Filomeno Lopes- Dalla mediocrità all'eccellenza - Riflessioni filosofiche di un immigrante africano - a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 Filomeno Lopes

 Dalla mediocrità all'eccellenza

 Riflessioni filosofiche di un immigrante africano

 Edizioni SUI, 2015

 

Perché trattare il tema dell'immigrazione da un punto di vista filosofico? Proprio perché è tipico del discorso filosofico andare al di là di mere constatazioni del fenomeno: non si tratta di spiegare come funziona l'immigrazione e proporre soluzioni pratiche. A questo pensano le scienze sociali, politiche e geopolitiche .  Il discorso filosofico vuole cercare di capire che cos'è l'immigrazione in quanto atto e fattore comunicativo.

Filomeno Lopes parte da un punto di vista cristiano e cattolico, ma in un modo, crediamo, che può essere condiviso in gran parte anche  dai laici.

Se partiamo dal principio che la mia cultura è l'unico modo che ho di essere là nel mondo, l' unico che ho  per partecipare all'esistenza in quanto realtà storica ; se accettiamo l' attuale messa in crisi del mito dell'universalità della sola cultura euronordoccidentale e il fatto che il mondo che abitiamo oggi è un mondo sinfonico, allora lo stradario comunicativo della pluriprospettiva sinfonica è l'unica possibilità per costruire un ponte di dialogo interculturale adatto alla costruzione di un mondo all'insegna della dignità dell'essere umano  creato a immagine e somiglianza di Dio.      

Lopes adopera il termine di immigrante  e non immigrato ( definizione statica e geopoliticizzata) proprio per partire da questo concetto: l'immigrazione non è un fenomeno transitorio, ma permanente nella e della storia dell'umanità. L'essere umano è nella sua essenza  un homo viator, dagli albori della sua apparizione su questa terra. L'immigrazione è un fenomeno antropologico connaturato alla condizione umana.

Quando nasciamo e facciamo irruzione nel mondo immigriamo dal mondo di Dio, ci ricorda Lopes, a quello della storia, troviamo il tu sei, i loro volti e le loro mani, pronti a darci ospitalità per farci incamminare nel nostro breve pellegrinaggio su questa terra. E il tu sei sarà ancora lì alla sera della nostra vita, per accompagnarci nel cammino a ritroso. Per questo in molte culture africane si lavano i morti in memoria dell'atto dell'ospitalità che ci fanno gli altri, compiuto alla nascita, e non solo per un atto di igiene.

Anche i riti tradizionali d'iniziazione ricordano al neofita che la vita e la morte dipendono sempre dall'altro, che la sua terra è sempre degli altri, quegli stessi che incontra all'inizio, durante e che incontrerà alla sera della sua vita, in ogni dove e altrove. L'immigrazione è dunque la questione dell'ospitalità nella responsabilità davanti all'irruzione dell'altro lungo i nostri percorsi vitali.

Oggi, però, l'immigrazione è diventato il luogo dello svelamento delle frontiere dell'esclusione della democrazia liberale, una filosofia della storia organizzata dai paesi ricchi contro i paesi indigenti, compresi gli stati in difficoltà all'interno degli stessi paesi euronordoccidentali com'è il caso, per esempio,  della Grecia, del Portogallo, della Spagna e dell'Italia. Non c'è più spazio e tempo per il "povero", se poi questo ha il colore della pelle sbagliato e viene dall'Africa il gioco è fatto.

Fu a partire dal secolo XV-XVI che l'Europa inventò lo ius migrandi per sancire l'era delle conquiste del pianeta e la globalizzazione mercantile, trasformando poi la mondializzazione delle nuove possibilità per tutti, in rischi e distruzione per l'80% dell'umanità e in benefici per il rimanente 20% , coincidente con il Nord del mondo. Niente male se si pensa che quest'ultimo si dichiara cristiano, mentre esclude dal banchetto comune della mobilitazione planetaria e dall'accesso ai beni la quasi totalità dell'umanità, con particolare accanimento nei confronti di quell'Africa da cui si sono mossi i sapiens per dare origine al popolamento del mondo. E non basta: emigrare da Nord verso Sud è un diritto-dovere della globalizzazione, mentre invece emigrare dal Sud verso il Nord è  diventato una minaccia/reato e chi lo fa deve  accontentarsi  dello statuto della mediocrità che sottostà al paradigma dell'immigrazione.

