Fouad Laroui - La vecchia signora del riad - a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Fouad Laroui 

 La vecchia signra del riad

 Del Vecchio editore, 2020

 traduzione di Cristina Vezzaro

 

 

Laroui, conosciuto nel panorama editoriale italiano fin dal 2013, sempre con le edizioni Del Vecchio e l’impeccabile traduzione della Vezzaro,  ci presenta quest’anno “La vecchia signora del riad”, già pubblicato in Francia nel 2011.

L’autore fa parte di quegli scrittori che leggono la realtà con gli occhi dell’ironia e della leggerezza, sviluppando sempre, con sfaccettature diverse e  divertenti e originali trame, i punti qualificanti delle sue riflessioni: linguaggio e colonialismo/ post-colonialismo oltre agli stereotipi che nascono sia tra gli europei verso gli arabi marocchini e quelli dei marocchini nei confronti degli occidentali, soprattutto i francesi. Ma in questo testo la faccenda si amplia e si complica: Laroui introduce la storia di eventi misconosciuti ai più, sia occidentali che arabi.

Il testo è infatti composto di tre parti:

la prima è la vicenda di una giovane e già un po’ annoiata coppia parigina borghese benestante che decide, in vena di desideri di caldi esotismi, di acquistare un riad a Marrakech (cosa peraltro molto di moda tra i pensionati di lusso e i vip europei) per trascorrervi almeno un anno e interrompere una routine coniugale e lavorativa stressante; la seconda è l’inserzione della storia di Tayeb, personaggio in relazione alla vecchia signora che compare nel riad di cui sopra, attraverso cui l’autore espone gli eventi storici che hanno caratterizzato il Marocco, dai primi anni del ventesimo secolo fino alla seconda guerra mondiale; particolare  riferimento si fa  alle vicende della rivolta del Rif  di Abdelkrim e dell’istituzione della repubblica nel Marocco del nord, quando il resto del territorio era dominato dal sultanato. La terza parte è il racconto del finale della vita di Tayeb, di cui non si era saputo più nulla dopo il grave ferimento alla testa, durante la battaglia  di Montecassino nel ‘44, scritto da Cécile, la donna della coppia francese, che immagina un ritorno in patria del  soldato smemorato e i vent’anni trascorsi a vivere su una spiaggia dell’Atlante, in povertà e allucinazioni, con sprazzi di memoria in cui tutto si mescola e si confonde.

Inutile dire che la tripartizione e l’epilogo impongono un mutamento di linguaggio. Divertente e comico nelle disavventure della coppia: entrambi non sanno nulla del Marocco, ma hanno la presunzione di capire tutto, pretendendo da chiunque un francese di buon livello, senza considerare che è l’arabo la lingua ufficiale; sono incapaci di pronunciare correttamente un nome che vada al di là di Mohamed e, sotto sotto, nonostante le arie da progressisti, pensano che i marocchini siano un po’ tutti imbroglioni e ipocriti, poliziotti, mediatori di agenzie immobiliari, professori di storia e bottegai che siano.

E’ ovvio che i due incappano in avventure, cui non sanno come fare fronte, compreso l’acquisto del riad, che si rivela comprensivo di una strana figura di vecchia, forse un po’ squatter, forse un po’ fantasma.  Un vicino premuroso, con cui intessono un rapporto, rivela loro che  si dovrebbe trattare di Massouda, un’ anziana schiava nera, che ha cresciuto Tayeb (nato da un matrimonio temporaneo del signore della casa con una giovane berbera del sud ) insieme a Lalla Ghita, la moglie dell’hajj Fatmi, ex proprietario del riad.

Guarda caso Tayeb viene detto figlio di tre madri, allegoria delle tre anime del Marocco: i neri, gli arabi e i berberi. Se Laroui avesse inventato anche un personaggio ebreo avrebbe presentato tutte le componenti essenziali che hanno contribuito alla storia del Marocco.

