Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (recensione di Yasmine Roberta Catalano)

Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio

Edizioni e/o, Roma, 2006
Pagg. 187, € 12,00

 

 A sette anni dal suo primo romanzo bilingue arabo/italiano Le cimici e il pirata (Arlem editore, Roma 1999), l'algerino Amara Lakhous propone il suo nuovo lavoro - insignito del Premio Flaiano per la narrativa 2006 - da lui riscritto in italiano dopo la pubblicazione dell'opera in arabo intitolata Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda (edizioni Al-ikhtilaf, Algeri 2003).
La Roma presentata dall'autore è una lupa che allatta figli molto diversi tra loro, ognuno con la sua storia, ognuno con un'origine diversa, e con diversi punti di riferimento nella città: la stazione Termini, l'università, il bar di piazza Vittorio, il suo mercato.
Proprio a piazza Vittorio viene consumato un crimine, intorno al quale ognuno dei dodici protagonisti ci consegna la sua verità e la sua storia. Un bieco personaggio soprannominato "il Gladiatore" viene trovato morto nell'ascensore condominiale e l'indiziato principale è l'algerino Ahmed, meglio conosciuto come Amedeo, di cui ognuno prende le difese. E, come in un vero e proprio processo, i personaggi sfilano uno ad uno raccontando la loro testimonianza.
Il primo a presentarsi è l'iraniano Parviz, che dopo aver ammonito: "Non abbiate fretta. Permettetemi di dirvi che il vostro grande difetto è la fretta. (…) Bevete il caffè come il cowboy il suo whisky!", sottolinea perentorio: "Io sono un rifugiato, non un immigrato", per poi giustificare la sua incompatibilità con la cucina italiana affermando che è inutile impararla, "perché non rimarrò molto a Roma. Tra poco tornerò a Shiraz. Ne sono certo".
Segue la portinaia Benedetta, che in un vivace napoletano esprime il suo disappunto e i suoi fermi sospetti riguardo a Parviz, individuandolo senza dubbio come albanese, il quale le ripete spesso quel bieco "mersis" che, ne è sicura, non può essere altro che una parolaccia.
Quando poi compare in scena il bengalese Iqbal, apprendiamo la differenza tra l'italiano razzista e quello tollerante: "il primo non ti sorride e non risponde al tuo saluto se gli dici ciao, buongiorno o buonasera. (…) Mentre l'italiano tollerante sorride molto e saluta per primo"; forse, come aggiunge Ahmed, "il razzista (…) non sorride al prossimo perché non sa sorridere a sé stesso".

 Attraverso i racconti ci imbattiamo, tra gli altri, nel problema dei nomi delle persone, storpiati, inventati, invertiti, che ogni volta creano confusione e disagio. Tra i personaggi troviamo la signora Elisabetta, che alla luce dell'adorazione per il suo cane elabora articolate teorie circa l'alleanza segreta tra i sardi e i cinesi che si sarebbero messi a rapire i cani avendo compreso quanto questi siano di gran lunga più amati degli uomini. È un ritratto delizioso, sembra di vederla, isterica ostinata nella sua disperata ignoranza. Canina.
Squisita è anche la filippina Maria Cristina, che nelle sue lunghe giornate rinchiusa a badare alla signora Rosa, inveisce contro i personaggi cattivi delle telenovele. Compare anche il signor Antonio, milanese diffidente verso i romani perché "sono animali selvaggi", che con le sue teorie rappresenta il trionfo dei pregiudizi verso il sud del mondo, in un quadro di uomini e donne trincerati tra gli specchi delle loro paure.
Romano è invece il barista Sandro, con tutto il suo bagaglio di leggende metropolitane. A difendere Ahmed infine si aggiunge la sua compagna Stefania, che racconta come per lui "la memoria è come un ascensore guasto". Lo difende anche l'algerino Abdallah, nonostante disapprovi il fatto che si facesse chiamare Amedeo e non Ahmed, perché "cambiare nome è un peccato capitale come l'omicidio, l'adulterio, la falsa testimonianza, come derubare gli orfani". In realtà Ahmed si chiede se "esiste un conflitto silenzioso tra Amedeo e Ahmed" e sostiene che "è meraviglioso potersi liberare dalle catene dell'identità che ci portano alla rovina", fino a comprendere che "quello di cui mi importa veramente è come farmi allattare dalla lupa senza che mi morda".

A svelare la verità sull'omicidio è il commissario Bettarini, alla fine del libro, quando ormai ci siamo accorti, pagina dopo pagina, che scoprire l'identità dell'assassino non ha più ormai molta importanza, rimane un particolare a margine della vera storia, quella dei personaggi di piazza Vittorio.
Tra un intervento e l'altro, il giovane olandese Johan si rivolge ad ogni personaggio invitandolo a partecipare al film che sogna di realizzare. A libro chiuso viene da congratularsi con lui, perché sembra di aver appena letto la perfetta sceneggiatura del suo lavoro. E invece occorre congratularsi con Amara Lakhous, che ha scritto un'opera deliziosa, delicatissima nell'affrontare problemi seri e profondi, estremamente rispettoso nel trattare ognuno dei suoi personaggi, persino il più svitato, persino il più folle. Il tutto condotto con un'ironia, una finezza, una teatralità davvero rari.
Da leggere tutto d'un fiato. E, vi assicuro, dopo aver letto questo libro, se vi capiterà di passare per piazza Vittorio, non la guarderete più nello stesso modo, e cercherete tra i volti quello di un bengalese, di un iraniano, di un algerino che avete conosciuto.

Yasmine Roberta Catalano

 © Scritti d’Africa, 2006

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