In che senso mediocrità? La persona che emigra non è considerata soggetto dello sviluppo dell'ambiente in cui arriva, non può aspirare in alcun modo all'eccellenza umana e al diritto e dovere di cittadinanza globale come avviene per tutti coloro che emigrano dal Nord al Sud.

Questa realtà è particolarmente presente in Italia dove lo ius soli viene discusso (e negato) come se fosse un'elemosina da elargire e la terra fosse di proprietà di partiti e movimenti  che utilizzano il tema immigrazione in chiave elettorale e per continuare ad avere un posto al sole nella geopolitica europea. La sociologia delle relazioni internazionali è diventata una sociologia della sicurezza. Non ci si domanda se sia legittimo privare degli esseri umani del diritto alla libertà di spostarsi per cercare di vivere, si gioca la carta del calo demografico per creare angoscia e panico per far credere ad una sostituzione etnica, alla fine della propria cultura e stile di vita.

La mobilità umana che è sempre stata una sfida per concorrere a cercare nuove soluzioni di vita per il mondo è ora una minaccia, di fronte alla quale opporre frontiere chiuse, proprio quando si tende a sopprimerle per la circolazione di beni e capitali. Ne consegue, per l'erezione della fortezza occidentale come risposta all' "invasione", una politica dell'immaginario collettivo, basata sulla paura, sulla sicurezza, sulla tolleranza zero, su pregiudizi e razzismo, sulla sostituzione dell'imbecillità e della "pancia" al dialogo e alla discussione: il politico che la spara più grossa vince...in Italia come in altri paesi occidentali.

Gli stati del Nord sono stati paesi di immigrazione dopo le due guerre mondiali per coloro che provenivano dai paesi più poveri del Sud Europa e dell'Est: per molto tempo era normale vedere arabi mediorientali, nordafricani, turchi, indiani e pakistani, cinesi e vietnamiti  insieme a greci, spagnoli, italiani e portoghesi, sudamericani. Senza contare le provenienze dai paesi di area sovietica. Oggi l'afflusso dei nuovi arrivati proviene in gran parte dall'Africa subsahariana, dove la crescita demografica si accompagna ad una forte mobilità continentale e mondiale.

Il caso africano deve far riflettere: se il Sud è giovane e povero a livello infrastrutturale è contemporaneamente il ricchissimo serbatoio delle risorse per un futuro dello sviluppo umano integrale planetario. Mentre il mondo ricco, particolarmente europeo, è attraversato da una crisi seria, alcuni paesi africani stanno conoscendo un'esponenziale crescita economica dal 5 al 10% annuo. Il che sta generando non solo un viavai di uomini e donne d'affari, ma anche movimenti migratori di persone delle classi medie in cerca di migliori condizioni di vita che i loro paesi sembrano non offrire più.

Basterebbe dare un'occhiata ai professionisti portoghesi e italiani che in Angola e in Mozambico stanno profittando delle opportunità offerte da questi paesi. In Senegal si concentrano molti giovani quadri europei attratti da offerte lavorative interessanti per chi è agli inizi di una carriera. E non parliamo solo di europei, ma anche di molti asiatici che, oltre ai paesi del Golfo, scelgono l'Africa come terra di opportunità.

Ma di tutto questo la maggioranza dei media non dice nulla, concentrati come sono sugli sbarchi e sulle paure. Non solo non si parla di una tradizione africana allo spostamento, ma neanche si parla della migrazione interna all'Africa stessa che è la prima ad essere affrontata dai giovani.

Anche in Africa però sta avvenendo qualcosa di nuovo: i governi, allineati sulla falsariga occidentale, stanno mettendo in atto politiche antimigranti, un tempo impensabili. Barriere, frontiere militarizzate, delazioni di cittadini contro i clandestini, caccia ai migranti, aggressioni e morti: l'"ognuno per sé Dio, per tutti" cancella tradizioni secolari di mobilità e ospitalità. Si fanno leggi la cui mancanza di umanità gareggia con i tentativi europei ed italiani di cancellare il diritto al soccorso in mare dei migranti che da sempre, per esempio, i pescatori siciliani hanno praticato.

