GIBUTI: TERRA DI MEZZO NEI ROMANZI DI WABERI


Intervento di Laura Brossico in occasione dell'incontro "Doppio sguardo sul Corno d’Africa", Centro Policulturale Baobab di Roma, 18 aprile 2008

Abdourahman A. Waberi è nato a Gibuti nel 1965. Nel 1985 si è trasferito in Francia per proseguire i suoi studi universitari, dopo i quali ha cominciato a lavorare come professore di inglese a Caen, in Normandia. Esperto di letterature africane di lingua inglese (è autore tra l’altro di una tesi sullo scrittore somalo Nuruddin Farah), collaboratore di varie riviste e periodici, vincitore di diversi premi per la sua opera, comincia a pubblicare nel ‘94. Ha scritto tre raccolte di racconti brevi, una raccolta di poesie e tre romanzi, tutti tradotti in italiano, insieme a un saggio-testimonianza prodotto nell’ambito di un progetto, che ha coinvolto diversi scrittori africani, sulla tragedia del genocidio in Ruanda.
 
“La storia di Gibuti negli annali del continente? Appena lo spazio per una volgare nota a piè di pagina”, dice ironicamente uno dei suoi personaggi.
Ultima colonia africana della Francia ad accedere all’indipendenza, nel giugno 1977, questo “paese pulcino” e la sua storia dimenticata sono il punto focale di tutta l'opera di opera, cui ci accosteremo qui attraverso due dei suoi romanzi: Balbala, pubblicato nel ‘97, e Transit, del 2003.
Con il suo territorio minuscolo, un entroterra desertico, distese di sale, una terra attraversata da una delle più grandi spaccature della crosta terrestre, la grande faglia dell’Africa orientale, Gibuti non presentava un particolare interesse materiale per le potenze coloniali.
Ma la sua era ed è una posizione fortemente strategica: all’estremità meridionale del Mar Rosso, affacciato sul Golfo di Aden, Gibuti è “incastrato” tra i grandi stati vicini del Corno d’Africa (Somalia ed Etiopia, Eritrea), cerniera tra Africa bianca ed Africa nera, a 20 km di mare dalla costa dello Yemen.
Questa posizione attirò le mire della Francia, desiderosa di controbilanciare la presenza britannica ad Aden e di affermare la sua presenza in quest’area del mondo, accanto a inglesi e italiani.
I francesi arrivano nel 1862 e comprano per 10.000 talleri da alcuni sultani locali queste terre che, sin da prima della diffusione dell’islam, iniziata attorno all’825 d.c., erano state utilizzate per secoli per il pascolo del bestiame da diverse tribù di popolazioni nomadi, fra cui gli Afar dell’Etiopia orientale e gli Issa della Somalia, ancora oggi i due principali gruppi del paese.
Nel 1888 iniziano la costruzione della città di Gibuti e del suo porto, che diverrà presto lo sbocco al mare dell’Etiopia e uno snodo fondamentale per i collegamenti e i traffici di merci con l’Oceano Indiano, il Madagascar, l’Indocina e l’Oceano Pacifico.
La presenza francese sarà a lungo limitata dal punto di vista numerico, e la costa di Gibuti vivrà la sua stagione di crocevia di merci e genti, tra mare e deserto, Africa e Oriente, costa su cui si arenano avventurieri “a caccia di emozioni e sudori umidicci” (tra gli altri, Arthur Rimbaud).
 
