Nicola Aldo Coviello - Puškin e la “poetica” del talismano - recensione di Habté Weldemariam

Nicola Aldo Coviello

Puškin e la “poetica” del talismano.

Mimesis, 2025

 

«La nostra memoria serba sin dall'infanzia un nome allegro: Puškin. Questo nome, questo suono, riempie molti giorni della nostra vita. Accanto ai cupi nomi degli imperatori, dei condottieri, di inventori di armi per uccidere, di torturatori e di martiri, si affaccia un nome, Puškin. Egli seppe portare con allegria e gentilezza il suo fardello, sebbene il suo ruolo di poeta non fosse né facile né allegro, ma tragico(1)

Ci piace introdurre con questa citazione il sintetico ritratto di un grande artista. L'opera di Puškin è l'immagine veritiera di un'anima che attira, sempre mobile, disposta a viaggiare lontano nello spazio e nel tempo. Questo ritratto esaltante ci offre Nicola Aldo Coviello nel suo saggio e in particolare abbiamo apprezzato l’interesse sulle origini africane del grande poeta russo su cui ci soffermeremo pur con le doverose osservazioni sul contenuto generale del testo.

Per Puškin, scrittore così colto e così nutrito di tutte le tradizioni, la poesia fu molto più un movimento che un patrimonio; la stessa immagine centrale del «talismano» nella sua poetica, parla di una ricchezza avventurosa, portatile, sottoposta al gioco delle contingenze e dell'imprevisto. Soprattutto, come sottolinea Coviello, per Puškin la poesia «è ciò che deve ancora essere», qualcosa che deve sempre e ancora cominciare ad esistere. La poesia inseguita da lui con tanta inquietudine, da una parte è l'eco di un suono ancestrale, che proviene dalle origini dell'umano e del singolo individuo, dall'altra è una promessa, una scintilla di futuro, l'albeggiare interminabile di «una nuova lingua nella lingua».

È a partire da questa tensione inesauribile che già i suoi contemporanei riconobbero in lui non solo il più grande poeta russo, ma il poeta per eccellenza, quasi una “figura allegorica”, come disse il più grande tra i suoi eredi diretti, Nikolaj Gogol “Puškin fu un dono fatto al mondo, per dimostrare con la sua persona che cos'è un poeta in sé, e niente più».

Controcorrente rispetto ai canoni contemporanei, il volume offre quasi 150 pagine di viaggio senza pause. Non ci sono capitoli né paragrafi né altre forme di agevolazione. Si corre a perdifiato sotto la luna dei poeti. Il racconto contiene -per quanto umanamente possibile - tutto l’universo puskiniano, con una bussola per segnare il nord dell’anima: il talismano, il suo talismano, quello cui dedicò due poesie nel 1825 e nel 1827. Un anello, un pegno d’amore, un dono di Elizaveta Vorontsova da cui il poeta non si separò mai e di cui Coviello ricostruisce il destino dopo la morte del suo proprietario. Di mano in mano saltò l’anello, da Zhukovsky a Turgenev a Tolstoj con la promessa che, quest’ultimo, lo passasse a un degno successore.

Il talismano non è solo un anello. «Quello invocato nei suoi versi - scrive Coviello - perde i tratti oggettuali e invita il poeta a battere strade sconosciute, a correre avventure, a trovare spazio per una gaiezza, per un’incoerenza». Il talismano è la sua poetica, anzi la sua poesia. Di più, è lui stesso, destinato a fecondare la letteratura che verrà (Gogol, Dostoevskij, Tolstoj) e a risuonare nelle note intessute dei suoi versi (Stravinskij, Rachmaninov). Passa di mano in mano, ripullulando nel genio altrui, sempre fedele a sé stesso.

Il segreto del talismano non è tanto nel nome, quanto nella «forma», per così dire: i versi di Puškin non fanno mai rima con il suo tempo, ma appartengono ad un luogo che, poi, è più che altro uno stato dell’essere. La Russia, anzi sono «tutte le Russie pagane, cristiane, musulmane, buddiste» a cantare nei versi di Puškin, tenendo per mano l’Oriente e l’Occidente. Di fronte a lui si sentono tutti piccoli. E non potrebbe essere diversamente. I personaggi diventano paradigmi, statue di dei, i sentimenti si universalizzano, la Russia, gigantesca e insondabile, si fa anima altrettanto grande e indecifrabile. Il lettore è perduto anche perché l’incantesimo non si chiude nelle parole, ma evade, esonda. «Non fa mai il punto». L’unica possibilità è affidarsi a una guida che tenda il filo nei dedali del labirinto poetico.

