José Craveirinha, professione poeta - di Anna Fresu
Introduzione di Andrea Maffei 1)
La letteratura di lingua portoghese è innervata dal tema coloniale: dal Vasco de Gama - modellato su Enea - di Luís de Camões (una sorta di lusitano incrocio tra Virgilio e Tasso) fino, in epoca contemporanea, ai lavori del grande Lobo Antunes (che davvero lasceranno morire senza Nobel?) o a un romanzo come La costa dei sussurri di Lídia Jorge. A maggior ragione, esso emerge nelle pagine di autrici e autori portoghesi di lingua, ma non di passaporto. Qui oggi presentiamo fra loro uno dei più illustri e misconosciuti esempi, il mozambicano José Craveirinha (1922-2003) che è stato, in prima persona, la Poesia che scriveva. In diversi testi egli richiede d’essere identificato, difatti, tout court con il suo canto ([…] O vecchio dio degli uomini/ lascia ch’io sia tamburo/ […] solo tamburo che grida nella notte calda dei tropici […].), ma anche con le conseguenze del colonialismo portoghese in generale, il poeta figlio d’una donna ronga e un povero emigrato dell’Algarve.
[...] Se riguardo il tema coloniale e postcoloniale rimandiamo a numerosi nostri precedenti episodi (oppure fuori rubrica), per restare su Craveirinha cediamo volentieri la parola alla professoressa Anna Fresu, che l’ha conosciuto personalmente e ha tradotto, insieme con Joyce Lussu, le sue poesie. Accanto all’antologia presentata [Cantico a un dio di catrame, trad. it. Di J.Lussu, Lerici, 1966], suggeriamo anche il volume Voglio essere tamburo, edito dal Centro Internazionale della Grafica di Venezia, con incisioni della pittrice mozambicana Bertina Lopes, curato direttamente dalla professoressa Fresu. A lei i più sentiti ringraziamenti per il bel regalo che con il suo contributo oggi fa a tutte le lettrici e a tutti i lettori di MDNM.
José Craveirinha, professione poeta di Anna Fresu
L’ultima volta che ho incontrato José Craveirinha è stato nel 1996 in una libreria della Baixa, la zona storica di Maputo, la capitale del Mozambico. Ci eravamo sentiti al telefono dall’Italia quando lavoravo con Joyce Lussu a una nuova antologia delle sue poesie, replicando quelle apparse nel ’61 in Cantico a un dio di catrame che Joyce aveva pubblicato per la Lerici nel ‘66 e che erano tratte da Chigubo, primo libro del poeta pubblicato clandestinamente nel 1964 in Portogallo a cura della Casa dos Estudantes do Imperio, che riuniva studenti provenienti dalle varie colonie, molti dei quali sarebbero poi diventati dirigenti delle nuove nazioni indipendenti, come Agostinho Neto, Marcelino dos Santos, Jorge Rebelo, eccetera. Questa nuova antologia si sarebbe chiamata Voglio essere tamburo, dalla poesia Quero ser tambor, sorta di dichiarazione del poeta sulla sua funzione di richiamo e incitazione alla rivolta. In questa antologia sarebbero figurate anche poesie che all’epoca della precedente non erano ancora state pubblicate, tratte dalle raccolte Karingana ua Karingana (Lourenço Marques, Académica, 1974), Cela 1 (Maputo, Instituto Nacional do Libro e do Disco, 1980), Maria (Lisbona, África Literatura Arte e Cultura, 1988) - libri usciti successivamente -, accompagnate dalle belle incisioni della pittrice mozambicana Bertina Lopes, per il Centro Internazionale della Grafica di Venezia, 1991.
Non vedevo il poeta dalla prima riunione per la creazione dell’Associazione degli Scrittori del Mozambico (AEMO), nell’agosto del 1992, in cui era stato eletto presidente - un po’ controvoglia da parte sua, che sfuggiva agli incarichi istituzionali - e in altre occasioni ufficiali fino alla fine del 1987, quando lasciai il paese, dopo quasi undici anni di permanenza, per tornare a Roma.
Fu una bella sorpresa quell’incontro casuale, rivedere il suo bel sorriso sotto i baffi eterni, quel suo aspetto e il suo fare sempre naturalmente seducenti che così bene e con la consueta autoironia descrive in Auto-effige:
“Vecchio dandy incravattato, antitesi di santo.
[…]
Perfino esimio calciatore quando ho voluto./ Demone di molte progenitrici di figlie graziose./ Antipatizzato da diversi mariti frustrati/ Fratello sincero degli amici più fedeli/[…] Filo-marxista davvero eterodosso”.
Ci salutammo, parlammo del libro, della pace ritrovata, della speranza rinnovata.
Il 4 ottobre del 1992 avevano avuto luogo finalmente, a Roma, con la mediazione della Comunità di Sant’Egidio e del governo italiano, gli accordi di pace che mettevano fine alla lunga e sanguinosa guerra civile, iniziata nel ’77, due anni dopo l’indipendenza, fra il governo del Mozambico e la Resistenza Nazionale del Mozambico (RENAMO).
Avremmo dovuto rivederci ma non fu possibile. Avevo prolungato il mio soggiorno, dopo aver prestato la mia collaborazione per un servizio della RAI sui meninos da rua e i bambini soldato, per condurre un laboratorio teatrale con questi ragazzi ospiti della Cidadela da Criança, un’istituzione nordica che si occupava del loro recupero; e dovevo tornare a casa.