Waberi descrive questi inizi della presenza coloniale in un brano di Balbala:
 
Quali luoghi avevano trovato gli europei accostando a questo tratto del Mar Rosso? Quali echi lontani avevano udito dalla strettoia di questo mare, da Suez e Porto Said? Probabilmente un mercato al centro di una parvenza di città (...). Un mercato per il bestiame e le pelli essiccate, il caffé di Moka (in realtà, dell’Abissinia), il legno, il sale fino che si raccoglieva sulla terra nuda, i diversi incensi (mirra, sandalo, mimosa), gli schiavi in partenza per l’Arabia (detta felice nei vecchi libri di storia e nei racconti orientali), e la grossa selvaggina. Prodotti semplici o meravigliosi, un mercato frugale in cui gli sguardi catturano lo straniero e in cui le donne si nascondono, ancora per un po’ di tempo, alla vista dei bianchi con il casco. Un mercato sobrio, certamente, ma una costa operosa, una riva che si affatica a fuoco lento dalla notte dei tempi. (...) Ben presto il mattone bianco, color nuvola, fa la sua apparizione, usato nella prima moschea Hammoudi, per esempio. Un mattone di madrepora e benvenuti gli edifici a due piani, che sono i primi segni di agiatezza. Ed ecco la vera città, Gibuti: uno sguardo di velluto, un sapore e un profumo (inebriante, è vero) all’incrocio di più continenti. (...)
Gli unici punti di riferimento sono la risata folle di un nomade dell’entroterra e la voce serpentina del muezzin nell’azzurro del tempo. E per ogni direzione, il dito puntato verso l’orizzonte, preludio di una nuova partenza per la vicina savana. Una transumanza in più, e la mandria spinta sempre davanti a sé – è la legge.
Anni dopo, nelle ore di baldoria e di bisboccia notturna, la città danza in varie lingue. È Babele in prossimità dell’ebbrezza fisica. Arabi dello Yemen (Moka, Aden, Sana e l’Hadramaut fanno risuonare in modo diverso i loro accenti), abissini, sudanesi ed eritrei talvolta mischiati, indiani ed europei convivono con i somali e gli afar del paese. Gli uni e gli altri imparano a conoscersi, almeno ci provano o fanno finta. Gli arabi costruiscono le case o pescano le perle in compagnia dei marinai locali o sudanesi, gli indiani commerciano con i greci, i nomadi autoctoni approvigionano la città mentre i francesi amministrano la colonia lillipuziana.
 
La diffidenza della popolazione nomade dell’entroterra al primo incontro con lo Straniero e gli effetti destrutturanti del suo arrivo su questa cultura fiera, regolata da simboli antichi, dall’essenzialità dei mezzi, dal movimento delle transumanze tra la costa e l’interno, sono descritti a più riprese in entrambi i romanzi: simboleggiati, ad esempio, dalla costruzione della ferrovia, che segna l’irruzione della modernità, “due linee parallele” che “hanno cambiato immediatamente il concetto stesso di tempo – due linee per accorciare la geografia”; oppure dalla “rotondità delle capanne portatili foggiate dalle donne nomadi” che “indietreggerà di fronte ai baraccamenti sbilenchi, più o meno rettangolari”.
La suddivisione della popolazione del paese tra afar e issa sarà presto strumentalizzata dall’amministrazione coloniale che, applicando un sistema ben noto, privilegia l’una o l’altra etnia o l’una o l’altra tribù all’interno della stessa etnia, a seconda del grado di fedeltà alla madrepatria Francia.
Alle rivendicazioni indipendentistiche promosse dagli Issa a partire dalla fine degli anni ‘40 risponde quindi una politica a favore degli afar e del loro leader, Ali Aref, più favorevoli al mantenimento della tutela francese. La repressione non placa il malcontento e la crescita del movimento indipendentistico (a maggioranza  somala) durante gli anni ‘60 finchè, nei primi anni ‘70, il paese fu attaccato dal Fronte di liberazione della costa somala, a cui avevano aderito molti espulsi dalla colonia. Nel 1976, il governatore afar Ali Aref è costretto a dimettersi e l’anno seguente la Francia deve concedere l’indipendenza alla sua ultima colonia nel continente africano.
Il processo di decolonizzazione è segnato dall’acuirsi dei conflitti tra i due maggiori gruppi etnici, fomentati da una politica governativa che prosegue il processo di tribalizzazione avviato dall’amministrazione coloniale, favorendo gli issa, e in particolare il clan del presidente Hassan Gouled Aptidon, a scapito delle altre tribù somale e soprattutto discriminando gli afar.
Il regime riesce a mantenere una certa credibilità in ambito internazionale, mascherando la repressione brutale di ogni sorta di opposizione, la corruzione, il clientelismo, strumenti di una dittatura di fatto.
Le conflittualità sfociano alla fine degli anni ‘80 in una vera e propria guerra civile combattuta tra le truppe presidenziali e l’opposizione afar al regime, raggruppata nel FRUD (Front pour la Restauration de l’Unité et de la Démocratie) durata fino al 1994, anno in cui il governo firma un accordo di pace con i ribelli del FRUD.
 
