Abdou M. Diouf - Il pianista del Teranga - a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Abdou M. Diouf

 Il pianista del Teranga

 

 goWare, Firenze 2020

 

 

 

 

 

Abdou Diouf, noto come Ab, possiede un profilo di scrittore veramente sui generis. Nato in Benin da genitori senegalesi, emigrato a 5 anni con la famiglia, studia ad Arezzo e si laurea a Firenze in Biologia, specializzandosi poi in biologia molecolare. A parte la formazione scientifica è un appassionato di giornalismo e divulgazione scientifica, per i quali consegue un master. E per finire, fan della pallavolo da sempre, diventa giocatore professionista nella squadra di Marcianise volley. Senza trascurare la sua attività di tirocinante biologo a Napoli... Tra un tiro e una provetta, scrive romanzi; a ciò si deve aggiungere una discreta conoscenza della musica autoriale italiana anni’70-’90, l’amore per il cinema di qualità e gli 85.000 followers su facebook a cui badare.

Il tutto entro i trent’anni: sembra un manifesto dell’immigrazione ben riuscita. In realtà di esempi ce ne sono tanti, ma solo se questi ragazzi arrivano alla ribalta nell’arte o nello spettacolo gli italiani se ne accorgono, per il resto li si pensa tutti appena sbarcati dal barcone di turno.

 

Il tipo di storia inventata dall’autore si iscrive in una letteratura, a prima vista, dedicata più ai giovani che agli adulti, come del resto lo era stato per il precedente libro “E’ sempre estate”, edito dalla stessa casa editrice.

Uno stile e una tematica che rimandano ai blog, con delle frasi memorabili ben pensate e condensate in modo incisivo tanto da balzare da utente a utente . Ma, rispetto all’opera precedente che conservava quella slegatura tipica delle pagine di diario, qui abbiamo una buona storia e un’ambientazione insolita. Una storia d’amore difficile e tormentata per il protagonista ( e fin qui nulla di nuovo ) che si svolge precedentemente al piano narrativo principale che si colloca invece in una città imprecisata, in un locale con la musica dal vivo che risponde al nome di “Teranga”. Già il nome è programmatico, come apprendiamo dal gestore del locale, Samba, un senegalese da più di trent’anni alle prese con i frequentatori del bar, sempre gli stessi, uno più strampalato dell’altro: Teranga allude ad una parola wolof che significa ‘condivisione’. Metafora di un mondo altruista fantasticato, ma sempre possibile.

Il protagonista vi approda come pianista succedendo allo stesso Samba che vi aveva suonato a lungo il piano e a un amico sassofonista che ormai non suonava più. Viene chiamato Pianista da tutti e certamente reca il richiamo della “Leggenda del pianista sull’oceano”, che il regista Tornatore trasse dal monologo teatrale “Novecento” di Baricco.

Il Pianista è dislessico e balbuziente, parlare non è il suo forte e ha , fin da bambino, sostituito i tasti del pianoforte alle parole. Un animo sensibile lo ha sempre reso empatico con chi è diverso e con chi soffre, senza avere però il coraggio di buttarsi nella mischia della vita, sempre dipendente dal giudizio della gente. Il suo incontro all’università con Salimata, detta Saly, gli cambia la vita.

La ragazza viene da un passato così doloroso che la porta a evitare a qualsiasi racconto o confidenza con la famiglia adottiva e gli amici: è arrivata dall’Africa su un barcone, suo fratello è morto in mare, i suoi genitori sembra che siano morti in modo drammatico prima di partire, una nuova famiglia ha accolto la ragazza in Italia, senza che lei sia riuscita a stabilire dei rapporti autentici, soprattutto con il padre.

Da fonti indirette, non dalla ragazza, lui riesce a sapere qualche scarna notizia della sua vita passata e dei disturbi da cui sembra essere affetta: attacchi di panico gravi che le impediscono di superare un livello di cordialità sempre un po’ distante e mai veramente in confidenza con gli altri, tanto meno con il Pianista che se ne innamora perdutamente. Nei confronti dei migranti sfortunati che hanno dovuto sopportare prove durissime prima di arrivare in Italia sembra quasi avere un complesso di colpa, a cui rimedia con una grandissima partecipazione umana.

Per 10 anni i due sono amici inseparabili, le emozioni se le scambiano attraverso le canzoni: Dalla, Guccini, De André e, per lei, soprattutto la cantante jazz Nina Simone. Quando lui cerca di comunicarle i suoi veri sentimenti lei ha delle reazioni di panico indescrivibile, costringendolo ad arretrare e ad amarla da lontano, finché decide di lasciarla al suo destino, perché non si può salvare chi non vuole essere salvato. La ragazza, nel tempo, era diventata un vizio che gli impediva di agire, una splendida scusa per continuare a non scendere nell’agone della vita, con tutte le sue contraddizioni.

 

La decisione di lasciarla è maturata durante la conoscenza della gente che frequenta il Teranga, nelle esperienze con cui si confronta, soprattutto grazie all’attività maieutica esercitata, nei suoi confronti dall’amico Samba, un po’ Socrate, un po’ lo jedi Yoda, un po’ l’anziano maestro di Karate Kid. E’ questa la parte più originale del testo, a partire dalla descrizione dell’ambiente e dei personaggi che vi circolano.