*******
Craveirinha è stato una presenza forte per tutti gli anni vissuti in Mozambico, una specie di colonna sonora che mi ha aiutato a conoscere, a capire, a entrare in sintonia con il paese e la sua gente. Prima d’arrivare a Maputo, agli inizi del ’77, non lo conoscevo, non avevo letto le sue poesie tradotte da Joyce Lussu. Parlo di “colonna sonora” perché fu così che mi arrivarono i suoi versi, declamati dai ragazzi in qualche prova di manifestazioni culturali in cui dovevo dare una mano quando cominciai a lavorare per la Direzione nazionale della Cultura. A parte l’enfasi declamatoria con cui i versi venivano recitati - frutto degli insegnamenti delle scuole religiose da cui molti provenivano, ma anche della retorica di partito - questi mi arrivavano con tutta la loro musicalità e bellezza, con tutto l’incanto della tradizione orale e con tutta la loro forza: la ribellione degli oppressi, l’odio per i dominatori e per quel dio di catrame, per chi aveva cancellato i volti e i nomi della sua terra, per chi ne aveva disprezzato lingua cultura e tradizioni imponendo le proprie, l’eco dei canti e delle lamentele nelle miniere e nelle piantagioni, il suono dei tamburi, dei batuque che chiamavano alla rivolta e ancor prima al risveglio delle coscienze, l’irruenza e l’urgenza del sogno e dell’utopia, di quel paese che era tutto da inventare. Quel “SIA – VUMA” (“COSÌ SIA”) urlato, ripetuto perché il sogno divenisse realtà:
E il treno dei minatori sarà trasporto scolastico per i bambini della ferrovia
e i compounds silos del nostro granturco
—
E un cerchio di braccia nere, gialle, marroni e bianche
[…]
stringerà il baobab sacro del Mozambico
—-
E saremo viaggiatori senza padrone
giornalisti, operai con figlie anche ballerine classiche
architetti, poeti con poesie pubblicate
compositori e campioni olimpionici
——
E costruiremo scuole
ospedali e maternità al prezzo
che sia gratis per tutti
e cantieri, giardini, teatri e biblioteche
COSÌ SIA
E c’era quel modo di raccontare le cose “alla maniera semplice delle profezie…” come nei racconti intorno al fuoco, in cui attraverso le fiabe e le leggende si trasmettono saperi di vita e cosmogonie, in cui ci si riconosce come comunità. E la comunità che sogna il poeta non ha colore e nutre sogni di pace, in cui la magia è quella che fa sì che popoli dispersi e dominati si risveglino liberi e uniti in una sola nazione. Quel sogno che dopo l’indipendenza sembrava farsi realtà.
Ahimè, molte sarebbero state negli anni successivi anche le delusioni, che il poeta, deceduto nel 2003, non fece a tempo a soffrire che in parte; ma il suo sguardo vigile gli aveva già permesso di intravedere errori e principi di corruzione e additarli con i suoi versi sferzanti.
Ma subito dopo l’indipendenza si viveva il tempo della ricostruzione e quello del dolore doveva ancora venire. Negli anni bui della colonizzazione altro era il compito del poeta che egli assumeva in pieno, anche se i suoi versi e la sua rivolta lo avevano condotto al carcere prima e al manicomio poi. E anche questa esperienza diviene poesia con versi meno declamatori ma più ermetici, sferzanti, stringati. Buoni per essere scritti in pezzetti di carta, fogli di carta igienica da potersi nascondere facilmente e far uscire di nascosto, magari nella scollatura di sua moglie Maria. E, dopo la sua morte, a lei è dedicato il libro Maria di un lirismo tenero e composto.
Due anni dopo l’indipendenza si sarebbe aperto il lungo conflitto, alimentato dagli Usa e dal Sudafrica dell’apartheid, che avrebbe messo il paese in ginocchio e mietuto innumerevoli vittime. E anche stavolta sarebbe stato il poeta a gridare l’orrore e l’impotenza, raccontati con versi crudi e impietosi, ricorrendo a volte all’ironia e alla metafora quasi a rendere tollerabile la crudezza della realtà e delle immagini in Babalaze das Hienas (Maputo, Associação Nacional dos Escritores, 1997) (La sbronza delle iene).
Gli accordi di pace saranno accolti da Craveirinha con sollievo, sì, ma anche con molte perplessità e timori. Così mi confessò al telefono: “Non mi piace la parola ‘negociações’ (contrattazioni). Sono impresari o patrioti quelli che stanno seduti a discutere il nostro futuro? E questi terzi, che forzano la pace in una direzione o in un’altra, quali sono i loro interessi?”. Timori che avvertiamo ancora oggi in situazioni simili.
Ma ancora una volta il poeta non si nega alla speranza e confida nel ruolo che per sé ha assunto davanti al mondo e alla storia: “Un melo dà le mele. Io sono poeta. Che altro posso dare?”.
1) Insegnante di scuola superiore e dottorando all'Università ELTE di Budapest.
Articolo pubblicato in: www.micromega.net/mappe-del-nuovo-mondo-han-kang- e-jose-craveirinha