Questi eventi costituiscono lo sfondo di entrambi i romanzi, in cui la scrittura si assume un compito - tematizzato a più riprese - di recupero del passato antico e recente, di una memoria collettiva “malmenata, falsificata, cancellata” da un regime che, tramite una democratizzazione di facciata, ha voluto dare all’esterno l’immagine di un’“oasi di pace”, una “terra di incontro e scambi”, come recitano gli slogan ufficiali.
 
Si tratta di due testi singolari, difficilmente collocabili, la cui struttura aderisce alle vite interiori e ai punti di vista variabili dei personaggi, colti in situazioni estreme, in un contesto storico che ne determina drammaticamente i destini, ma su cui essi non cessano di interrogarsi, e di cui vogliono, malgrado tutto, “rendere racconto”.
Si sviluppano tramite l’accumularsi e stratificarsi delle loro voci, che si esprimono attraverso monologhi interiori, riflessioni, ricordi, discorsi. La scrittura dà loro espressione, caratterizzandosi per una grande ricchezza di immagini e metafore, per improvvisi cambiamenti di tono, ritmo e linguaggio, con l’alternarsi di pagine segnate da una denuncia politica spesso aspra, talvolta ironica, di digressioni storiche, di brani fortemente evocativi o autenticamente poetici. Come ci avvisa Waberi stesso per bocca di uno dei personaggi di Transit:
 
“Si deve cogliere il respiro nella calca delle voci narrative, ecco tutto” – perché “Quando si racconta una storia ... quando si sviluppa il via vai di una storia .. l’ordine più naturale raramente salta agli occhi. Si compie tramite deviazioni, tramite calcoli approssimativi, quindi tramite ripetizioni reiterate.”
 
Nel primo romanzo, che prende come titolo il nome della grande bidonville a sud della capitale ed è ambientato negli anni ‘90, “Il Verbo libero si è insediato nell’ambulatorio di Balbala”; è qui, infatti, che si riuniscono i 4 componenti di quello che viene definito dal regime “il quartetto sedizioso”. Il romanzo è diviso in 4 parti corrispondenti ai 4 protagonisti: Wais, un maratoneta di fama internazionale; Yonis, il medico che ha studiato in Unione Sovietica e di ritorno al paese si impegna nella causa per l’indipendenza; Dylleita, il poeta e Anab, unico personaggio femminile, sorella di Wais e moglie di Yonis. Il clima cupo di violenza e terrore in cui vivono i personaggi e l’intera popolazione viene reso dall’accumularsi e dalla ripetizione di immagini di immobilità, pietrificazione, desertificazione, chiusura, censura.
 
Il secondo romanzo inizia e termina nel transit dell’aeroporto Roissy-Charles de Gaulle, dove si incrociano - senza mai entrare in contatto - i due sopravvissuti di questa storia, Harbi e Bashir, che sono riusciti fortunosamente a farsi imbarcare per la Francia sfuggendo alle violenze scoppiate nella capitale in cui Harbi ha perso tutta la famiglia. Harbi è la figura dell’intellettuale africano che ha studiato in Francia ed è rientrato a Gibuti negli anni subito precedenti l’indipendenza, pieno di speranze presto disilluse; ha perduto tutto, e si impone invano il dovere di “pensare solo al suo corpo”. Alla sua si affiancano le voci della moglie bretone, Alice; del figlio adolescente Abdo-Julien e quella di Awaleh, il padre, portatore della memoria nomade che vuole trasmettere al nipote e a sua madre.
Infine, Bashir, nome di battaglia Bin Laden: è un giovane di strada, smobilitato suo malgrado dall’esercito governativo in cui si era arruolato a 15 anni, durante la guerra civile esplosa all’inizio degli anni ‘90. Bashir si presenta e si racconta senza reticenze, in un linguaggio crudo e sgrammaticato, che si contrappone alle voci degli altri personaggi, creando effetti di forte spaesamento:
 
