Igiaba Scego, Oltre Babilonia

Donzelli Editore, Roma, 2008
Pagine 464, euro 17,50


“Quando parla, mia madre è sempre gravida. Partorisce l’altra madre, la sua lingua.
Mi piace ascoltarla. Mi fa viaggiare dentro di lei. Vorrei stare zitta per sempre, solo ascoltarla…
invece poi devo parlare anch’io e ogni volta la mia  voce esce titubante… ogni volta vorrei piangere, ma mi trattengo.
A mamma piace il mio misto di somalo e italiano, dice che è la mia lingua. Io però me ne
vergogno. Vorrei essere perfetta in ognuna delle due, senza sbavature. Ma quando ne parlo una, l’altra  spunta sfacciata, senza essere invitata. In testa corto circuiti perenni. Io non parlo, mischio.”

Tre continenti in un solo libro, anzi in una sola città, Roma - dice Sandro Portelli in una recensione di questo testo. In effetti, le storie si dipanano tra Roma e Tunisi, tra la Somalia e l’Argentina: da una  Roma caotica, vista soprattutto con gli occhi di Zuhra, una ragazza somala cresciuta in Italia,  commessa in un megastore di musica, incasinata, autodistruttiva, ma che sa guardare il mondo con la lente dell’ironia, talvolta di un vero e proprio umorismo, veniamo catapultati a Tunisi.
Anche questa città è rappresentata ai limiti della invivibilità (con il suo correlato di calma nella spiaggia di Madia);   penetriamo dentro la Bourghiba school, tra i caffè e le relazioni che si instaurano tra i diversi e variopinti frequentanti, nella grande e centrale avenue Bourghiba, vetrina buona per abbagliare gli occidentali, pensa Zuhra, insoddisfatta e sospettosa di questa Tunisia dove tout va bien. Questa scuola di arabo, dove si conosceranno molti dei protagonisti della storia, imprimendo una svolta alla propria vita, svolge un po’ il ruolo della villa del delitto nelle storie gialle alla Agata Christie, dove sono tutti racchiusi insieme fino a che si comincia a intravedere la verità. 
Ma questi spazi ne contengono altri, gli spazi della memoria passata. Una Somalia felix, colta nei primi tempi delle speranze dell’indipendenza, una Somalia umiliata e violata durante il colonialismo italiano, la Somalia buia e feroce di Siad Barre prima, della guerra civile poi, da cui è scappata Maryam, la madre di Zuhra. E ancora l’Argentina della  dittatura, delle torture e dei desaparecidos, da cui è fuggita Miranda, la madre di Mar, che ha in comune con Zuhra, senza saperlo, il padre somalo, marito di Maryam.
Ma la babilonia del mondo e della storia è anche babilonia dei sentimenti: due madri, cariche di errori, rimpianti, vergogna; un padre inaccessibile e reso mitico dalla distanza; due figlie, cresciute come hanno potuto, piene di risentimento e rabbia, ma anche di tanta capacità di resistenza e di voglia di amare, nonostante tutto. Tutti hanno delle ferite profonde (come del resto la maggioranza dei personaggi della storia) e per questo non riescono a comunicare, ad accettarsi e ad amarsi.
Il fatto è che le ferite della Storia (quella con la S maiuscola) passano attraverso i corpi. Stupri e suicidi, sangue mestruale e bulimie, molestie sessuali, violenze fisiche segnano i corpi, ma corrodono anche le anime. Ognuno reagisce alle ferite spegnendo qualcosa di vitale, per cercare di azzerare il dolore. Il lettore apprende gli eventi a poco a poco dalle confessioni dei protagonisti, identificati da nomignoli, che si affidano, per parlare, alla scrittura e al registratore: la negropolitana, Zuhra, in lotta con le sue molteplici identità e con concittadini italiani ed europei che fanno fatica a percepirla come italiana a tutti gli effetti, la nus-nus, la mezzo e mezzo in somalo, nera nella pelle, che è l’unica cosa della Somalia che conosca, eternamente impiastricciata con creme per rendere lisci e setosi i capelli, indecisa tra gli uomini e le donne; la reaparecida, l’argentina Miranda che deve scontare un rapporto di perversa ambiguità intrattenuto con la dittatura attraverso la frequentazione erotica di un ufficiale torturatore; la pessottimista, Maryam, (epiteto tratto in prestito dall’autore palestinese Emil Habibi) che ha affogato nell’alcool tutte le sue perdite; il “padre”, Elias, che non dice nulla di sé, se non che è stato un grande e geniale coutourier africano, e parla invece della violenza subita da entrambi i suoi genitori ad opera di ufficiali italiani fascisti durante la seconda guerra mondiale, paradigma di tutte le violenze che si agitano nel romanzo, da cui scaturiranno scelte di vita, foriere di conseguenze per le giovani protagoniste.
E la babilonia è anche la babele straordinaria dei linguaggi presenti nel testo: scene da film e e-mail, pezzi di  trasmissioni televisive, musica e canzoni, storie orali e poesie, stoffe e moda. I personaggi passano dall’inglese allo spagnolo, dall’arabo al somalo, dall’italiano al gergo romanesco dei giovani della generazione di Zuhra.
La sovrabbondanza regna sovrana in questo romanzo di più di 450 pagine, affollato da decine di personaggi, tutti desiderosi di consegnarci il loro pezzo di realtà, la loro visione del mondo.
Il libro affida le conclusioni ad un piccolo delizioso apologo, quello della rana dell’uomo del Burundi, pescata in giro per il web dalla negropolitana, che non raccontiamo, ma che racchiude la possibilità di trasformazione e speranza di un mondo finalmente capace di comprendersi e salvarsi, proprio perché  ibrido.
Del resto, dice Igiaba Scego nella pagina dei shukran: “ce la possiamo fare, dobbiamo fidarci di noi”.


Giulia De Martino

© Scritti d’Africa, 21 ottobre 2008

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