Gli aggiustamenti strutturali degli anni '80, l'indebitamento continuo dei governi che distruggono quel po' di stato sociale che era stato creato all'indomani dell'indipendenza, la depauperizzazione dei contadini a causa anche delle crisi ambientali, la forbice di ricchezza che, qui come altrove, provoca forti risentimenti in chi ha poco o nulla fa sì che, anche in Africa, gli stranieri diventino il capro espiatorio di una crisi economica che non si riesce a tollerare, in nome di una origine minacciata (etnica, regionale, nazionale che sia).

La ricerca della sicurezza si è sostituita a quella della giustizia sociale, senza pensare che sicurezza vuole dire non solo esercito o "pacchetti sicurezza" contro i migranti criminalizzati ma creare le condizioni per una economia stabile, per una riduzione del divario sociale, per una buona istruzione che crei opportunità di lavoro e  ricerca, senza far scappare all'estero, come succede in Italia,  i giovani .

Il politico, soprattutto in Italia, accecato dalla miopia neoliberale e da un egoismo provinciale e localistico si deresponsabilizza sulle cause che stanno all'origine delle migrazioni forzate odierne, si fa populista e imprenditore della paura e resta indietro anche rispetto agli altri paesi ex-coloniali che, per un qualcosa che non osiamo chiamare responsabilità storica, mantengono legami culturali ed economici con le ex-colonie, che diventano grandi spazi di mercato e di investimento culturale -linguistico.

Quale è la posizione delle attuali classi dirigenti africane rispetto all'emigrazione dei giovani? Un silenzio tombale come quello dell'Unione africana e del Secam (conferenza episcopale africana). Papa Francesco quando si è recato a Lampedusa è stato lasciato solo, non c'è stato nessun rappresentante delle due organizzazioni, a testimoniare quanto meno un interesse simbolico.

In questo modo la immigrazione diventa non una questione di diritti e doveri nei confronti dei migranti in quanto problema collettivo dell'umanità, ma solo una questione di solidarietà che impegna non le classi politiche ma i singoli cittadini più sensibili e gli organismi delle associazioni civili e religiose. Ma quando  non ce la faranno più, che accadrà?

E' proprio la crisi attuale che dovrebbe aiutare a operare un cambiamento nei confronti dei migranti: permettere di liberare la loro creatività al servizio dei paesi di accoglienza, renderli soggetti attivi dello sviluppo, approfittare del fatto che sono più abituati ad inventare soluzioni in situazioni di crisi, più motivati ad emergere dalla condizione di mediocrità all'eccellenza. Hanno già avuto esperienza della crudeltà dei sistemi economico-finanziari internazionali che ora tengono in scacco i paesi più fragili europei. I migranti che provengono da Africa e America Latina, a causa delle colonizzazioni, non sono tabula rasa nei confronti della cultura e delle lingue euronordoccidentali.

E' vero, in Italia, il problema della lingua esiste: il legame linguistico-culturale con gli eritrei e i somali è ormai molto debole, dal momento che non è stato coltivato, come hanno fatto Francia Inghilterra e Portogallo, creando istituzioni per le aree francofone, anglofone e lusofone. Comunque chi arriva ha già un minimo di bagaglio su cosa significa essere un europeo, se non altro perché oggi ne condivide l'immaginario, diffuso attraverso la tecnologia del web.

Ma l'autore si chiede anche se la diaspora africana in Italia sarà capace di orientare la società italiana ad uscire dal paradigma dell'immigrazione ed abbracciare quello dell'ospitalità. Perché il rischio è che ciascun migrante si ritiri dentro la propria sfera, pensando esclusivamente al suo 'arricchimento' individuale, accodandosi alla logica  del "si salvi chi può", preoccupati solo di far uscire la sua famiglia dal disastro economico.

In Italia la partenza per un dialogo culturale serio tra la classe intellettuale africana e quella italiana è stata complicata dal grande rimosso storico del colonialismo italiano che è stato imperante quasi sino alla fine degli anni '80. Non è perciò avvenuto un dibattito culturale, a livello di opinione pubblica sulla questione postcoloniale come, per esempio, in Francia, Inghilterra, Olanda, Germania.