“Da 6 mesi mi chiamo Bin Laden. Bin Laden, l’uomo più wanted del pianeta, no?! Bin Laden è il più grande guastafeste dei ricchi. Bin Laden è terrifico. Ma io sono Bin Laden in versione giocattolo, dai, come le bambole di Madonna ... Non ho la bella barba e il testone di Bin Laden, ma attenzione, sono cattivo e senza pietà”.
 
La sua visione, insieme cinica, crudele ed ingenua, è priva di qualsiasi riferimento morale, si pone al di là del bene e del male, tesa solo alla sopravvivenza:
“Dopo la V elementare mi hanno dichiarato idoneo alla vita attiva. Noi la chiamiamo VA ... tutto il mio quartiere è VA. Dopo la VA ho fatto tutto per strada. Dovevo pur cavarmela. ... Non sono tanto fortunato, sono solo, senza fratelli e sorelle in un paese dove ogni famiglia può fare squadra di calcio da sola o spedire subito una squadra di soccorsi tra i pianeti lassù come Star Trek”.
 
La guerra per lui è un modo di vivere senza problemi, di fare ciò che vuole, contando sul kalashnikov e sulle pillole rosa, l’hashish e il khat di cui si imbottisce come tutti i giovani mobilitati:
“UAU! Dopo questa roba il sonno se ne va dagli occhi. La pancia non fa più storie, basta. Non puoi più avere pietà per nessuno, nemmeno per un bambino piccolo piccolo piccolo. ...  E tu con quella roba in corpo diventi matto. Non te ne frega niente, ti fai fuori le vecchie mamme, i vecchi zii e tutto il resto nei buchi della montagna ... bruci l’accampamento, metti il veleno nell’acqua. Spari a raffica tatatatata sugli animali”.
 
Il suo racconto è il più esteso di tutto il romanzo e offre un’espressione originale della follia della guerra civile, resa qui dal punto di vista del ragazzo di strada per cui “la guerra è buona come la canna da zucchero” e “Repubblica è solo nome di viale a Gibuti”. Bashir ce la spiega utilizzando come parametro di riferimento il linguaggio del calcio:
 
“’Sti cavolo di capi sono dei professionisti della restaurazione, OK, ma in battaglia gli dò zero assoluto. Fanno pasticci davanti alla porta, subito il nemico sconquassa la nostra area di rigore e noi siamo KO in piedi. Più peggio, tutti i giovedì loro sono fuori gioco. Il venerdì ritornano stanchi come chewing-gum bolliti, restano in panchina”. "Un giorno vince il governo domani è la ribellione. Non cambia niente vecchio mio. L'arbitro francese guarda la partita dalla panchina.”
 
Quello che emerge da entrambi i romanzi è il quadro di un paese “in avaria”, dominato dall’arbitrio, la violenza, la delazione, la paura (“diventata, per tutti, una seconda pelle”), le suddivisioni tribali (“Nella minuscola Repubblica, ogni uomo è ricondotto al suo recinto d’origine, riceve la sua tessera tribale, viene trasformato in una marionetta articolata e capace di suonare l’unico spartito del proprio clan”).

La descrizione di una natura aspra e difficile diventa metafora più ampia della situazione sociale e politica:
“Terra inospitale e collerica che ignora la carezza dei flutti. Terra spelacchiata, sgretolata dal khamsin. Terra funambolesca, attratta dalla spaccata geologica. Non è impossibile sentirla gemere, sorprendere ciuffi di verde e lacrime di basalto spuntare dalla sua crosta”.
 