Le radici africane orgogliosamente ricordate

Aleksandr Puškin è celebrato come il poeta nazionale russo. Era orgoglioso delle sue radici africane, sebbene non avesse mai realizzato il suo desiderio di visitare il continente. Suo nonno, Abrham Gannibal, era un servitore nero africano e figlioccio di Pietro il Grande, che divenne ingegnere militare e ottenne privilegi aristocratici nel corso della vita.

 

Il Moro di Pietro il Grande”

Busto di Abrham Petrovich Gannibal nella tenuta Petrovskoye, immagine che richiama storia ed eredità dello “schiavo nero africano” che divenne, non solo uno dei massimi Generali nell’esercito russo; ma anche uno dei migliori consiglieri militari e uomini più colti di Russia. Oggi è noto soprattutto per essere stato il bisnonno di Aleksandr Puskin, nonché capostipite di una stirpe di numerosi nobili e aristocratici britannici moderni.

Le origini di Abrham Gannibal sono diventate fonte di notevole dibattito. Secondo una biografia del genero di Gannibal, Adam Rotkirkh, Gannibal era il discendente diretto di un “principe musulmano originario dell'Abissinia”, che fu inviato a Costantinopoli come ostaggio del sultano ottomano. Il ragazzo rimase alla corte del sultano Ahmed III per circa un anno prima che il sultano lo donasse allo zar Pietro nel 1704.

Nel corso dei secoli, i ricercatori hanno tentato più volte di rintracciare l'ubicazione di Lagone, che la storiografia eritrea colloca a Logo-chewa (ሎጎ ጭዋ) in Eritrea.

Il biografo di Gannibal, Hugh Barnes (2) sostiene invece avallando una teoria di uno storico beninese (del Benin n.d.r) Dieudonné Gnammankou, che Gannibal provenga da Logone-Birni, a sud del Lago Ciad, in Camerun.

All'inizio del XVIII secolo, i servi neri africani erano considerati uno status symbol per le monarchie europee. A differenza di Spagna, Francia o Gran Bretagna, la Russia non aveva un impero marittimo e non era coinvolta nel commercio atlantico di schiavi africani. Nel 1704, lo zar Pietro inviò istruzioni all'ambasciatore russo a Costantinopoli, il conte Pëtr Tolstoj, per procurargli alcuni ragazzi africani (i resoconti successivi suggeriscono che i russi abbiano acquistato o ricevuto in dono dal sultano di Costantinopoli.)

La narrativa eritrea è convinta di avere prove convincenti che due bambini siano stati rapiti dai turchi. Da ricordare che in quel tempo, il regno Ottomano si estendeva fino i bassopiani orientali eritrei e nel giugno del 1704, Savva Raguzinsky, collaboratrice di Tolstoj, portò due ragazzi in Russia via terra. Uno morì di malattia durante il viaggio, ma l'altro sopravvisse e arrivò a Mosca a novembre. L’incontro del ragazzo africano con lo zar non avvenne subito, ma quando lo vide per la prima volta, chiese al bambino di otto anni informazioni sulla corte ottomana e rimase colpito dalle sue capacità intellettuali e dalla sua padronanza della lingua russa. Da allora in poi, il bambino accompagnò lo zar ovunque andasse e, nel luglio del 1705, fu battezzato con il nome di Abrham Petrovich nella chiesa di Santa Paraskeva a Vilnius, in Lituania, con lo zar Pietro il Grande come padrino.

Nel 1717, Abrham accompagnò lo zar in un'ambasciata alla corte del giovane re Luigi XV in Francia. Quando Pietro tornò in Russia, il giovane rimase in Francia per studiare ingegneria militare.

