Filomeno Lopes- Dalla mediocrità all'eccellenza - Riflessioni filosofiche di un immigrante africano - a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 Filomeno Lopes

 Dalla mediocrità all'eccellenza

 Riflessioni filosofiche di un immigrante africano

 Edizioni SUI, 2015

 

Perché trattare il tema dell'immigrazione da un punto di vista filosofico? Proprio perché è tipico del discorso filosofico andare al di là di mere constatazioni del fenomeno: non si tratta di spiegare come funziona l'immigrazione e proporre soluzioni pratiche. A questo pensano le scienze sociali, politiche e geopolitiche .  Il discorso filosofico vuole cercare di capire che cos'è l'immigrazione in quanto atto e fattore comunicativo.

Filomeno Lopes parte da un punto di vista cristiano e cattolico, ma in un modo, crediamo, che può essere condiviso in gran parte anche  dai laici.

Se partiamo dal principio che la mia cultura è l'unico modo che ho di essere là nel mondo, l' unico che ho  per partecipare all'esistenza in quanto realtà storica ; se accettiamo l' attuale messa in crisi del mito dell'universalità della sola cultura euronordoccidentale e il fatto che il mondo che abitiamo oggi è un mondo sinfonico, allora lo stradario comunicativo della pluriprospettiva sinfonica è l'unica possibilità per costruire un ponte di dialogo interculturale adatto alla costruzione di un mondo all'insegna della dignità dell'essere umano  creato a immagine e somiglianza di Dio.      

Lopes adopera il termine di immigrante  e non immigrato ( definizione statica e geopoliticizzata) proprio per partire da questo concetto: l'immigrazione non è un fenomeno transitorio, ma permanente nella e della storia dell'umanità. L'essere umano è nella sua essenza  un homo viator, dagli albori della sua apparizione su questa terra. L'immigrazione è un fenomeno antropologico connaturato alla condizione umana.

Quando nasciamo e facciamo irruzione nel mondo immigriamo dal mondo di Dio, ci ricorda Lopes, a quello della storia, troviamo il tu sei, i loro volti e le loro mani, pronti a darci ospitalità per farci incamminare nel nostro breve pellegrinaggio su questa terra. E il tu sei sarà ancora lì alla sera della nostra vita, per accompagnarci nel cammino a ritroso. Per questo in molte culture africane si lavano i morti in memoria dell'atto dell'ospitalità che ci fanno gli altri, compiuto alla nascita, e non solo per un atto di igiene.

Anche i riti tradizionali d'iniziazione ricordano al neofita che la vita e la morte dipendono sempre dall'altro, che la sua terra è sempre degli altri, quegli stessi che incontra all'inizio, durante e che incontrerà alla sera della sua vita, in ogni dove e altrove. L'immigrazione è dunque la questione dell'ospitalità nella responsabilità davanti all'irruzione dell'altro lungo i nostri percorsi vitali.

Oggi, però, l'immigrazione è diventato il luogo dello svelamento delle frontiere dell'esclusione della democrazia liberale, una filosofia della storia organizzata dai paesi ricchi contro i paesi indigenti, compresi gli stati in difficoltà all'interno degli stessi paesi euronordoccidentali com'è il caso, per esempio,  della Grecia, del Portogallo, della Spagna e dell'Italia. Non c'è più spazio e tempo per il "povero", se poi questo ha il colore della pelle sbagliato e viene dall'Africa il gioco è fatto.

Fu a partire dal secolo XV-XVI che l'Europa inventò lo ius migrandi per sancire l'era delle conquiste del pianeta e la globalizzazione mercantile, trasformando poi la mondializzazione delle nuove possibilità per tutti, in rischi e distruzione per l'80% dell'umanità e in benefici per il rimanente 20% , coincidente con il Nord del mondo. Niente male se si pensa che quest'ultimo si dichiara cristiano, mentre esclude dal banchetto comune della mobilitazione planetaria e dall'accesso ai beni la quasi totalità dell'umanità, con particolare accanimento nei confronti di quell'Africa da cui si sono mossi i sapiens per dare origine al popolamento del mondo. E non basta: emigrare da Nord verso Sud è un diritto-dovere della globalizzazione, mentre invece emigrare dal Sud verso il Nord è  diventato una minaccia/reato e chi lo fa deve  accontentarsi  dello statuto della mediocrità che sottostà al paradigma dell'immigrazione.

In che senso mediocrità? La persona che emigra non è considerata soggetto dello sviluppo dell'ambiente in cui arriva, non può aspirare in alcun modo all'eccellenza umana e al diritto e dovere di cittadinanza globale come avviene per tutti coloro che emigrano dal Nord al Sud.

Questa realtà è particolarmente presente in Italia dove lo ius soli viene discusso (e negato) come se fosse un'elemosina da elargire e la terra fosse di proprietà di partiti e movimenti  che utilizzano il tema immigrazione in chiave elettorale e per continuare ad avere un posto al sole nella geopolitica europea. La sociologia delle relazioni internazionali è diventata una sociologia della sicurezza. Non ci si domanda se sia legittimo privare degli esseri umani del diritto alla libertà di spostarsi per cercare di vivere, si gioca la carta del calo demografico per creare angoscia e panico per far credere ad una sostituzione etnica, alla fine della propria cultura e stile di vita.

La mobilità umana che è sempre stata una sfida per concorrere a cercare nuove soluzioni di vita per il mondo è ora una minaccia, di fronte alla quale opporre frontiere chiuse, proprio quando si tende a sopprimerle per la circolazione di beni e capitali. Ne consegue, per l'erezione della fortezza occidentale come risposta all' "invasione", una politica dell'immaginario collettivo, basata sulla paura, sulla sicurezza, sulla tolleranza zero, su pregiudizi e razzismo, sulla sostituzione dell'imbecillità e della "pancia" al dialogo e alla discussione: il politico che la spara più grossa vince...in Italia come in altri paesi occidentali.

Gli stati del Nord sono stati paesi di immigrazione dopo le due guerre mondiali per coloro che provenivano dai paesi più poveri del Sud Europa e dell'Est: per molto tempo era normale vedere arabi mediorientali, nordafricani, turchi, indiani e pakistani, cinesi e vietnamiti  insieme a greci, spagnoli, italiani e portoghesi, sudamericani. Senza contare le provenienze dai paesi di area sovietica. Oggi l'afflusso dei nuovi arrivati proviene in gran parte dall'Africa subsahariana, dove la crescita demografica si accompagna ad una forte mobilità continentale e mondiale.

Il caso africano deve far riflettere: se il Sud è giovane e povero a livello infrastrutturale è contemporaneamente il ricchissimo serbatoio delle risorse per un futuro dello sviluppo umano integrale planetario. Mentre il mondo ricco, particolarmente europeo, è attraversato da una crisi seria, alcuni paesi africani stanno conoscendo un'esponenziale crescita economica dal 5 al 10% annuo. Il che sta generando non solo un viavai di uomini e donne d'affari, ma anche movimenti migratori di persone delle classi medie in cerca di migliori condizioni di vita che i loro paesi sembrano non offrire più.

Basterebbe dare un'occhiata ai professionisti portoghesi e italiani che in Angola e in Mozambico stanno profittando delle opportunità offerte da questi paesi. In Senegal si concentrano molti giovani quadri europei attratti da offerte lavorative interessanti per chi è agli inizi di una carriera. E non parliamo solo di europei, ma anche di molti asiatici che, oltre ai paesi del Golfo, scelgono l'Africa come terra di opportunità.

Ma di tutto questo la maggioranza dei media non dice nulla, concentrati come sono sugli sbarchi e sulle paure. Non solo non si parla di una tradizione africana allo spostamento, ma neanche si parla della migrazione interna all'Africa stessa che è la prima ad essere affrontata dai giovani.

Anche in Africa però sta avvenendo qualcosa di nuovo: i governi, allineati sulla falsariga occidentale, stanno mettendo in atto politiche antimigranti, un tempo impensabili. Barriere, frontiere militarizzate, delazioni di cittadini contro i clandestini, caccia ai migranti, aggressioni e morti: l'"ognuno per sé Dio, per tutti" cancella tradizioni secolari di mobilità e ospitalità. Si fanno leggi la cui mancanza di umanità gareggia con i tentativi europei ed italiani di cancellare il diritto al soccorso in mare dei migranti che da sempre, per esempio, i pescatori siciliani hanno praticato.

Gli aggiustamenti strutturali degli anni '80, l'indebitamento continuo dei governi che distruggono quel po' di stato sociale che era stato creato all'indomani dell'indipendenza, la depauperizzazione dei contadini a causa anche delle crisi ambientali, la forbice di ricchezza che, qui come altrove, provoca forti risentimenti in chi ha poco o nulla fa sì che, anche in Africa, gli stranieri diventino il capro espiatorio di una crisi economica che non si riesce a tollerare, in nome di una origine minacciata (etnica, regionale, nazionale che sia).

La ricerca della sicurezza si è sostituita a quella della giustizia sociale, senza pensare che sicurezza vuole dire non solo esercito o "pacchetti sicurezza" contro i migranti criminalizzati ma creare le condizioni per una economia stabile, per una riduzione del divario sociale, per una buona istruzione che crei opportunità di lavoro e  ricerca, senza far scappare all'estero, come succede in Italia,  i giovani .

Il politico, soprattutto in Italia, accecato dalla miopia neoliberale e da un egoismo provinciale e localistico si deresponsabilizza sulle cause che stanno all'origine delle migrazioni forzate odierne, si fa populista e imprenditore della paura e resta indietro anche rispetto agli altri paesi ex-coloniali che, per un qualcosa che non osiamo chiamare responsabilità storica, mantengono legami culturali ed economici con le ex-colonie, che diventano grandi spazi di mercato e di investimento culturale -linguistico.

Quale è la posizione delle attuali classi dirigenti africane rispetto all'emigrazione dei giovani? Un silenzio tombale come quello dell'Unione africana e del Secam (conferenza episcopale africana). Papa Francesco quando si è recato a Lampedusa è stato lasciato solo, non c'è stato nessun rappresentante delle due organizzazioni, a testimoniare quanto meno un interesse simbolico.

In questo modo la immigrazione diventa non una questione di diritti e doveri nei confronti dei migranti in quanto problema collettivo dell'umanità, ma solo una questione di solidarietà che impegna non le classi politiche ma i singoli cittadini più sensibili e gli organismi delle associazioni civili e religiose. Ma quando  non ce la faranno più, che accadrà?