“I paesaggi inesplorati del dolore e della rabbia sono molteplici in questa regione del mondo” – scrive Waberi. E in questa Repubblica in cui non bisogna scrivere niente, non bisogna dire niente, Waberi affida alla scrittura il compito di testimoniare, “raccontare il paese con parole di poeta, sondare gli abissi del non detto”, “inaugurare un banchetto della parola al quale tutti saranno invitati e dove ciascuno troverà il suo posto con i suoi discorsi e con il suo passato, insomma con tutta la sua memoria di nomade”.
 
Il recupero della memoria e della cultura nomade, che viene elaborato da Waberi a livello sia tematico che stilistico (e ricordiamo per inciso che egli stesso viene da una famiglia di origini nomadi ed appartiene alla prima generazione stanziale) sono per lo scrittore elementi fondamentali nella costruzione dell’identità delle popolazioni di Gibuti e nella ricomposizione di un paese ormai diviso fra nord e sud, entroterra e facciata marittima, oriente e occidente, lacerato da una guerra civile che impone “di fare l’apprendimento di una fratellanza comune”.
E alla cultura nomade sono dedicate alcune delle pagine più belle e poetiche di Waberi, come questo brano tratto da Transit, in cui si ascolta la voce del nonno, Awaleh “colui che unisce i fili dello spirituale e del temporale, del visibile e dell’invisibile”, e che trasmette i suoi ricordi e la sua saggezza alla nuora francese e al nipote Abdo-Julien:
 
Anch’io ritorno da lontano. Ho percorso in lungo e in largo le distese di pietrisco, i deserti di sabbia, di erg e di reg, i fianchi delle montagne spoglie e le dune rotonde come la gobba dei dromedari. Mi sono dissetato con la linfa delle tamerici e degli aloe che crescono nel letto degli uadi. Un nonnulla mi saziava. Acquattato nel silenzio del deserto, mi muovevo come il camaleonte con una lentezza da ghiacciaio. Avevo nel sangue il risparmio necessario di fiato, l’inquietudine della sentinella, lo sguardo che annulla l’orizzonte. I miei compagni ed io – i famosi Scorpioni del deserto che un amico italiano discreto e gioviale, Hugo Pratt, aveva messo in scena in certi libri illustrati, a quanto pare – d’istinto sapevamo cogliere le pulsazioni della crosta terrestre, scrutare le viscere del deserto, decifrare il libro delle sabbie, prevenire una tempesta. Sgravarsi di ciò che ostacola il passo, appesantisce l’andatura e frena lo slancio. I più dotati tra noi avevano il potere di trasformare in parole il canto più profondo della terra, diffidando degli spiccioli di parole di tutti i giorni, canto sorto dal suo grembo, canto della traversata lenta, canto dispiegato all’infinito. (...)
Nessun membro del nostro esercito di guardia-frontiere, chiamato GNA (Gruppi Nomadi Autonomi), è provvisto di atto di nascita autentico, siamo tutti “nati verso il...”. E’ che il tempo dei nomadi non si sottomette ad alcun calendario, non si sovraccarica di alcun archivio (...). E ci è voluta l’intrusione dell’amministrazione coloniale francese per imporci questo delicato proposito. Per il nostro bene, ben inteso. E noi l’abbiamo accettato senza esitazione. È la nostra forza, la nostra fierezza, poiché ci guardavamo bene dall’offrire all’occupante nudi e crudi i nostri pensieri intimi e non appena le cose si mettevano male, in seguito a un cenno o a uno schiocco delle dita, tagliavamo la corda: a noi il biancore, la sbarra di ferro resa incandescente dal sole della non sottomissione, il solo orizzonte alla nostra portata. (...) E tutte quelle stagioni che avevano l’aspetto del terrore noi le trascorrevamo nell’entroterra nomade. Di khamsin in monsone, era l’andirivieni tra la costa e l’interno (...)
Il suo sole è un farsetto riccamente lavorato, la sua luna argento vivo. I suoi cactus bagnati di luce così eleganti che sembrano riempiti di sangue blu. La delicatezza pastello dei suoi cieli sin dall’alba è in grado di trasformare qualsiasi essere di costituzione normale in spugna sensoriale. Tutti questi sortilegi si agitano nella bocca dei nostri cantori , i barometri dell’opinione pubblica che temono il silenzio del corpo. La lingua del fantastico li spinge a spiegare i misteri nascosti della natura e dell’umanità riunite. (...) Accarezzano il muso della creazione, non utilizzano altro che armi antiche (la pietra che è anche arma, la parola, il respiro, la selce sfregata fino alla scintilla, pensiamo solo un attimo alle mani nude poggiate sulla caverna ruvida dai nostri lontani bisavoli) e rimettono in prospettiva un avvenire che muore rimuginando il proprio passato. Soffrono sotto al nostro sole. Muoiono sotto alla nostra luna, conoscendo l’estrema urgenza dell’atto creatore. Non sono di nessun luogo. Raccontano il tempo. Raccontano il destino. (Transit, pp. 105-107)
 