Il dibattito storico è certamente avvenuto, ma nel chiuso delle università, senza un serio impatto sui media. Ricordiamo la difficoltà dello storico Angelo Del Boca nell’imporre all'opinione pubblica certi argomenti che venivano considerati tabù come le leggi razziali nell'Africa orientale, le stragi, le persecuzioni, i campi di concentramento che ledevano quell'immagine in cui si era rincattucciata l'Italia postcoloniale: in fondo non era stato un colonialismo cattivo, in fondo gli italiani erano, sono 'brava gente'...

L'autore fa delle considerazioni interessanti sul rispetto della memoria storica della shoa degli ebrei, l'unica che gli italiani sembrano in grado di accettare: sappiamo come una frase, una allusione non corretta, la profanazione di lapidi,  susciti immediatamente ondate di sdegno. Tutto questo succede per la capacità della comunità ebraica di far sentire la loro memoria storica dello sterminio come un monito che riguarda l'umanità tutta.

Ma sono capaci di fare questo gli africani della diaspora nei confronti dei fatti storici drammatici della negazione ed esclusione dell'umanità africana dalla storia? Spesso sono rimasti intrappolati nella cosiddetta 'intercultura' della cucina tipica, della musica, della danza, dell'incontro spicciolo, che per carità sono pure importanti per conoscere i diversi da me. Stiamo parlando di quello che hanno fatto gli intellettuali africani della prima ora (prima delle indipendenze e dopo) e degli afrodiscendenti per ingaggiare un serio incontro filosofico, fatto anche di incomprensioni e fraintendimenti, con gli intellettuali inglesi e francesi. Questo in Italia si è verificato in modo frammentario un po' a livello filosofico, un po' antropologico e anche letterario, ma non in modo collettivo e paritario.

L'Italia sembra prigioniera del suo glorioso e insostituibile passato artistico e di una tradizione culturale di pensiero che oggi hanno bisogno di confrontarsi con situazioni e funzioni nuove, pena una asfissia intellettuale: questo slancio creativo può avvenire lavorando insieme agli intellettuali della diaspora per la costruzione di una nuova soggettività capace di avvicinare le persone le une alle altre. Per un'apertura di spirito verso il mondo dell'altro, consentendogli di "sentirsi accolto con le tradizioni, memorie, cultura del nostro mondo evitando così agli immigrati di avere un rapporto semplicemente nostalgico rispetto alle proprie culture d'origine o peggio ancora di vivere perennemente nella condizione e situazione di doppia assenza rispetto al passato e al presente del futuro." Questo significa acquisire la capacità di saper dare risposte alle angosce di una perdita identitaria, creando spazi per ridimensionare il proprio mondo di origine, utilizzando le prospettive e le esperienze che si sono aperte nel percorso diasporico.

Ma la capacità di creare progetti si accompagna a quella di consentire ai migranti di orientarsi meglio nel mondo della comunità di accoglienza, affinché imparino a leggere i suoi codici e anche a lottare per il compimento dei loro diritti-doveri di partecipare pienamente alla vita pubblica, politica, religiosa e non di partecipare solo nello sviluppo economico.

Interessante a questo proposito l'analisi dell'avventura politica di Cécile Kyenge, considerata come una occasione sprecata per l'apertura di un dialogo interculturale, abortita ancor prima di nascere, per un provincialismo del PD, per una mancanza di coraggio storico prima che politico.

Nelle pagine di Filomeno Lopes aleggiano i suoi miti  e le sue letture: Amilcar Cabral, Frantz Fanon, Cheikh Anta Diop, Jean Marc Ela, Aminata Traoré, Fornet Betancourt, Achille Mbembe, Ebussi Boulaga, J. Ki-Zerbo ma anche Roberto Mancini , Zigmunt Bauman e papa Bergoglio.

Fa piacere a noi di Scrittidafrica la splendida rilettura del romanzo "L'ambigua avventura" di Cheickh Hamidou Kane, che muove una rigorosa e impegnativa analisi filosofica, sotto forma narrativa,  dell'incontro-scontro con la civiltà occidentale e del coraggio di riconoscere la propria morte culturale per aprire nuovi sentieri che possano far scaturire una nuova soggettività storica. “L'era dei destini singoli è compiuta. In questo senso, la fine del mondo è venuta davvero per ognuno di noi, perché nessuno può vivere della sola preservazione di sé".

 

 

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