E' proprio la crisi attuale che dovrebbe aiutare a operare un cambiamento nei confronti dei migranti: permettere di liberare la loro creatività al servizio dei paesi di accoglienza, renderli soggetti attivi dello sviluppo, approfittare del fatto che sono più abituati ad inventare soluzioni in situazioni di crisi, più motivati ad emergere dalla condizione di mediocrità all'eccellenza. Hanno già avuto esperienza della crudeltà dei sistemi economico-finanziari internazionali che ora tengono in scacco i paesi più fragili europei. I migranti che provengono da Africa e America Latina, a causa delle colonizzazioni, non sono tabula rasa nei confronti della cultura e delle lingue euronordoccidentali.

E' vero, in Italia, il problema della lingua esiste: il legame linguistico-culturale con gli eritrei e i somali è ormai molto debole, dal momento che non è stato coltivato, come hanno fatto Francia Inghilterra e Portogallo, creando istituzioni per le aree francofone, anglofone e lusofone. Comunque chi arriva ha già un minimo di bagaglio su cosa significa essere un europeo, se non altro perché oggi ne condivide l'immaginario, diffuso attraverso la tecnologia del web.

Ma l'autore si chiede anche se la diaspora africana in Italia sarà capace di orientare la società italiana ad uscire dal paradigma dell'immigrazione ed abbracciare quello dell'ospitalità. Perché il rischio è che ciascun migrante si ritiri dentro la propria sfera, pensando esclusivamente al suo 'arricchimento' individuale, accodandosi alla logica  del "si salvi chi può", preoccupati solo di far uscire la sua famiglia dal disastro economico.

In Italia la partenza per un dialogo culturale serio tra la classe intellettuale africana e quella italiana è stata complicata dal grande rimosso storico del colonialismo italiano che è stato imperante quasi sino alla fine degli anni '80. Non è perciò avvenuto un dibattito culturale, a livello di opinione pubblica sulla questione postcoloniale come, per esempio, in Francia, Inghilterra, Olanda, Germania.

Il dibattito storico è certamente avvenuto, ma nel chiuso delle università, senza un serio impatto sui media. Ricordiamo la difficoltà dello storico Angelo Del Boca nell’imporre all'opinione pubblica certi argomenti che venivano considerati tabù come le leggi razziali nell'Africa orientale, le stragi, le persecuzioni, i campi di concentramento che ledevano quell'immagine in cui si era rincattucciata l'Italia postcoloniale: in fondo non era stato un colonialismo cattivo, in fondo gli italiani erano, sono 'brava gente'...

L'autore fa delle considerazioni interessanti sul rispetto della memoria storica della shoa degli ebrei, l'unica che gli italiani sembrano in grado di accettare: sappiamo come una frase, una allusione non corretta, la profanazione di lapidi,  susciti immediatamente ondate di sdegno. Tutto questo succede per la capacità della comunità ebraica di far sentire la loro memoria storica dello sterminio come un monito che riguarda l'umanità tutta.

Ma sono capaci di fare questo gli africani della diaspora nei confronti dei fatti storici drammatici della negazione ed esclusione dell'umanità africana dalla storia? Spesso sono rimasti intrappolati nella cosiddetta 'intercultura' della cucina tipica, della musica, della danza, dell'incontro spicciolo, che per carità sono pure importanti per conoscere i diversi da me. Stiamo parlando di quello che hanno fatto gli intellettuali africani della prima ora (prima delle indipendenze e dopo) e degli afrodiscendenti per ingaggiare un serio incontro filosofico, fatto anche di incomprensioni e fraintendimenti, con gli intellettuali inglesi e francesi. Questo in Italia si è verificato in modo frammentario un po' a livello filosofico, un po' antropologico e anche letterario, ma non in modo collettivo e paritario.

L'Italia sembra prigioniera del suo glorioso e insostituibile passato artistico e di una tradizione culturale di pensiero che oggi hanno bisogno di confrontarsi con situazioni e funzioni nuove, pena una asfissia intellettuale: questo slancio creativo può avvenire lavorando insieme agli intellettuali della diaspora per la costruzione di una nuova soggettività capace di avvicinare le persone le une alle altre. Per un'apertura di spirito verso il mondo dell'altro, consentendogli di "sentirsi accolto con le tradizioni, memorie, cultura del nostro mondo evitando così agli immigrati di avere un rapporto semplicemente nostalgico rispetto alle proprie culture d'origine o peggio ancora di vivere perennemente nella condizione e situazione di doppia assenza rispetto al passato e al presente del futuro." Questo significa acquisire la capacità di saper dare risposte alle angosce di una perdita identitaria, creando spazi per ridimensionare il proprio mondo di origine, utilizzando le prospettive e le esperienze che si sono aperte nel percorso diasporico.

Ma la capacità di creare progetti si accompagna a quella di consentire ai migranti di orientarsi meglio nel mondo della comunità di accoglienza, affinché imparino a leggere i suoi codici e anche a lottare per il compimento dei loro diritti-doveri di partecipare pienamente alla vita pubblica, politica, religiosa e non di partecipare solo nello sviluppo economico.

Interessante a questo proposito l'analisi dell'avventura politica di Cécile Kyenge, considerata come una occasione sprecata per l'apertura di un dialogo interculturale, abortita ancor prima di nascere, per un provincialismo del PD, per una mancanza di coraggio storico prima che politico.

Nelle pagine di Filomeno Lopes aleggiano i suoi miti  e le sue letture: Amilcar Cabral, Frantz Fanon, Cheikh Anta Diop, Jean Marc Ela, Aminata Traoré, Fornet Betancourt, Achille Mbembe, Ebussi Boulaga, J. Ki-Zerbo ma anche Roberto Mancini , Zigmunt Bauman e papa Bergoglio.

Fa piacere a noi di Scrittidafrica la splendida rilettura del romanzo "L'ambigua avventura" di Cheickh Hamidou Kane, che muove una rigorosa e impegnativa analisi filosofica, sotto forma narrativa,  dell'incontro-scontro con la civiltà occidentale e del coraggio di riconoscere la propria morte culturale per aprire nuovi sentieri che possano far scaturire una nuova soggettività storica. “L'era dei destini singoli è compiuta. In questo senso, la fine del mondo è venuta davvero per ognuno di noi, perché nessuno può vivere della sola preservazione di sé".

 

 

Achille Mbembe- Critica della ragione negra - a cura di Rosella Clavari - Nanorazzismo.Il corpo notturno della democrazia- a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

Achille Mbembe

 Critica della ragione negra

 Ibis, 2016

 traduzione di G.Lagomarsino, A.Spadolini, G.Valent

 

Achille Mbembe, filosofo camerunense, professore di storia e politica presso il Wits Institute for Social and Economic Research di Johannesburg è considerato uno dei massimi teorici di studi postcolonialisti. Convinto sostenitore che le attuali politiche liberiste e securitarie diffuse in Occidente portano oggi a far emergere nuove forme di razzimo, in questo testo fa una precisa ricostruzione storica del “divenire negro del mondo” come lo definisce secondo un suo particolare linguaggio poetico che riesce a mantenere  quell'equilibrio necessario tra realtà e assurdo storico.

Questo saggio che nel titolo vuole far da specchio al titolo kantiano della filosofia occidentale, è stato preceduto da “Postcolonialismo” (2005), seguito da “Necropolitica”(2016) ed “Emergere dalla lunga notte” (2018) fino al testo la cui recensione  compare di seguito a questa, “Nanorazzismo” del 2019 . Un lungo impegno, dunque di indagine a carattere storico, filosofico, psicologico sulla  dinamiche delle differenze.

Una considerazione che accomuna i testi citati è che l'Europa non è più l'epicentro del mondo. Un pensiero occidentale che è sempre stato autoreferenziale ora deve cambiare rotta, superare l'autocontemplazione, la chiusura in sé. Una cosa usuale è che negro e razza, nell'immaginario delle società europee, sono stati sempre visti insieme.  Ma non è solo il negro a liberare dinamiche passionali provocando  un eccesso irrazionale; che si parli di negro,ebreo, cinese, ariano, in realtà sono le razze a far lievitare il delirio, quello che non si riesce a tradurre razionalmente e che Mbembe definisce “la follia codificata”.

Sono tre i  momenti storici determinanti presi in esame da Mbembe nell'incontro-scontro con il Negro da parte dell'Occidente:

1) il saccheggio organizzato, tra XV e XIX secolo, di uomini e donne provenienti dall'Africa nella tratta che li ha cosificati, resi cioè oggetti, merce, denaro; 2) la nascita della scrittura presso gli ex-schiavi afroamericani, verso la fine del XVIII secolo, antologizzata a partire da Dorothy Porter “Early Negro writing” (1760-1837) per arrivare a P.Chamoiseau e R.Confiant “Lettres créols, tracées antillaises et continentales (1635-1795); 3) la globalizzazione dei mercati, all'inizio del XXI secolo, la privatizzazione del mondo sotto l'egida del neoliberismo e il complesso intreccio economico e finanziario con le tecnologie elettroniche e digitali. E' il periodo in cui si tratta di razionalizzare il  mondo in base alle logiche delle imprese. Il nuovo uomo, suddito del mercato e del debito vien considerato un puro prodotto del rischio naturale e si distingue dal soggetto tragico e alienato della prima industrializzazione : l'uomo-cosa, l'uomo-macchina e l'uomo-flusso adatta il suo comportamento in funzione delle regole del mercato.  Dobbiamo sapere che il neoliberalismo è l'età ibrida e mostruosa nel corso della quale capitalismo e animismo, tendono a diventare una cosa sola.  I rischi ai quali erano esposti solo gli schiavi negri nel corso del primo capitalismo, sono il destino di tutte le umanità subalterne.  Allora assistiamo all'universalizzazione della condizione negra? La risposta è positiva se si instaurano nuove  pratiche imperiali  che si ispirano alle logiche schiaviste e colonialiste con pratiche di zonizzazione accompagnate da una rete transnazionale di repressione, inquadramento ideologico delle popolazioni, incarcerazioni di massa, tortura, esecuzioni senza processo.  Dietro la finzione della zonizzazione, le grandi potenze fanno man bassa delle ricchezze e dei giacimenti dei paesi assoggettati. La violenza del capitale colpisce in Africa con pagamenti infiniti in Europa di debiti pregressi: questa generale spoliazione è “il divenire negro del mondo”.