Il caffè, un antro magico, diremmo, possiede dei tavolini che al centro hanno dei bonsai uno diverso dall’altro e alle pareti appesi quadri, vinili, poster, fotografie, perfino un Banksy, quello della bambina con il palloncino rosso e altri oggetti vari. Ai quattro lati del locale statue filiformi ed alte rappresentanti africani in abiti europei d’antan, che erano diventate famose in epoca coloniale e avevano avuto una certa circolazione nei mercati d’arte. L’oggetto più sorprendente è una teca contenente la chitarra “Mare di mezzo”, costruita, con difficoltà e pazienza, da un liutaio cortonese, con i legni dei barconi affondati o approdati a Lampedusa, certo non i più adatti a costruire sonorità. Chitarra che passa da musicista a musicista, che vogliano impegnarsi a dare voce a chi non ce l’ha o non ce l’ha più, perché scomparso in mare.

Il lettore si trova davanti una galleria fantastica di esempi di giustizia, solidarietà, amore, storia negata, sogni e progetti di un mondo migliore: Peppino Impastato, Cheikh Anta Diop, Falcone e Borsellino si mescolano con i Beatles, con Fred Mercury, Bob Marley e tanti altri che è impossibile nominare tutti. La storia di ciascun elemento è il mezzo di cui si serve Samba per tirare fuori l’anima del Pianista,intorpidita da un amore impossibile.

Anche i personaggi che si siedono ai tavolini recano l’orma di qualcun’altro: il vecchio sofferente di Alzehimer, detto Mr. Tambourine, quella di Bob Dylan, altro mito dell’autore; la signora con i fili di perle al collo, la sigaretta in una mano e nell'altra la penna con cui scrive sui tovagliolini del bar allude alla poetessa Alda Merini; la severa donna che reca tatuata sul braccio una sequenza di numeri, è la Segre; Pierangelo Bertoli se ne sta con la sua fisionomia accigliata, ‘a muso duro’, sulla sedia a rotelle in un angolo del bar; il sassofonista ormai in disarmo ha le sembianze di Giobbe Covatta, noto per le sue battaglie per l’Africa con Amref e le iniziative sulla dislessia; un cliente detto il Postino, ovviamente richiama Troisi: compare, in una rievocazione di Samba, il giovane soprannominato Ned, morto suicida giovane, ma che appariva al Teranga vestito e allegro come il marinaio canterino Ned del film “Ventimila leghe sotto i mari” .

Un personaggio chiave è Sankara, un burkinabé con tanto di baffetti e basco rosso, che ha il ruolo di matto del villaggio, un po’ griot, un po’ profeta visionario. Quando entra si fa precedere da un “Udite, udite gente!”e “l’Africa ha bisogno di essere lasciata a se stessa”, beve vino di palma e cita tutti discorsi di Thomas Sankara: la gente non ride di lui, là dentro, ma con lui, quando lui stesso ride. Un folle che condivide con il pianista la consapevolezza del fatto che star bene da soli fa paura , perché chi non si concede facilmente, quando lo fa, la gente si spaventa per il troppo che hanno da dare. In suo onore si suona e si canta l’inno sudafricano Nkosi Sikelel’ iAfrika. Non manca neanche, fuori del locale, all’ingresso, un clochard che parla del sorriso della Gioconda…

Il locale non profuma di cappuccino o alcol ma di spezie e di libri nuovi perché la cultura vi circola liberamente. Di libri si parla molto nel testo, compreso quello di Malala, la giovane pakistana, aggredita perché voleva studiare, che la bimba di Samba dona al protagonista; un libro, quello di Cheickh Ante Diop sulle origini africane dell’Egitto è il regalo che fa Samba al Pianista e le frasi di Sepulveda condiscono il finale.

In un capitolo intitolato "L’amico fragile" il pianista intesse un testo poetico (con le frasi tratte dalle canzoni di Faber, nell’anniversario della sua morte) con la sua mitica Olivetti 22, comprata da un rigattiere: l’autore è molto attirato dalla poesia e dai testi profondi di molti cantautori.

 

Come nei film che piacciono ai ragazzini il romanzo termina con una festa in cui tutti cantano, ballano e si abbracciano, secondo quanto ha diffuso Naoko, donna bellissima che gira sempre in kimono. Non è giapponese, ma lo sembra a causa di una rara malattia al fegato che dona un colore giallo agli occhi e al viso: lei spera in una terapia genica e cerca sempre di non cedere alla depressione.

Alla fine si balla con il pianista che canta, senza balbettare , “I can see clearly now the rain is gone” di Johnny Nash. Ma non mi sembra estraneo neanche il finale pieno di speranza e ottimismo dello zavattiniano “Miracolo a Milano”. Reggae e rythm&blues accendono le gambe di tutti.

Al termine della storia si esce dalla claustrofobica stanzetta in cui vive il Pianista, con la sola compagnia di una gatta (c’era una volta una gatta…) attirata dalla musica del jazzista James Taylor, anche se non entra mai dentro, e ci si allontana anche dalle stramberie del Teranga.

Il lettore si trova di fronte ad un mare azzurro che, per eccellenza, simboleggia l’apertura verso la vita, a cui accede finalmente il protagonista.

Il testo affascina, è ben scritto, anche se il target sembra rivolgersi agli adolescenti italiani e afrodiscendenti, ai figli di migranti interni ed esteri.

Ma questo non è un male. Dopo tante aggressività, un linguaggio pacato, intimista, colto e aperto alla speranza ci sta bene. Il giovane afroitaliano promette bene.

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