Fu in Francia che adottò il nome Gannibal, la forma russa di Annibale. A Parigi, si dice che abbia incontrato Montesquieu e Voltaire, che lo definirono "la stella oscura dell'Illuminismo". Questi e altri racconti costituirono la base del romanzo incompiuto di Puškin, Il Moro di Pietro il Grande, un'opera di narrativa storica ispirata alla straordinaria vita del suo bisnonno.

Puškin non conobbe mai il suo bisnonno ma il fascino per le sue origini africane lo spinse a saperne di più su di lui dai suoi parenti Gannibal. Nel 1817, si recò nella vicina tenuta di Petrovskoye per far visita all'anziano Petr Gannibal, secondogenito di Abrham, che gli diede la biografia inedita di Gannibal, scritta da Adam Rotkirch, in tedesco.

Tra il 1824 e il 1826, Puškin fu esiliato a Michajlovskij e sottoposto alla sorveglianza governativa. In questo periodo, iniziò a lavorare al suo capolavoro, il romanzo in versi Eugenio Onegin. Puškin sperava di utilizzare il materiale dei Gannibal per scrivere una biografia del suo illustre antenato, ma nonostante i suoi persistenti sforzi, non riuscì a stabilire i fatti in modo soddisfacente e abbandonò la biografia nel 1827. Adattò i suoi appunti, invece, nel romanzo Il Moro di Pietro il Grande, ma riuscì a completarne solo due capitoli.

 

Statua di Alexander S. Pushkin ad Asmara.

Nella piazza centrale di Asmara con la sua statua, gli eritrei e la rappresentanza diplomatica russa ricordano annualmente “il legame e la storia che li unisce.”

 

Oltre a Il Moro di Pietro il Grande, Puškin presenta diversi riferimenti alle sue radici africane nella sua poesia. In un poscritto alla sua poesia del 1830 intitolata "La mia genealogia", Puškin confuta le voci diffuse dal critico Faddei Bulgarin secondo cui Gannibal sarebbe giunto in Russia dopo essere stato barattato con una bottiglia di rum dal capitano di una nave, identificando il capitano come Pietro il Grande e affermando che il suo antenato era "un confidente dello zar, e non uno schiavo". La quartina successiva celebra le gesta dei Gannibal:

Era il padre di quel Gannibal

Davanti a chi, nel Golfo di Chesme

Una flotta di navi prese fuoco,

E Navarino cadde per la prima volta."

 

In una strofa del primo libro di Eugenio Onegin in cui si lamenta del suo esilio a Michajlovskij, Puškin scrive:

Arriverà la libertà e taglierà il mio legame?

È ora, è ora! La saluto;

Vago lungo la riva, aspetto il bel tempo,

E fai cenno a ogni vela che passa.

Oh quando, anima mia, con le onde in competizione,

E avvolto nelle tempeste, andrò alla ricerca

All'incrocio del mare?

È ora di smetterla con questa noiosa situazione

E terra di luoghi aspri e proibitivi;

E là, dove le onde del sud si infrangono alte,

Sotto il caldo cielo della mia Africa,

Per sospirare gli spazi cupi della Russia,

Dove per la prima volta ho amato, dove per la prima volta ho pianto,

E dove è custodito il mio cuore sepolto.

Puškin morì in duello nel 1837 senza aver realizzato il suo sogno di visitare l'Africa ma non c'è dubbio che si sentisse in parte africano e fosse orgoglioso della sua eredità africana.

Due secoli dopo, è ricordato non solo come il poeta nazionale russo, ma anche come uno scrittore nero di fama mondiale.

 

 

NOTE

(1)-Aleksandr Blok, citato in Jurij M. Lotman, Puskin. Vita di Aleksandr Sergeevič Puskin, Ledizioni, Milano, 2012, p. 226.)

(2) (Hugh Barnes, Gannibal: The Moor of Petersburg, Profile Books 2005)

Potresti leggere anche...

Informativa Cookie

Noi e terze parti selezionate utilizziamo cookie o tecnologie simili come specificato nella cookie policy. Puoi acconsentire all’utilizzo di tali tecnologie chiudendo questa informativa, proseguendo la navigazione di questa pagina, interagendo con un link o un pulsante al di fuori di questa informativa o continuando a navigare in altro modo.

Cookie Policy