Il razzismo, data, la situazione attuale sopra descritta, diventa un fenomeno globale trasformato in un nuovo linguaggio, molecolare, frammentario ( il nanorazzismo di cui parlerà in seguito l'autore). Ma qui l'autore, come in uno spartito musicale che raggiunge il suo crescendo, ritorna alle note iniziali: il discorso segue sempre questa circolarità, con rinnovata enunciazione della tesi del discorso e argomentazione svolta, mano a mano, sotto  una diversa angolatura.

Il nome Negro emanò a lungo una energia straordinaria e disordinata ( caos, istinti inferiori) oppure come un segnale luminoso di riscatto del mondo e della vita in un giorno di trasfigurazione. Perché questa dicotomia? Perché il nome negro nella serie di esperienze storiche laceranti che ha attraversato è stato un corpo- merce, prodotto dalla macchina sociale del capitalismo proprio con quel nome che indicava esclusione, abbrutimento, avvilimento ma lo stesso nome indicava la forza dirompente in grado di vivere più tempi e storie insieme e la sua capacità di ammaliamento o meglio di allucinazione fu decuplicata.  Ecco che nell'accezione naturistica il nome Negro indica il fango della terra ma anche la linfa della vita, simbolo di riconciliazione con la natura.  

Compare a un certo punto un interessante interrogativo dell'autore: non insiste il Negro stesso a vedersi solo attraverso e nella differenza?  Mbembe si serve della storia per proporre uno stile di riflessione critica sul mondo contemporaneo e l'esperienza negra si presta a ciò poiché occupa nella coscienza contemporanea il posto di un limite sfuggente, una specie di specchio mobile che non smette mai di ruotare su se stesso. Ci invita a come pensare il simile e il dissimile, l'eccedente e il comune, e il tutto visitando più mondi allo stesso tempo perché proprio a partire dall'Africa si articola un pensiero della circolazione e della traversata.

La ragione negra che dà il titolo al testo, è un termine ambiguo e polemico, il paradigma dell'asservimento ma anche del suo superamento. Può rappresentare una sicurezza quando si odia l'altro che non è simile a sé , ma anche l'amaro risentimento degli assoggettati ( il vittimismo poco fa accennato: il negro vuole vedersi solo e attraverso e nella differenza...).  Un'altra ipotesi: guardando dalla parte dei colonizzatori, la razza è forse un'utile finzione, un'utile invenzione come la parola Negro, per giustificare la propria supremazia?  Il fatto è che c'è un'errore alla base di tutto: l'emisfero occidentale si considera il centro del globo, il paese natale della ragione, dei diritti; di contro l'Africa e il nero rappresentano un'esistenza vegetativa e limitata. Il discorso europeo nel combattere i popoli lontani è ricorso alla fabulazione o alla negazione di umanità; per esempio Hegel  arriva a dire : “sono popoli isolati e non socievoli che si massacrano tra di loro”

L'autore ora passa a una descrizione storica con un quadro ampio e ben articolato, non riduttivo e semplificato come quello che apprendiamo dai libri di storia, in Europa, appunto.

La Spagna e il Portogallo sono stati i primi motori dell'espansione europea verso l'Atlantico e assistiamo al contempo all'afflusso notevole di africani nella penisola iberica.  La prima razzia e vendita di neri avviene nel 1444 in Portogallo con un afflusso continuo superiore alla Spagna; vengono affidate loro mansioni agricole e domestiche e partecipano alla vita militare per mare e per terra. La coscienza negra in questo periodo è il frutto di una tradizione di viaggi e trasferimenti.  Tra il 1630 e il 1780 gli africani sbarcano in gran numero nei possedimenti atlantici della Gran Bretagna e vanno in Giamaica o negli Stati Uniti. La fine del XVII secolo è un grande momento negro dell'impero britannico. Ci sono tra essi schiavi ma anche movimenti di  africani liberi, nuovi coloni che partono dagli Usa per creare nuove colonie in Africa.  Inoltre ci sono vari tipi di schiavitù: per tratta, per condanna, per sussistenza cioè domestico a vita, affrancato, per nascita, etc.

Tra il 1776 e il 1825 l'Europa perde molte colonie americane dopo le rivoluzioni e la ribellione di vari movimenti indipendentisti.  Gli afro latini che hanno contribuito alla costituzione degli imperi ibero-ispanici cambiano ruolo: perlopiù divengono soldati o capi di movimenti, si forma dunque una classe di bianchi creoli. Non dimentichiamo che sia gli afro latini che gli schiavi negri d'America hanno dato una grande contributo localmente spesso nascosto.

Haiti nel 1804 dichiara la sua indipendenza venti anni dopo quella degli Stati Uniti. La colonia di Santo Domingo ha una plantocrazia con una costituzione che instaura la libertà di culto e attacca il concetto di proprietà e la schiavitù. Negli Stati Uniti  nel 1619 più di cinquemila schiavi neri lottarono contro il sistema schiavista e contro gli Inglesi  ma dodicimila tradirono e si unirono agli Inglesi. Alla fine della guerra quattordicimila neri da New York e dintorni furono tradotti in Florida, Nuova Scozia e Giamaica, e poi in Africa.

Verso la fine del 1700, si sviluppano gli studi sulle forme dei viventi, le loro caratteristiche, specie e generi o razze. L'ampliamento dell'orizzonte spaziale corrisponde a un restringimento mentale, immaginario e culturale. La razza fino ad allora si usava nella sfera animale. Ecco che Negro diventa nella sua accezione più attuale  una sintesi del mostro e del fossile. Il negro della piantagione è una figura molteplice, educato all'odio degli altri e degli altri negri.  Già tra il 1630 e il 1680, la divisione di classe tra coloni e asserviti era ben evidente con la nascita della società delle piantagioni che sancisce la schiavitù a vita dei neri. Gli africani e i loro discendenti diventano schiavi a vita.  Nel 1700 si consolida questo pensiero in cui l'invenzione del Negro è a favore di una logica capitalista.   A distanza di secoli, oggi nel XXI secolo, la logica della razza invade di nuovo la coscienza contemporanea.   C'era stato tra fine '800 e primo '900 la teoria dell'esodo dei Neri d'America verso l'Africa. Si sentiva l' esigenza di uno stato proprio ma questo corrispondeva anche alla volontà di sbarazzarsi dei Neri in America con una nuova colonizzazione lì in Africa ; l'emigrazione libera veniva affrettata dal terrorismo razziale nell'America del Sud; c'era inoltre l'espansione americana.

Negro, parola di origine iberica, compare per la prima volta in un testo scritto in lingua francese del 1500 ma solo nel 1700, al culmine della tratta degli schiavi, entra nell'uso corrente. Prima del 1400  negro sta per bizzarro, vivace, irrazionale, forza bruta, movimento come di rumore di zoccoli, onda, rabbia e nervosismo.  Subentra un cumulo di menzogne al posto dell'essere umano, della sua vita, del suo lavoro, del linguaggio. La parola negro rimanda a una fantasmagoria, è il prototipo del soggetto avvelenato e carbonizzato. Uomo-minerale, uomo-metallo-, uomo-moneta questa è la sua dimensione creata dal primo capitalismo: come un minerale, viene estratto ( staccato dal suo luogo d'origine), poi estirpato ( pressatura) poi convertito in oggetto sfruttato al massimo e infine gettato via.  Nel primo '900 con il movimento del surrealismo prima ( ricordiamo anche Picasso con l'attenzione al primitivo) e poi della négritude con Aimé Césaire ci sarà una rivendicazione positiva dell'immaginativa del Negro. Con un atto di rovesciamento, quel termine è stato assunto come simbolo di bellezza, fierezza, appello a una rivolta. 

Lo schiavo considerato come un ingranaggio nella macchina capitalista non era considerato autore di nulla che gli appartenesse personalmente. Eppure questi esseri umani che non abdicarono  alla loro creatività, hanno prodotto pensieri propri e propri linguaggi. Hanno inventato proprie letterature e musiche e forme di celebrazione del culto divino.

In questo contesto, l'interessante definizione dell'Africa che offre Mbembe, vale anche per il termine Negro: “è il simbolo di ciò che è sia fuori della vita, sia al di là della vita”.  Negro: il fuoco che illumina, la tomba vuota del nostro mondo, il regno delle cose deperibili.   La  questione della razza, per gran parte del '700 è stata al centro del pensiero politico europeo e motivo di riflessione per Burke, Bentham, Kant, Diderot, Condorcet.  La politica delle razze, dall' '800 in poi, si fa strada con l'emergere dei nazionalismi, come divisione interna e quindi arma della guerra civile, per ultimo con l'idea del superuomo, del genio superiore e della missione universale di governare il mondo.  Ecco che affiora l'invenzione del diritto, il buon diritto della proprietà dello stato coloniale, l'idea dell'umanità divisa tra conquistatori e assenti. L'autore sottolinea la complessità ed eterogeneità dell'esperienza coloniale e, a partire dal 1892, del movimento detto nazional-colonialismo.

Si inizia il progetto di differenza di razza, con supporti culturali, museali, letteratura fantastica, arti, archivi.  Se prima in Francia c'era la divisione creata dai privilegi nobiliari dopo c'è la non reciprocità con i Negri, perché la civiltà del domani si crea con il sangue bianco.  In varie letterature e riviste per l'infanzia, il nero è rappresentato come uno stupido bambino ( vizio congenito di razza). Il razzismo si esplica in tre forme: 1) come rifiuto di vedere, una pratica dunque di occultamento e negazione ( nella tratta atlantica che tocca il suo culmine in pieno Illuminismo)  2) come pratica di rivestimento e travestimento  ( se compare il nero deve avere una maschera, un colore, uno scenario di esotismo) 3) esprime frivolezza ed esotismo (soprattutto durante il XVI e XVII sec.). Ciò è attestato anche nei dipinti dell'epoca per es. di Fragonard. Hogarth, Raynolds.

Il razzismo è articolato con frivolezza e libertinaggio in Francia attraverso la letteratura, la pittura, la danza.  Baudelaire e Apollinaire avevano le loro muse nere e si fa strada il mito letterario della negresse.  Nel '700 nei racconti di ogni genere sull'Africa oltre al destino di essere posseduta, viene descritta con accenti contrastanti: meravigliosa e inabitabile, sterile e feconda;  non possiamo ignorare le parole di V.Hugo: “ l'Africa non ha storia,[ ….] Dio offre l' Africa all'Europa, prendetela!” . La differenza tra negro e nero: negro è schiavo, il nero africano è colui che non ha ancora subito la schiavitù. Dopo verrà associato all'essere vuoto di umanità, di eccessiva sensualità, idolatra.