Dunque sullo sfondo di una specie di ghost-story avviene una sorta di romanzo di formazione, non solo dei due francesi, ma anche dei marocchini coinvolti nella vicenda. Una formazione che avviene non solo attraverso la vicinanza, la frequentazione  e lo sforzo di comprensione culturale di quelli che, per Cécile e Francois, non erano stati altro che immigrati nel loro paese; ma anche l’informazione della storia di un paese di cui non avevano sentito altro che di bianche spiagge assolate, dell’esotismo turistico della piazza Jamaa el Fna di Marrakech o peggio di islamisti pazzi e bombaroli. La vecchia Messauda e Tayeb sono l’occasione per cercare di capire storicamente e culturalmente un paese.

Anche i marocchini fanno i conti con i propri atteggiamenti ambigui, con la mistificazione della storia dei berberi e delle vicende di Abdelkrim, con le difficoltà a uscire da binari culturali, spesso logoratisi con il tempo, con la tendenza a rifugiarsi nel passato invece di affrontare seriamente le sfide della modernità, con la difficoltà di concepire un mondo religiosamente laico.

Il caso di Abdelkrim è emblematico: uomini come Mao, Che Guevara e Ho Chi Minh avevano appreso tanto dalle tecniche di guerriglia del rivoluzionario berbero e avevano di lui una grande stima: aveva cercato di portare i berberi del nord verso uno stato moderno e progressista.  Ma in patria, e in generale nel mondo arabo, non c’è un ricordo forte, una festa o un anniversario che ricordi la grande vittoria di Annual nel 1921, in cui un piccolo esercito di guerriglieri aveva sconfitto i poderosi eserciti spagnoli e francesi, armati fino ai denti e con armi pericolose e vietate come l’yprite. I marocchini arabi avevano scelto di stare dalla parte dei sultani che partecipavano agli intrighi internazionali con inglesi, tedeschi, spagnoli e francesi, pur di non perdere il trono, scavando un solco ancora non pacificato con i berberi. Non volendo accettare la diversità linguistico-culturale si sono sempre ipocritamente trincerati dietro un “siamo tutti musulmani” per sviare alla questione.

La parte del romanzo che riguarda la partecipazione di Tayeb agli eventi bellici della seconda guerra mondiale è occasione per narrare con una voce emozionante i pensieri di un marocchino coinvolto dalla Francia in una guerra non sua, cui aderisce non sa bene perché, senza un ringraziamento e una presa in carico da parte della Francia e degli Alleati, del debito di riconoscenza contratto con i centomila marocchini arruolati nell’esercito francese. La narrazione ha l’apparenza della fiction ma gli eventi storici della storia marocchina,  prima e durante il protettorato francese, sono evocati con solidità di informazioni reali per aiutare, attraverso la memoria, quel riscatto dai pregiudizi occidentali e forse indicare un modo per sottrarsi alla tentazione dell’islamismo.

L’epilogo è un po’ sorprendente, ma fa parte della molteplicità di cui si nutre il romanzo: non è più tempo di un solo pensiero o di una sola lingua o di una sola Storia, siamo immersi in qualcosa che è come il territorio della spiaggia su cui vive Tayeb o anche  Sijilmassi nel precedente “Le tribolazioni dell’ultimo Sijilmassi”. La spiaggia è un territorio che non è ancora acqua, ma non è più solo terra, è il luogo che accoglie la trasformazione che non ripudia però la memoria.

Molto interessante “La scatola nera del traduttore” in fondo al testo con cui Cristina Vezzaro mette a conoscenza del  lettore gli enormi problemi di traduzione e gli involontari calembours linguistici tra arabo e francese in cui cadono sia i due stranieri che gli autoctoni, risolti con l’aiuto dell’autore stesso che ha modificato, per l’edizione italiana, espressioni e grafie di nomi per rendere possibile il divertimento a lettori non francesi.

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