoniste, con il piglio incalzante e appassionante dei grandi romanzi popolari.

Dunque, abbiamo Aminah, figlia di un modesto artigiano di Botu, un villaggio di poche centinaia di persone, posto sulle rotte delle grandi carovane che, dal deserto, scendono verso la Golden Coast: la ragazza, infatti, vende cibo ai carovanieri di passaggio, sognando però di poter fare l’artigiana di scarpe come suo padre, mestiere non previsto dalla società patriarcale in cui vive.

Due eventi sconvolgono la sua vita, che avrebbe potuto essere come quella di qualsiasi ragazza del villaggio: la scomparsa misteriosa del padre, il rapimento da parte di una banda di predoni che procurano schiavi ai mercanti per venderli al mercato di Salaga, la dispersione della sua famiglia. Una ragazza bellissima, dolce e docile, ma che sa il fatto suo per sopravvivere e conservare i sogni, tirando fuori una determinazione che neanche lei stessa pensava di possedere. L’altra, Wurche, di etnia Gonya, figlia del re di Kpembe Etuto, mascolina di aspetto e di spirito, dotata di una grinta, sconveniente in una fanciulla da marito, fortemente interessata non solo alle armi, tradizionalmente maschili, condivise con i fratelli, ma anche al momento politico particolare che attraversa la sua gente e su cui vorrebbe intervenire, con dei consigli al padre, per cercare di smussare le perenni ostilità guerrafondaie tra i diversi rami della famiglia reale.

Ci troviamo infatti nel periodo in cui, in quella zona, cominciano a gravare gli interessi di tedeschi, inglesi e francesi : questi  hanno sostituito portoghesi e olandesi nella penetrazione dei territori e nei commerci e , approfittando delle rivalità esistenti tra i vari gruppi etnici o dei conflitti per il potere tra rami affini, in modo particolare offrendo aiuto militare contro il predominio degli Ashanti, inducono uno schieramento forzato all’uno o all’altro stato europeo.

Gli europei avevano accelerato, cambiandone i connotati,  la tratta degli schiavi, già esistente ma con caratteristiche autoctone. Ora, però, dopo l’abolizione della schiavitù, i loro interessi si erano rivolti alle risorse e  all’acquisizione di territori.

Le vite delle due ragazze s’incrociano, ma non subito, ed entrambe si innamorano, in tempi diversi,  dello stesso uomo, il bellissimo Moro, capo dello squadrone a cavallo che ha rapito Aminah, anche lui ex-schiavo e che non si fa troppe domande sul suo mestiere. Non diciamo null’altro, per rispettare l’abilità della scrittrice nell'offrire una lettura fatta anche per il piacere di sapere “come va a finire”.

La vicenda procede con le caratteristiche del romanzo di formazione: dopo aver attraversato matrimoni combinati, a cui nessuna donna può sottrarsi, padroni buoni o cattivi, solitudini infinite, sensazioni di impotenze nel non riuscire ad uscire dai ghetti fisici e mentali cui sono confinate le donne,amici tedeschi e inglesi interessati  e disinteressati, le protagoniste si trovano trasformate, alla fine dell’avventuroso percorso.  Diventano responsabili delle proprie scelte, accolgono con maggiore consapevolezza ciò che ha offerto loro il destino, amano con una diversa sensibilità: forse il cambiamento è possibile. Anche gli altri personaggi mutano, accorgendosi dei propri errori e difficoltà, compreso il tenebroso Moro.

Queste donne ci sono vicine, sono nostre contemporanee, per come vivono i sentimenti, il sesso, la voglia di riuscire nella vita familiare e nel lavoro, un innato senso della giustizia e dei valori fondamentali che servono al vivere civile.

L’attenzione dell’autrice, più che a un ovvio discorso sulle responsabilità dei futuri colonialisti, si rivolge alle  strutture politiche e sociali tradizionali che rappresentano il contesto in cui si svolge la trama. Nessuno è innocente, neanche gli africani. Neanche le donne anziane, che, avendo introiettato come propri i valori maschili, li ripropongono, nell’educazione, alle bambine e alle ragazze. La presenza degli schiavi, anche se non conosceva i grandi numeri che assunse con la rotta atlantica praticata dagli occidentali, la sottomissione femminile, il maschilismo preponderante, di origine religiosa e non, la violenza domestica  sono, agli occhi dell’autrice, degli elementi su cui gli africani devono riflettere.

Ma la scrittrice si spinge anche più in là: allude alle unioni interrazziali con i nuovi venuti, alla possibilità di scegliere la sessualità che più è confacente alla persona, al superamento delle barriere di classe, tutto nella direzione di una erigenda società più armonica. Sullo sfondo s’intuisce un islam che convive con le tradizioni e i culti locali, che non conosce le asprezze del radicalismo religioso, oggi dilagante.

La ricostruzione degli ambienti è molto interessante, arriviamo a percepire i materiali usati, apprendiamo le tecniche di costruzione delle case povere e delle regge, gli oggetti di uso comune e di culto, le armi, l’abbigliamento e il cibo.

Particolare è la descrizione dei pozzi di Salaga, di cui nel titolo: erano stati costruiti per permettere il lavaggio degli schiavi, prima che venissero messi in vendita nella piazza principale del mercato. Anche la ricostruzione della vita di Salaga-Kpembe, di Kete-Krachi ( non preoccupatevi, il testo è provvisto di una cartina, seppure minimale) è molto vivace e ricca di particolari che ci permettono di ‘vedere’ uno scorcio storico del XIX secolo. di queste cittadine, prima dell’arrivo degli europei,

La narrazione è scorrevole e punta su un linguaggio semplice che tuttavia sa far leva sulle emozioni del lettore.

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