Se esiste una corrente di empatia verso i neri, poiché il popolo francese è informato del carattere crudele e inumano della tratta, questa riveste molte sfaccettature: c'è, a metà del '700, una corrente negrofila della letteratura francese che vede il nero felice al servizio del buon padrone; dopo il 1820 la rinascita di una corrente di simpatia verso i neri ma non si parla di eguaglianza; ammette la disparità fisico-anatomica e mentale; poi il mito del buon selvaggio, felice e semplice, simbolo di un'umanità antica.  Il dogma della missione civilizzatrice schiaccia un tentativo di solidarietà con i Negri. 

Il discorso negro è stato dominato da tre grandi eventi: lo schiavismo, la colonizzazione el'apartheid.   Questi eventi hanno contribuito alla sua alienazione, cioè sentirsi espropriato di se stesso, alla disappropriazione e all'avvilimento.  Ma proprio questi tre momenti negativi sono il punto nuovo di partenza del negro di sapersi -se stesso ( sovranità) e di sapersi reggere da sé nel mondo ( movimento di autonomia ).

Dal versante del potere occidentale, il liberalismo nasce a partire dal 1400 e avviene sullo sfondo del commercio degli schiavi. La cosa assurda è che questi scambi e relazioni commerciali, dove il negro era un vero e proprio oggetto-corpo-merce, erano accadimenti coevi alla nascita del diritto internazionale. Liberalismo è uguale alla cultura della produzione e al contempo della distruzione della libertà; è la cultura della paura: ci si deve difendere e garantire sicurezza contro il pericolo negro. Ricordiamoci bene che le idee moderne della libertà, uguaglianza e democrazia sono inseparabili dalla realtà dello schiavismo.

Nel Nord America i negri concepiscono la liberazione come una conquista, gli inglesi qualcosa da concedere man mano. Lo schiavo, senza patria, senza radici, venduto dall'Africa, ripudiato dall'Europa, sta presso il focolare del padrone. Ma c'è la paura di essere dominati dallo schiavo. Per A. de Tocqueville la separazione è necessaria per evitare  la lotta delle razze: i negri devono tornare a casa loro.   Ci sono varie teorie sull'umanità del nero priva di storia; sulla differenza razziale; sull'assimilazione ( i cosiddetti convertiti)  che meritano un'analisi a parte.

Non dimentichiamo che all'origine dell'esilio, dice Mbembe, vi è sia la rapacità del capitalismo che il fratricidio vale a dire il tradimento dei fratelli africani. Crummel vede spesso i Negri atteggiarsi a figli d'Israele, cioè vivere nel passato, il presente è il tempo del dovere, il futuro della presenza. Allora ci si attacca a ciò che è buio e morte, si innesca l'appetito per la morte. Ma è necessario accanto alla memoria della schiavitù, coltivare la speranza e l'immaginazione, inventare una nuova interiorità, avere una memoria vigile. Esiste infatti il momento dell'autonomia dove il Negro attesta la propria umanità, si riscopre come fonte autonoma di creazione.

Non esiste l'identità negra, vi è un'identità in divenire che si nutre della differenza tra  i negri e delle tradizioni ereditate dall'incontro con il tutto-mondo.

Nel rapporto di invenzione dell'Africa e del Negro da parte dell'occidente c'è una reciprocità inevitabile: se l'Africa è stata falsificata dal contatto con l'esterno, come spiegare la falsificazione con cui i Negri nello sforzo per ingerire il mondo, hanno sottoposto il mondo?

Qui entrano in gioco , nel meccanismo di difesa del Negro, la capacità mimetica, di trasformazione, di metamorfosi del negro spiegata sia a livello di inclinazione che nei processi psichici di superamento delle ferite inferte dalla schiavitù e dal razzismo.

Le forme negre di attivazione della memoria della colonia variano a seconda dell'epoca, della posta in gioco,della situazione. L'esperienza coloniale è oggetto di varie forme di rappresentazione, oblio, memoria, nostalgia, intreccio di immagini psichiche. Fare memoria della colonia è non solo un lavoro psicologico ma significa operare una critica del tempo e dei manufatti-simulacri ( statue, steli, monumenti). Ora ci domandiamo, nelle scritture negre che parlano di sé, com'è la colonia ? sia nella letteratura che nella musica e nei manufatti, i negri hanno sviluppato l'esperienza dello specchio” con immagini terrificanti e demoniache dell'altro nello specchio.  La colonia è la scena dove all'io è stato sottratto il proprio contegno; l'io autentico in quel periodo coloniale sarebbe diventato un altro. Un io alienato rende il negro portatore di significati segreti, di scure intenzioni, evidenzia il carattere notturno e demoniaco della sua vita psichica e politica. Il negro dovrebbe ricostruire una matrice sua.

La violenza è insita nel colonialismo poiché è una tecnica di dominio come la guerra, perché in fondo è una guerra tra razze. La violenza ha una triplice dimensione: nel quotidiano come violenza del colonizzatore verso il colonizzato; la violenza rispetto al passato del colonizzato che viene svuotato di ogni sostanza; violenza e ingiuria verso il futuro  poiché il regime coloniale si propone come eterno.  Assistiamo a una rete di violenze sul corpo e nello spirito. La tensione muscolare  del corpo oppresso si libera nelle lotte tribali, nelle danze e nel possesso, quasi facendo da specchio all'aspetto notturno del carnefice: la sua avidità, la sua forza accompagnata  da voluttà sadiche,l 'atto della colonizzazione ha un che di dionisiaco, è una grande effusione narcisistica.

La relazione tra colonizzatore e colonizzato è ispirata al sacrificio e alla morte e come dice Fanon: “il colonizzatore non si comprende senza la possibilità di torturare, violentare, massacrare” e di imporre il silenzio, aggiungeremmo.  Il razzista conia un'immagine falsa del negro e la persegue nella sua falsità: è un'ombra dentro un  commercio di sguardi; “il negro fatto membro è un pene” osserva Fanon.  Poi c'è la violenza dell'ignoranza per le diverse razze, lingue, per la geografia dei vari luoghi.  Si guarda solo all'amore dei colonizzati per i piaceri materiali, scambiando oro e avorio con oggetti futili; senza contare l'ammirazione che suscitavano presso gli Africani le armi europee e ciò che si trovava sulla nave: l'albero, la bussola, gli oblò. Tutto diventava feticcio, luogo di incontro e di fascino.  La religione feticcio e l'ordine sociale africano si basano sul principi dell'interesse fino alla conversione degli esseri umani in merci e a questo proposito Mbembe con coraggio denuncia nella storia africana la triste pagina “ del parente venduto e mandato a morte” in cambio della merce.

Nelle élite africane notiamo due pilastri di pensiero: la comunione dell'uomo con gli oggetti e  con la natura e le forze invisibili da cui discende la divisione del mondo tra visibile e occulto con la supremazia dell'invisibile e quindi una sorta di fatalismo.  La colonizzazione segna l'ingresso degli Africani  in una nuova epoca caratterizzata dalla corsa  sfrenata al desiderio e  al godimento, desiderio senza responsabilità e godimento come mentalità.

Il  dramma della “beanza del vuoto” di cui parla Mbemebe che cos'è? Non è altro che la resistenza ad ammettere l'assoggettamento dei Negri al desiderio, il fatto che si siano lasciati possedere, ingannare e sedurre da quella “grossa trappola della macchina dell'immaginario che era la merce”. Nel romanzo negro non c'è un tempo in sé. Il tempo nasce dal rapporto con le cose, con il corpo, non c'è un tempo in sé.   A questo punto gli esempi dei grandi romanzieri africani rendono efficace quest' ultima asserzione. Si parla di uno dei padri della letteratura africana, il nigeriano Amos Tutuola autore de “il bevitore di vino di palma” e “La mia vita nel bosco degli spiriti”; poi, più vicino a noi nel tempo, il grande drammaturgo, poeta e romanziere congolese Sony Labou Tansi.  Ma l'autore cita anche Dambuzo Marechere, Yvonne Vera, Yombo Onologuem. L'esperienza del tempo si effettua attraverso l'ascolto dei cinque sensi  e viene riversata nella scrittura; così come il ricordo, comunicato attraverso la danza , la musica e il gioco delle maschere. 

La critica del tempo nella narrativa negra contemporanea porta alla scoperta di un tempoparadossale, fuori del tempo e aldilà del tempo. Il tempo è sempre aleatorio e cambia all'infinito. Soprattutto in Sony Labou Tansi è evidente  per es. nella piece “Antoine m'a vendu son destin” (di cui abbiamo svolto una recensione nel nostro sito) c'è questo tempo metafisico così come il processo di metamorfosi  e sovrapposizione dei tempi.

Il tempo è l'anticamera del reale e della morte. Nel passaggio dal reale al fantasmatico, l'evento non si limita ad accadere, bisogna decifrarlo. C'è un rapporto molto stretto stabilito nel romanzo negro tra la perdita del nome proprio e l'impazzimento. Il ricorso a più lingue accentua questo aspetto. In Kossi Efoui il volto mantiene un rapporto stretto con la maschera. La vista viene prima del nome. Il tempo della rovina è quello in cui i gesti non sono più seguiti dallo sguardo. Si è condannati a uscire dal tempo, a uscire da se stessi.

I monumenti, le stazioni, i campi militari costruiti dai colonizzatori come oggetti non scambiabili sono ceduti agli indigeni nel corso di feste selvagge dove gli arredi funebri degli antenati vengono strappati ai sepolcri. Il ruolo delle statue e dei monumenti coloniali è di far risorgere sulla scena del presente quei morti che quando erano vivi avevano tormentato, spesso con le armi, l'esistenza dei negri.  

Questo intrico tra vertigine, decomposizione e dispersione verso un punto di fuga, ha trovato espressione nella scrittura di alcuni autori tra quelli citati , come Sony Labou Tansi ne “La vita e mezza (1979)  e  “Il bevitore di vino di palma” di Amos Tutuola. In  queste narrazioni l'incontro con il reale è effimero, frammentario, ogni volta da ricominciare, un evento fluttuante. Il sovraccarico di reale si riversa nella danza, nella musica, nell'estasi cui si arriva con la veggenza. La morte non si colloca solo alla fine della vita. Il mistero della vita è “la morte nella vita” e la “vita nella morte”. E' potente  chi sa danzare con le ombre e  ogni potere possiede  la capacità della metamorfosi.  C'è la capacità di entrare ogni volta in rapporti nuovi con la distruzione, la perdita e la morte.  Nel potere è presente una parte fantasmatica e il potere notturno è una forza abitata dallo spirito del morto. Per questo Mbembe conclude dicendo che il capitalismo razziale è come una vasta necropoli: riposa sul traffico dei morti. Tornando alla scrittura come specchio della vita, nel mondo africano dove non c'è la linea retta ( tipica del pensiero progressista) si tratta di vivere a zig zag. Il lavoro  per la vita consiste nell'allontanarsi ogni volta dal ricordo, proprio quando ci si appoggia ad esso per negoziare le scelte della vita.