Il recupero della memoria degli antentati consente quindi all’autore di opporre all’inerzia del presente, all’occultamento del passato e agli stereotipi di etnologi, viaggiatori e giornalisti occidentali, un passato di apertura e movimento, ma anche di resistenza all’intrusione occidentale, un passato in cui Gibuti fu davvero una “terra di incontro e scambi”.

In Transit, peraltro, questo recupero si amplia, collegando un’identità nomade riattualizzata alla condizione moderna dell’esilio e della migranza che - malgrado i suoi corollari di dolore – viene rivendicata come principale cifra interpretativa del nostro presente:
 
“Non v’è altro sangue che misto e altra identità che nomade”. “Gli erranti, gli apolidi, sono i veri e propri creatori, come i nomadi del deserto. Sono le nostre guide (...) quelle che ci indicano i sentieri da percorrere per la traversata dell’esistenza”.
 
Un barlume di speranza è affidato invece in Balbala all’unico personaggio femminile, la giovane Anab, cui spetta anche l’ultima parola nel romanzo.
Anab sa che “Non si vive da soli, si vive con gli altri. Si vive per gli altri” e che malgrado tutto “bisogna tentare di vivere”. Occorre condividere “desideri e paure, silenzi e pianti con i fratelli, i mariti e i figli! (...) Facciamola finita con la paranoia del sesso debole (...) Date prova di fiducia reciproca perché, in definitiva, lo scambio e la relazione prevarranno sulla sfiducia”:
 
Anab stona in questo no women’s land africano (...) Ma Anab non si preoccupa della dittatura; per quanto essa affili gli artigli sui poveracci, Anab fa provvista di speranza, si arma di pazienza in attesa di un’alba radiosa. Se si presentasse l’occasione, non esiterebbe a passare dietro la cinepresa per raccontare il film della sua vita, le sue gioie come le sue pene, i suoi cedimenti come le sue sorprese, i suoi amori come le sue solitudini. Oggi sa che non ci sono buoni o cattivi amici, ma uomini (e donne) che talvolta diventano vittime e la pagano cara. Il giorno in cui lascerà questa terra e il suo cielo infernale, non avrà niente da rimpoverarsi – cosa che non è concessa a tutti.
 
Anab, fiore di bidonville, spazza via l’ipocrisia delle organizzazioni umanitarie, l’Africa dei demografi, “che ci rimpinzano di cifre allarmanti” (stranamente, si contano le pulci solo sulla testa del popolino); quella degli etnologi, che “spesso è nera. E rosa a volte”.
 
“Ma per Anab, l’Africa è sufficiente a se stessa; è la copia di tutti i continenti e l’originale di se stessa. Punto e basta. Non per niente c’è chi viene da lontano per cercarvi un supplemento d’anima, qualche raggio di luce o una lacrima di tenerezza. L’Africa sempre umana, troppo umana”.

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