Aimé Césaire che scrisse “Negro sono e negro resterò”, usò le armi della poesia e della politica con lo sguardo ora sull'imperituro, ora sull'effimero che passa e torna alla polvere. Per lui un pensiero costante fu rivolto a varie realtà: considerare le Antille un paese caraibico, non francese dove Haiti, pur libera, era più povera di una colonia; il Congo di Lumumba; l'Africa dove l'indipendenza aveva portato un conflitto tra gli Africani stessi; il debito di riconoscenza per l 'America nera.

“L'uomo dovunque si trovi ha dei diritti in quanto uomo”afferma Césaire che ha sempre posto  interrogativi ancora aperti sul colonialismo, la razza e il razzismo. Egli si inserisce in una tradizione critica intellettuale nera presente sia tra gli afroamericani che tra i pensatori caraibici anglofoni.  La sua preoccupazione per l'uomo nero porta alla non secessione dal mondo ma afferma la sua pluralità. Tenuto conto che l'Europa è solo una parte del mondo, occorre riabilitare la singolarità e la differenza. In questo è molto vicino a Senghor nel vedere l'universale come comunione di singolarità. Il colonialismo dietro la parvenza di voler istruire, dare prosperità, evangelizzare, è figlio dell'appetito, della cupidigia e della forza. Il colonizzatore che tratta il colono come bestia, diventa lui stesso  bestia.   Ancora oggi un certo revisionismo, di fronte al fallimento del regime postcoloniale, cerca di giustificare ciò che è stato il colonialismo. L'essere negro fieramente di  Césaire nasce negli anni '30 quando a Parigi incontra Senghor e vari scrittori afroamericani tra cui Richard Wriht e Langston Hughes. La sua lotta per la libertà è essenziale non come idolatria di razza ma per una più larga fraternità e un umanesimo a misura del mondo.  Il negro ha coscienza della differenza che permette un'apertura sul mondo, è colui che si mette in cammino ma che vuole tornare in Africa. Oggi, nella diaspora degli intellettuali africani, non sempre questo desiderio si può attuare.

Altra figura di intellettuale ammirata incondizionatamente da Mbembe, è Frantz Fanon, testimone della violenza del colonialismo in Algeria. Nato nelle Antille, psichiatra, vive da vicino l'atmosfera sanguinaria e spietata dell'oppressione coloniale in seguito alla rivoluzione algerina. La Francia trattò Fanon come un traditore perché prese le parti dei vinti, degli oppressi. Dopo la sconfitta in Algeria, la Francia si arroccò nell'esagono  e non si accorse che uscì il pensiero postcoloniale  e la critica della razza dove Fanon diventò un faro e un testimone fortemente attuale per i posteri. Il pensiero metamorfico di  Fanon cambia il pensiero, sgretola le strutture del colonialismo.  Egli affermava che la politica e la clinica erano i due luoghi psichici dove si giocava il rapporto con il corpo e con il linguaggio. La violenza rivoluzionaria è origine di profonde ferite psichiche così come lo è stato il colonialismo, una forza da lui definita “necropolitica”, animata in partenza da una pulsione genocida.

Poi passa ad analizzare tre forme di violenza, quella coloniale che culmina con la guerra d'Algeria e la violenza emancipatrice del colonizzato che raggiunge il suo apice nella guerra di liberazione nazionale; c'è poi la violenza dei rapporti internazionali. La prima forma, quella coloniale, è a sua volta triplice perché instauratrice, empirica nel senso che limita la libertà dell'individuo (che è monitorato in ogni suo spostamento e si insinua dappertutto nel quotidiano, nel linguaggio, e con l'odio, le torture e le umiliazioni), fenomenica perché coinvolge tanto i campi sensoriali quanto quelli psichici e affettivi. Provoca turbe mentali ed è indifferente all'argomento morale, poiché si occupa di svuotare il passato del colonizzato e precludergli il futuro, aggredendo il suo corpo.

Dalla trasfigurazione della sofferenza e della morte nel colonizzato sorge una nuova “comunità spirituale”. Per Fanon la violenza del colonizzato non è ideologica in partenza, è puro sfogo. Quando avviene la trasformazione di questo in discorso politico? Si tratta di scegliere tra vivere e sopravvivere, non si tratta solo di sfamarsi ma di incarnare valori, inserirsi nello svolgimento di un mondo, uscire dalla grande notte.... mettere su un uomo nuovo.

Un altro grande esponente della liberazione dal giogo del razzismo è stato Nelson Mandela nel Sudafrica dell'apartheid. Arrivò ad accettare la morte per la gloria futura del popolo e la sua liberazione. In galera fece esperienza del  desiderio di vita quando “abitò la cella come una bara riscoprendo l'essenziale che riposa nel silenzio e nel dettaglio”. Qui abbiamo una meravigliosa, poetica descrizione della prigionia di Mandela, pur rimanendo aderente alla cruda realtà della sorte accettata da lui con stoicismo.

Il significato di tali battaglie, di Césaire, Fanon, Mandela e di quegli artisti e scrittori che ci hanno fornito le chiavi per capire la sofferenza inferta dal colonialismo, è sempre universale.

Un' arte che ha continuato a reinventare i miti, a stravolgere la tradizione, a decostruire la vita attraverso il gioco, il divertimento e la metamorfosi.

La lotta come prassi di liberazione, trova riscontro anche nel cristianesimo, in Africa, con la fede nella pienezza dei tempi. Nulla è così vicino al senso del corpo e della liberazione come il concetto cristiano di incarnazione, crocifissione e resurrezione:  il sacrificio e la salvezza.

E' nella morte violenta di Cristo e nella sua resurrezione dove si manifesta l'assoluta singolarità  di una trasformazione della condizione umana.

Fu Martin Luther King a dire: con la crocifissione Dio raggiunge la sua verità di uomo che affronta lo spazio estremo. Nel cristianesimo afro americano, Cristo muore veramente al posto del negro! La Resurrezione è la vera forza che sconfigge la morte. La teologia politica nera è la poetica del dono, dell'oblazione, della gratuità.

In conclusione, come passare dallo statuto di “sans parts” a quello di aventi diritto? Nel progetto di un mondo comune da un lato bisogna uscire dallo statuto vittimistico e dal rifiuto delle responsabilità. Per un etica fondata sulla giustizia, essere africano significa un uomo libero in mezzo ad altri uomini, capace di autoinventarsi, si tratta di mettere in comune le differenze passando per la riparazione. Edouard Glissant parla della dimensione epifanica ed ecumenica del concetto stesso di umanità, l'umanità intera dà il suo nome al mondo, la verità di ciò che siamo è nel rapporto tra mondo degli umani e dei non umani (insieme dei viventi). Nell'Africa antica il seme è segno dell'epifania dell'umanità; c'è poi un altro simbolo che serve a difendersi dalla morte, la maschera che commemora il defunto e testimonia la trasfigurazione del corpo, l'apoteosi del mondo e la sua imputrescibilità: la nostra vocazione a durare nel mondo può realizzarsi se il desiderio di vita è la pietra angolare del nuovo pensiero politico e culturale. C'è un unico mondo comune a tutti. È il desiderio di pienezza in umanità.

Se la differenza si costituisce nel desiderio non è detto che sia desiderio di potenza . In una porzione della critica negra moderna, la proclamazione della differenza è solo una fase di un desiderio più ampio: un mondo con una finalità universale. 

                                                          

     

     

     

     Achille Mbembe 

     Nanorazzismo -Il corpo notturno della democrazia

     Tempi Nuovi, 2019

     traduzione di Guido Lagomarsino                                                 

 

 

 

Il presente saggio prosegue, come altri testi di Achille Mbembe, gli approfondimenti sul modo in cui l’occidente ha concettualizzato le differenze e su come l’Africa ha elaborato le identità, individuando, in epoca successiva alla decolonizzazione, nella permanenza delle ideologia di razza e violenza le costanti attuali di relazioni all’insegna di pregiudizi e ostilità. Non a caso il testo francese originario reca il titolo di “Politiques de l’inimitié”.

Il titolo italiano è intrigante ma rimanda più alle modalità di linguaggio usate, piuttosto insolite in un testo accademico, fatte di lunghe teorie anaforiche  di nomi, aggettivi, verbi, impregnati di una materialità a tratti quasi sconcertante. Richiamano immagini e codici artistici di quell’ afrofuturismo di cui l’autore parla nel quarto capitolo. L’autore stesso confessa :” A tale scopo non ho trovato niente di più appropriato di una scrittura figurale, che oscilla tra la vertigine, la dissoluzione e la dispersione. E’ una scrittura fatta di anelli intrecciati, con margini e linee che si ricongiungono ogni volta al loro punto di fuga.” 

I primi temi affrontati sono quelli del ripopolamento e globalizzazione del mondo sotto l’egida del militarismo e del capitalismo, e la fine della democrazia liberale come l’abbiamo conosciuta finora.La colonizzazione delle Americhe, agli inizi del ‘500, la tratta atlantica dei neri d’Africa, tramite il sistema della piantagione, il dislocamento volontario, il più delle volte forzato, di strati di popolazione europea, considerata in eccesso, troppo povera per essere a carico dello stato o troppo delinquenziale, sono all’origine della formazione del pensiero mercantilista europeo.

La messa a coltura di intere zone, precedentemente sede di alberi e foreste, significò la distruzione di un ecosistema a favore di un agrosistema da cui si ricavava un alto profitto, visto che alla manodopera servile africana non era dovuto che un po’ di cibo, un ricovero e nessun salario. Cominciò la sistematica predazione di risorse minerarie, una caccia e pesca indiscriminate, uno sfruttamento di legname senza fine.

Il mondo subì contemporaneamente un restringimento delle distanze e una forma di redistribuzione geografica della popolazione della terra, tramite il trapianto di fasce sociali subalterne di provenienza europea accanto agli autoctoni. Anche i dissidi religiosi e politici della vecchia Europa, dal ‘600 all '800 contribuirono a questo dislocamento di persone. Tutto si muoveva: la circolazione delle merci e delle prede umane furono alla base di uno sviluppo incontenibile che si credeva infinito. Nel XXI secolo la distanza geografica è ancor più diminuita, le nuove dinamiche di circolazione si legano ad intense attività commerciali e di scambio, a guerre, a disastri ecologici e catastrofi ambientali, a trasferimenti culturali di ogni genere.

A causa dell’invecchiamento della popolazione occidentale il surplus demografico ora riguarda i paesi del Sud del mondo che non si dirigono solo verso l’Europa, ma anche verso gli Stati Uniti, il Canada o anche verso gli stati a maggiore sviluppo economico in Asia o in Africa.

Compaiono in tutto il mondo grandi agglomerati urbani multinazionali. Una massa ingente di persone è partecipe di diversi tipi di nazionalità (di origine, di residenza, di scelta) e appartenenza identitaria. Se dal XVI al XIX sec. l’accaparramento aveva provocato guerre sanguinose per la ripartizione e l’appropriazione di territori da colonizzare, ora le nazionalità di accoglienza  pongono ostacoli di vario genere a questa circolazione, fonte di conflitti con gli autoctoni occidentali, che temono di perdere la loro posizione di privilegio.

Ma non viaggiano solo le merci e le persone, acqua e aria, microbi e virus, api e insetti vari sono coinvolti in relazioni planetarie mai pensate prima, generando ripopolamenti nel mondo organico-vegetale, spesso disastrosi.

Certezze fino ad ora indiscutibili, secondo cui l’essenza dell’uomo esisterebbe separata e distinta dal mondo animale e vegetale e l’unica, fra tutte le specie viventi ad essersi affrancata dalla propria animalità, raggiungendo l’altezza del divino, sono entrate in crisi. E’ evidente a tutti che il genere umano è solo una parte di un insieme più vasto planetario e, diremmo, anche interplanetario. La Terra non è più l’oggetto passivo, come prima, degli interventi dell’uomo, che ha creduto di sfruttarla all’infinito, senza prevedere di andare incontro a disastri ambientali da lui stesso provocati.

D’altra parte la biologia e ingegneria genetica, la tecnomedicina ci dicono che , eventualmente, saremmo in grado di ‘aumentare’ l’uomo, di autocrearlo o rigenerare parti di esso. Dunque allora quale sarebbe l’ ‘essenza’ dell’uomo?

Senza contare che l’introduzione generalizzata di strumenti informatici in tutti gli aspetti della vita sociale fa intravedere che lo schermo su cui si svolge ormai la vita del vivente, che peraltro può essere individuato da un codice, non è più separato dalla vita reale, anzi rischia di sostituirla.

L’articolazione tra la capacità di alterare le specie viventi e altri materiali apparentemente inerti e la potenza del capitale rappresenta la forma più assoluta di potere. Occorre tener presente che la potenza del capitale si è moltiplicata da quando i mercati finanziari si sono affidati alle intelligenze artificiali per ottimizzare il movimento delle liquidità. Algoritmi funzionanti su scale microtemporali, assolutamente inaccessibili all'essere umano, governano gli scambi tra Borsa e operatori, determinando a un tempo instabilità e potere di distruzione, e anche decisioni al di fuori di qualsiasi discussione democratica.

A questo punto Mbembe introduce la definizione di ambiguità della democrazia fin dalle origini. Secondo la vulgata ufficiale la democrazia avendo avocato a sé il monopolio della forza avrebbe aperto la porta all'autocontrollo, alla moderazione, alla civiltà insomma, attraverso l'interiorizzazione delle costrizioni da parte degli individui. Niente più lotte armate di gruppi di potere, niente più obbedienza a uomini forti, solo una forza fondata sul rispetto di forme concordate. Ma è stato proprio così? Se si guarda agli Stati Uniti appare subito chiaro che il paese considerato difensore a oltranza della democrazia, avvalendosi anche delle vette di pensiero intellettuali più mitiche e dei governanti più alti ( vedi Washington o Jefferson) , ha fondato il suo ordine politico in modo doppio: una comunità di simili, fondata sull'uguaglianza e una di  non-simili, di esclusi, tenuta separata e disuguale per legge. E le cose non si sono modificate di molto anche ai nostri giorni, visto che un qualsiasi poliziotto può sparare impunemente a un nero, anche solo per un vago sospetto. Il linciaggio e le esecuzioni pubbliche avevano lo scopo di spargere terrore tra i neri e "ravvivare le pulsioni mortifere che stanno alla base della  supremazia bianca."

Grazie al denaro accumulato dai proprietari di piantagioni, l'Inghilterra del settecento non solo mette in moto l'industrializzazione ma fa dilagare il consumo di prodotti di lusso, la civiltà delle buone maniere, dando una identità aristocratica a chi si è arricchito in modo disumano.

Ma già dal '600  la pace civile dipendeva da chi era più efficace nelle lotte coloniali: ogni stato che si volesse far rispettare doveva avere compagnie concessionarie e consumare prodotti da remote parti del globo. Tanto le atrocità, i conflitti e i massacri avvenivano lontano e non turbavano la coscienza di nessuno.

Certo, non che critiche alle democrazia liberale non ne siano mai avvenute. Basti guardare all'anarchismo ottocentesco e al sindacalismo rivoluzionario del primo trentennio del XX sec. Ma erano tutte interne alle dinamiche europee e non coglievano, a  parere di Mbembe,  il vero nocciolo della questione.

Il 'successo' della democrazia coincideva con il periodo in cui l'occidente era impegnato in un duplice movimento di consolidamento interno e di espansione oltremare. Perché non era solo una faccenda interna delle democrazie occidentali, ma riguardava una  buona parte del mondo.

Una storia a due facce, dunque, con un corpo solare e uno notturno: quello dell'impero coloniale e quello dello stato schiavista delle piantagioni e del bagno penale. Senza dimenticare che la spinta coloniale coincise con una delle prime rivoluzioni  militari dell'epoca industriale, con a disposizione nelle colonie un campo di sperimentazione.

Già intravediamo come, l'emergere del pensiero della potenza unita alla tecnica, apra la strada ai campi di concentramento e alle ideologie del genocidio. Non solo le due guerre mondiali dimostrano ciò, ma soprattutto le cosiddette "sporche guerre" ( vedi Indocina, Algeria, Angola, Mozambico). Guerre che si concludono con una relativa perdita per gli occidentali e perdite ingenti nelle popolazioni autoctone, oltre ad una mutazione ecologica dei territori devastati. Mentre in Europa va avanti una sorta di umanizzazione della guerra, attraverso lo sviluppo di un diritto internazionale, questo non vale per le colonie, dove tutto è permesso dalle leggi disuguali, che regolano i rapporti tra colonizzati e coloni, alle distruzioni di case, campi, villaggi, costumi e tradizioni. Un desiderio di sterminio, da mascherare con i veli della mitologia della nascita radiosa della democrazia in quella Europa che si considerava il centro del mondo.

Però la democrazia non può esistere senza il suo doppio notturno, la colonia dove impera la legge del fuori-legge. E la democrazia, al suo interno, veglia e fa di tutto per ottundere le coscienze affinché non percepiscano la verità e facciano vacillare l'ordine stabilito. Per chiarire cosa il filosofo intenda per uscita dalla democrazia introduce le implicazioni religiose del concetto di tempo della fine e tempo del nuovo inizio, che dalla eredità greco-giudaica sono passati nelle scienze umane europee. Si pensa che l'essere, per raggiungere il proprio apogeo, debba attraversare una fase di purificazione, prima della scomparsa.  Anche se, per la tradizione cristiana, la scomparsa catastrofica dell'umanità è solo il primo passo verso un altro inizio, perciò un'altra storia.

In molte antiche tradizioni africane, però, il punto di partenza dell'interrogativo sull'esistenza umana non è la questione dell'essere, ma quella della relazione, della reciproca implicazione, del riconoscimento della carne che non è la mia. Produrre la storia consiste nel dipanare e riallacciare nodi e potenziali di situazioni. La storia è una sequenza di situazioni paradossali che vedono trasformazioni senza rottura, trasformazioni nella continuità, assimilazione reciproca di molteplici segmenti del vivente. Tali tradizioni danno una scarsissima importanza all'idea di una fine del mondo o alla nascita di un'altra umanità". Caratteristica propria degli uomini è una continua disposizione di accoglienza dell'ignoto e dell'inatteso; la sorpresa, in qualche modo,  è ciò che rende il mondo degno di essere vissuto.

Per le credenze di gran parte dell'umanità la fine del mondo è già avvenuta. Si tratta di convivere con le perdite e le separazioni. "Ma ci sono perdite che liberano, perché rappresentano l'apertura ad altri registri della vita e della relazione”. Ci sono oggetti e investimenti dai quali occorre separarsi perché l'attaccamento ad essi può significare la distruzione dell'io e degli oggetti che si vogliono preservare nella stessa forma ad ogni costo.

Oggi l'entusiasmo per le origini è alimentato da un sentimento di paura causato dall'incontro con l'altro. Non vale la pena di preferire gli altri a noi stessi, così come riteniamo di aver fatto finora, ragiona l'uomo occidentale, perché questi altri non ci assomigliano e non valgono quanto valiamo noi. In tale contesto nasce la fissazione per l'ebreo, il negro, l'arabo, la donna velata, lo straniero in genere. Pur di non ammettere che l'uomo da sempre è un uomo di frontiere, fatto di prestiti stranieri.

In tale regime psichico e mentale si crede a qualsiasi cosa, non importa se le storie siano vere o no. L'ultimo della serie è il terrorista, che ha vinto l'istinto di sopravvivenza e che può perciò morire, uccidendo gli altri. Il terrorismo islamico, si pensa, ce l'ha con gli occidentali in modo gratuito, senza che l'occidente si senta minimamente responsabile, questa guerra è imposta dall'esterno lontano, quindi il diritto di difesa si estende da casa propria a quei paesi che danno ricetto agli uomini del terrore. Ma uccidere civili innocenti, come danni collaterali necessari, non è altrettanto immorale quanto uno sgozzamento o una decapitazione dimostrativi?

Il risultato è che siamo tutti armati e molti sono alimentati dall'idea che è ormai l'ora della resa dei conti, dell'armageddon, o noi o loro. Ma l'attivismo terrorista  e la mobilitazione antiterrorista hanno in comune una cosa: l'uno e l'altra si richiamano al diritto e ai diritti. Il progetto terrorista vuole piegare la società di diritto, di cui minaccia le fondamenta più profonde. D'altra parte, si fa notare da parte degli stati, che solo con la sospensione dei diritti che tutelano gli individui  si possono abbattere coloro che ci minacciano così gravemente. Per difendere i diritti e lo stile di vita  si abbattono le garanzie che s'intende proteggere. Si creano sospetti a priori, aumentando i dispositivi di controllo. Musulmani normali e pacifici devono rendere conto per individui che non si curano delle loro vite e  non esitano ad ammazzare anche loro.

Mentre tutti uccidono e massacrano non si trova nient'altro di meglio che prendersela con coloro che scappano da questi terrori, invece di restare nei loro paesi a farsi ammazzare o dagli uni o dagli altri.

In Africa il terrore ha assunto forme diverse. La prima è quella del terrorismo di stato:  per contenere forti spinte di protesta si sono messe in campo repressioni, misure di emergenza straordinarie, forme di coercizione economica. Talvolta gli stati hanno cercato di sminuire la portata sociale delle insurrezioni, dandole un profilo di conflitti etnici, in altre regioni è subentrata una doppia amministrazione, civile e militare. Nei casi estremi si sono promosse bande e milizie controllate da responsabili civili e/o militari, detentori di potere all'interno di strutture dello stato. Spesso queste milizie si sono rese autonome, formando eserciti paralleli alle forze armate regolari. In ogni caso tutto serve da copertura ad attività illegali, con la proliferazione di traffici, protetti dagli interessi occidentali ( petrolio, diamanti, coltan, terre rare, droga, traffico di essere umani ed organi ecc.). Il risultato è stato una accelerazione della crisi delle istituzioni e della precarizzazione. Si è creata una nuova divisione sociale tra coloro che possono difendersi perché posseggono armi e gli inermi che non le possiedono. Lo stato perde il monopolio della forza che si trasferisce a istanze operanti fuori e dentro lo stato stesso, che lottano tra di loro per il possesso delle risorse chiave. Si rende possibile la distruzione di ogni legame sociale che non sia quello dell'inimicizia.

"Con la creazione di nuovi mercati militari, guerra e terrore si sono trasformati in modi di produzione come altri."  I discorsi che si narrano questi gruppi trovano giustificazione nella volontà di sradicare corruzione e tirannidi, ammantandosi di escatologie messianiche, desiderio di sacrificio e mescolando frammenti di sapere occidentale con fantasie tradizionali dell'occulto. Il risultato: guerre estenuanti, migliaia o centinaia di migliaia di profughi dentro e fuori i confini dello stato.

 Nello spazio del Sahel e del Sahara le dinamiche della violenza si coniugano con quelle della mobilità spaziale e della circolazione; a differenza della strategia del tempo delle colonie, in cui a prevalere era il controllo del territorio, qui i poteri si basano sul controllo della circolazione, della rotta delle merci e delle piste, tipiche dei mondi nomadici, stratificandosi nella secolare dinamica nomadi-sedentari e rendendo assolutamente precaria la vita di una massa di persone che dialogano giornalmente con la morte.

Alla fine del discorso, Mbembe conclude che non si può più parlare di politica e conia il termine di necropolitica: alla proposta dell'uguaglianza universale si è gradualmente sostituita la proiezione del "mondo senza", "il mondo del grande sgombero". Dei musulmani, dei negri e degli stranieri che bisogna deportare, dei terroristi o presunti tali, degli ebrei che a tanti dispiace non siano tutti morti nelle camere a gas, dei migranti, profughi, spazzatura umana che ci appesta in vita e da morta coi cadaveri galleggianti in mare.

Il ciclo dell'odio è in continuo movimento: non c'è più distinzione tra carnefici e vittime. "Oggi vittima, domani carnefice, poi di nuovo vittima".

Ma c'è qualcosa che possa legarci agli altri? sarà possibile un mondo che non sia necessariamente fondato sulla differenza e l'alterità ma su una idea del simile e del condiviso? Non si tratta di fare leva sul buonismo o su  semplicistiche e vane idee di integrazione. Non si può fare questo quando si intende fare della propria casa un santuario, continuando a seminare nell’ altrove  caos, morte e guerre. Prima o poi, parafrasando  il proverbio biblico, chi semina vento fuori, raccoglie tempesta a casa. La risposta non è l'universale ma il condiviso, avere in comune l'idea di un mondo che è solo uno per tutte le specie viventi. Ma non si raggiungerà una democrazia planetaria ignorando l'esigenza di riparazione e giustizia.

Forse è sempre stato così, dagli albori della storia... E’ che oggi abbiamo raggiunto il parossismo della separazione, dei movimenti d'odio e dell'ostilità, della necessità, per gli stati, del nemico e della fantasia di sterminio. A tutti vengono in mente i muri di Ceuta, quelli elettrificati dei territori palestinesi, quelli del confine messicano, e se non sono muri, sono chekpoint, torri di avvistamento, posti di blocco, frontiere militarizzate.

I territori occupati palestinesi sono un vero e proprio laboratorio delle tecniche di controllo e separazione: blocchi di cemento per interrompere le strade, incursioni militari improvvise, distruzione di case ed uliveti, schedature, difficoltà burocratiche per tutti i documenti possibili, coprifuoco, inserimenti di colonie ebraiche benestanti in territori arabi immiseriti.

Neanche il regime dei bantustans in Sudafrica aveva raggiunto vette simili, anche perché il livello tecnologico degli Israeliani è di gran lunga superiore a quello sudafricano di allora e riesce ad essere più molecolare e invasivo. L'apartheid degli israeliani si svolge in una situazione di prossimità, come un "combattimento corpo a corpo in una galleria".

Certo, in passato, anche i Cinesi, i Mongoli, gli Arabi e gli Africani hanno avuto le loro fantasie di sterminio e separazione, ma solo gli occidentali a partire dal XVI sec. hanno raggiunto livelli inauditi. In parte il lavoro costante di separazione era dovuto agli effetti dell'angoscia di essere accerchiati e minacciati, data la loro inferiorità numerica rispetto agli autoctoni. Rinserrarli in spazi specifici placava l'angoscia che si evolveva in fantasia di purezza.  Per fare questo i coloni dovevano costituire i nativi in oggetti psichici, creando una serie di immagini stereotipe degli indigeni.

Ma questa modalità invade anche i nativi: diventa ad un certo punto difficile distinguere tra l'oggetto psichico che si è chiamati ad interiorizzare e l'essere reale che era stato, con un corpo, dei sentimenti, una cultura  e che continuava ad essere, nonostante tutto.

Il desiderio di avere un nemico, di separazione e di sterminio sembrano, in questo momento dati insopprimibili delle nostre società. Si tratta di strutture psicologiche che animano molte lotte e mobilitazioni contemporanee, rette da visioni minacciose del mondo, con una forte prevalenza del sospetto, del complottismo e dell'occulto. 

Discriminare l'amico dal nemico diventa tanto più necessario se il nemico, il terrorista, è veramente senza volto e senza nome. Quindi le democrazie liberali intensificano le tecniche di sorveglianza di massa, arrivando all'intimità più assoluta dei pensieri degli individui. Il suicidio del kamikaze interrompe con il suo atto questa catena, con la sua volontà di martirio e paradiso. Ecco allora l'attenzione che si sposta sugli ex-combattenti tornati dalle varie guerre in Medio Oriente, sui lupi solitari, terroristi fai-da-te, sulle cellule dormienti, sugli squilibrati nostrani suggestionati ...

Diceva Freud  nel 1921 :" la massa può venire eccitata  solo da stimoli eccessivi. Chi desidera influenzarla non ha bisogno di rendere logiche le proprie argomentazioni, deve dipingere a fosche tinte, esagerare e ripetere sempre la stessa cosa."

Allora la domanda giusta sarebbe: come mai è possibile questo in un mondo che si riteneva razionale, laico, scientifico e ultratecnologico?

La risposta sta proprio in questo: l'espansione accelerata della ragione algoritmica, supporto essenziale della finanziarizzazione dell'economia, cresce di pari passo con la crescita di ragionamenti di tipo mitologico-religioso.

Questo discorso perciò non riguarda solo gli islamici, i dannati della fede che vogliono costruire con il martirio e il terrore una nuova morale, ma anche le democrazie liberali che non esitano, come alle soglie delle due guerre mondiali, ad accendere le passioni guerresche dei cittadini. Dal lutto alla lotta, sottolinea Mbembe. Il militarismo, mascherato con gli orpelli del diritto internazionale, dei diritti umani, della difesa della civiltà, opera grandiosi rovesciamenti di alleanze e i complici di ieri, il Gheddafi , il Saddam o il Bin Laden di turno sono serviti come il nuovo fronte per cui combattere, perché senza di quello la democrazia liberale non regge più. Lo Stato di sicurezza si regge su un permanente stato di insicurezza, in quanto quest'ultimo"[...] è ciò che fa funzionare lo Stato di sicurezza, che è in fondo una struttura che ha il compito di investire, organizzare e sviare le pulsioni costitutive dell'esistenza umana contemporanea." La domanda di un surplus di immaginario necessario alla vita quotidiana, un tempo risolto dalle religioni e/o dalle ideologie politiche  è oggi delegata al capitale, agli oggetti, alla tecnologia, che si presentano come una nuova sorta di animismo. In queste condizione la lotta non è più tra vero e falso, giusto e ingiusto, in una pubblica discussione nella ricerca comune di soluzioni ai problemi. La cosa peggiore, per lo Stato di sicurezza, è il dubbio, che blocca la completa liberazione di quella emotività necessaria per ricorrere alla violenza.

Ad amplificare tutto questo contribuisce la digitalizzazione ininterrotta dei fatti e la potenza e velocità del loro trattamento che induce a preferire gli argomenti più semplificati ed approssimativi. La massa non è più tale ma si è trasformata in un'orda virtuale, che cerca eroi che la dominino e opprimano, a cui affidarsi liberando protetta le proprie pulsioni, senza più inibizioni. Un vero e proprio sdoganamento del male.

Il razzismo, che racchiude al massimo queste pulsioni, sarà nostro appannaggio ancora per molto tempo e non solo nella cultura di massa, ma anche all'interno della buona società. L'autore conia il termine di nanorazzismo :"[...] forma narcotica del pregiudizio di colore che si esprime nei gesti apparentemente neutri di ogni giorno, nello spazio di un nulla, di una frase in apparenza inconsapevole, di una battuta, di un'allusione o di un'insinuazione, di un lapsus, di una barzelletta, di un sottinteso e, bisogna pur dirlo, di una cattiveria voluta, di un intento malevolo, di uno sgambetto o di un placcaggio intenzionali, di un'oscura voglia di stigmatizzare e soprattutto di fare violenza, ferire e umiliare, di infangare chi non si considera dei nostri".

Questo atteggiamento non è più soltanto dei proletari bianchi, rosi dal risentimento e mangiati dalla paura di risvegliarsi un giorno nei panni del negro o dell'arabo e non laggiù, lontano, come nelle colonie di  un tempo, ma proprio qui nel loro paese.

Dispositivi giuridico-burocratici istituzionali moltiplicano le difficoltà per stranieri, migranti, rifugiati: si lasciano naufragare in mare barconi di disperati, si chiudono i porti, si deportano persone, si creano i centri più svariati di identificazione e di transito, di prima accoglienza, di seconda accoglienza, di attesa delle risposte di asilo, di percorsi di integrazione e di apprendimento della lingua, villaggi per profughi o, peggio, giungle di permanenza precaria, che ciclicamente vengono smantellati, provocando ancora disperati, alla ricerca di un tetto. Il "campo" è ormai la risposta per tutto, per difendersi da supposti propositi di vendetta da parte di coloro, di cui si sono fomentate a distanza, miseria e morte.

Un tempo, pur propugnandolo, il razzismo era tuttavia qualcosa di vergognoso, da nascondere, palesemente in contrasto con quei principi così solennemente enunciati di uguaglianza. Oggi questa barriera sembra non esistere più.

L'occidente non si rassegna a non essere più monocolore e che d'ora in poi, voglia o non voglia, il mondo sarà plurale in modo irreversibile.  

Nello straordinario capitolo dedicato all'opera di psichiatra e uomo di lotta Frantz Fanon, rintraccia riflessioni che oggi ci possono tornare utili nella presente situazione di ostilità perenne.

Innanzitutto il concetto della relazione di cura che porta il soggetto colonizzato ( ma anche il Bianco, dato che ha avuto in cura anche francesi) a cominciare ad opporre un rifiuto alla rappresentazione di sé che l'Altro gli ha imposto per arrivare ad un reciproco riconoscimento :"infine l'Altro è tale in quanto ha un posto tra di noi e noi gli facciamo posto". Se si arriva al rifiuto si arriva anche alla lotta, ma non come vendetta ( io lotto per prendere il tuo posto) ma come frutto di una scelta radicale di uomini nuovi, che sanno far scaturire nuovi linguaggi. In questo senso dà moltissima importanza agli aspetti culturali, alla "festa della rivoluzione".

Fanon è un antillano, che ha studiato e operato in Francia come psichiatra e si lega alla lotta algerina, entrando nella resistenza. Ma ha ben chiaro che la funzione della lotta è convertire l'economia dell'odio (del colono verso il colonizzato e viceversa) e il desiderio di vendetta in economia politica, in nascita cosciente di una nazione.

Fanon scrive dopo le terribili esperienze del fascismo, del nazismo e dei lager, dei massacri della seconda guerra mondiale e ha in mente l'Africa che verrà, ma si cominciano già a intravedere le nuove borghesie nazionali che imboccano subito la strada delle predazioni e dei soprusi, con la boriosa arroganza di chi ha sconfitto i vecchi padroni, di cui ora si prende il posto. Ricordiamoci che molti dittatori sono stati dei padri della patria e le élite dirigenziali predone  hanno combattuto nelle lotte coloniali.

La riflessione africana e della diaspora moderna sulla possibilità di un mondo nuovo si è svolta in massima parte nel contesto del pensiero umanistico occidentale. Non a caso i primissimi scritti di afroamericani sono delle autobiografie. Dire "Io" è la prima parola con cui l'essere umano cerca di esistere come tale. E' significativo che la narrazione di sé passi spesso attraverso elementi religiosi cristiani, che hanno costituito, spesso, la base della resilienza degli afroamericani.

In Fanon e in Césaire tende a prevalere la critica del pensiero umanista occidentale, ponendo l'accento sul desiderio di distruzione che alberga in esso; Senghor, Glissant, Gilroy si mostrano più possibilisti, pur individuando le strade senza sbocco del discorso occidentale. C'è una strada afrocentrica che ha trovato il suo campione in Cheikh Diop che ha puntato sulla demistificazione delle pretese universalistiche dell'umanesimo occidentale, ponendo le basi di un sapere che trarrebbe dall'Africa stessa le proprie categorie, superando la cancellazione della storia e della originalità negra operata dall'occidente.

Una risposta più recente deriva dalla corrente chiamata afrofuturismo.

Questa corrente artistica, letteraria, musicale,  filosofica e tecnologica comincia ad emergere nella seconda metà del ventesimo secolo, anche se il termine fu coniato nel 1994 dal critico Mark Dery. Prendendo a prestito una frase contenuta in "1984" di G. Orwell "chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il futuro controlla il presente" possiamo tentare un definizione di questa variegato movimento.

Il passato degli afroamericani è stato cancellato da uno spostamento forzato e violento, dal divieto di parlare la propria lingua e i propri costumi. Hanno cominciato a vivere con doppia identità, con due anime inconciliabili. Come se fossero discendenti di alieni rapiti dal continente africano, hanno vissuto (e vivono) limitati da intolleranza, carcere e sperimentazioni tecnologiche sul proprio corpo.

Il dilemma della doppia identità viene rivisitato in chiave extra-umana (alieni e robot) e con una appropriazione tecnologica avanzata in opposizione a quella del potere tecnocratico capitalista. L'umanesimo del mondo occidentale viene fatto a pezzi, anzi viene considerato superato. Il Negro, così come prodotto dalla sua storia di predazione è stato costretto a vestirsi da cosa e a condividere il destino degli oggetti e degli utensili. Porta in sé la tomba dell'umano. Sarà possibile parlare dell'umano solo al futuro, di cui il Negro è la prefigurazione, in quanto, con la sua storia rimanda a un potenziale di trasformazione, di inversione e metamorfosi, anche corporea. L'Universo intero sarà la dimora, sostituendo alla condizione terrestre quella cosmica: "scena della riconciliazione tra l'umano, l'animale, il vegetale, l'organico, il minerale  e tutte le altre forze del vivente, solari, notturne o astrali che siano".

E' profondo il rifiuto di un mondo come un insieme di parti separate, la cui relazione di reciprocità è mediata da poteri economico-politici, a vantaggio esclusivo di una sola parte.

Anticapitalismo, storiografia sovversiva, fantascienza, riflessioni sulla tecnologia in rapporto alle culture nere, femminismo, realismo magico e cosmologie non-europee si mescolano in un magma di non sempre facile decifrazione. Celebrano la fine del capitalismo delle macchine attraverso immagini di uomini incatenati, forzati, schiavi, officine abbandonate , ciminiere scheletrite e spolpate dalle intemperie. Un passato ormai impossibile da ripetere, ma difficile da dimenticare.

Preannunciano un futuro di corpi cibernetici e di corpi metamorfosati, per significare il rifiuto delle differenze e il ripudio dell'umanità 'inventata' dall'occidente.

Per Fanon questo non è necessario: il fondamento comune è la vulnerabilità, a partire dai corpi esposti al decadimento e alla sofferenza. Senza un riconoscimento reciproco di questa vulnerabilità non c'è spazio per la sollecitudine e neanche per la cura.

Certo, come favorire  l'emergere di un pensiero capace di contribuire al consolidamento di una politica democratica, un pensiero di complementarietà invece che di differenza? Si rileva che la parte del testo che critica è più ponderosa di quella che propone soluzioni o almeno suggerimenti su come uscirne. La flebile etica del passante con cui si conclude il testo ha il sapore leopardiano del richiamo del poeta a "stringersi in social catena", ricordando la comune casa della terra, che ci è data in prestito e non in possesso e su cui i mortali consumano la loro fragile esistenza.

 

Abbiamo letto questi libri e prodotto i nostri approfondimenti mentre la chiusura delle città si faceva sempre più pressante e i divieti più stringenti, a causa del dilagare del Covid 19. Ognuno ha dovuto cedere ampie porzioni della libertà individuale per il bene di tutti e in solidarietà con tutti gli operatori sanitari. Questi testi parlano della attuale incapacità delle democrazie occidentali di rispondere ai nuovi compiti che la circolazione delle  persone, attuata per diverse motivazioni, le pone. La finanziarizzazione dell'economia, nuova frontiera del capitalismo mondiale, ha bisogno di democrazie di facciata e di persone rese passive, sospettose ed egoiste da un controllo sempre più totalizzante. Questi libri analizzano questi rischi. Ricordiamocelo quando saremo liberi dalle restrizioni attuali: la libertà di pensare criticamente ai guasti del capitalismo finanziario, alle catastrofi ambientali, alla povertà di molti speriamo ci guidi veramente a considerarci tutti abitanti, a pieno diritto, dello stesso pianeta e che la solidarietà ci protegga come un muro, l'unico muro di cui vogliamo l'esistenza.

“E se l'Africa scomparisse dal mappamondo?” - Una riflessione filosofica con Filomeno Lopes

Questa presentazione del libro di Filomeno Lopes (Armando editore, 2009) prende spunto dall'incontro svoltosi alla presenza dell'autore, di Marco Massoni e Habté Weldemariam presso la libreria Odradek di Roma il 21 ottobre del 2010.

Quale pensiero filosofico per il futuro dell’Africa? - di Habtè Weldemariam

Alcuni anni fa, in occasione di un incontro che si svolgeva a Frascati, promosso dall’associazione “Nessun luogo è lontano” ho avuto la fortuna di incontrare e discorrere a lungo con il compianto  professor Joseph Ki-Zerbo.
Ero reduce dalla presentazione del discusso documento NEPAD (Nuovo partenariato per l’Africa) presso il Ministero degli affari Esteri di Roma e chiesi a  Ki-Zerbo cosa ne pensasse…
Informativa Cookie

Noi e terze parti selezionate utilizziamo cookie o tecnologie simili come specificato nella cookie policy. Puoi acconsentire all’utilizzo di tali tecnologie chiudendo questa informativa, proseguendo la navigazione di questa pagina, interagendo con un link o un pulsante al di fuori di questa informativa o continuando a navigare in altro modo.