L’efficacia dell’allegoria e il sano uso dell’assurdo nell’opera teatrale “Antoine m’a vendu son destin” di Sony Labou Tansi *
di Rosella Clavari


Saggio critico presentato durante e pubblicato negli Atti del Convegno internazionale sull'autore congolese Sony Labou Tansi, organizzato dalle Università Paris 12 et Paris 13



L’opera teatrale “Antoine m’a vendu son destin” come oggetto di critica mi ha coinvolto sotto due aspetti a tutta prima banali : fonte di meraviglia e di diletto in quanto soddisfa alla natura del teatro e veicolo di avvicinamento della cultura africana a quella europea in vista di captare quella europea per aprirla a nuove impostazioni di percezione umana.
Senonché la pienezza del contenuto, ossia la proposta di un assurdo vitale, reso con un linguaggio coinvolgente e con un’azione avvolgente, orienta con gradualità incontro ad emozioni inquietanti e a riflessioni mai soddisfacenti.
Nel 1989 chiesi la collaborazione del Cantiere culturale dei Cinque Rioni di Faenza perché contribuisse con la cultura popolare a “saggiare” quel testo. Un servizio di cultura popolare è universalmente quello di raccordare reversibilmente dalle fonti della Cultura dei dotti alla platea di provincia, così come dalle fonti della Saggezza tradizionale alla ricettività del sapere aulico i contenuti frammentari di un’umanità che riflette su se stessa e si aggiorna su quanto conosce di sé.  Il Cantiere negli anni ottanta aveva prodotto un’operetta carnevalesca dal titolo “ e’Niball” (l’Annibale) prendendo spunto dal nome del fantoccio che funge da bersaglio durante il Palio di quella città italiana, dandovi il carattere di un “tumulto popolare” e riproponendo, ad arte, ricorrendo alla strategia dello stile burlesco, allusioni suscettibili di un vasto commento. Mi parve in quell’occasione di riscontrare nelle predisposizioni del Cantiere un utile sostegno per la mia analisi testuale e per l’indagine sui contenuti dell’opera di Labou Tansi.   
Una copia del saggio inedito - di cui qui fornisco un estratto - la donai nel settembre del 1990 all’autore quando raggiunsi  Brazzaville. 

Due parole sulla trama. Antoine, principe africano, detta una dichiarazione diffamatoria di sé da leggere al popolo come una denuncia, cui dovrebbe seguire il suo arresto e la traduzione nel carcere di Bracarà, approntato allo scopo. Tutto viene predisposto in modo che lo stratagemma - volto a sconfiggere un immaginario complotto (o sempre nell’aria ?) - riesca e la cosa avvenga. Il carcere è una prigione dorata , al cui arredamento, consistente soprattutto in una riverniciata sotto l’ipersensibile guida di un Capomastro, concorrono gli stessi reclusi e sembra che l’astuto despota voglia ritirarvisi a dormire, una volta affrontata la pubblica messa in scena del suo ludibrio.
La madre, ignara del sotterfugio, si reca sul posto temendo il peggio, accompagnata dalla moglie di Antoine, alla quale invece il segreto è stato confidato; eppure trepidano entrambe per la vita di lui, data l’ambiguità della situazione, pendente nelle mani dei due complici del pazzo tiranno: Riforoni gentile, Moroni militaresco; ma anche a loro sembra sia stata presa la mano da una folla di arrivisti dell’ultim’ora, che ne decretano la condanna a morte per rimettere in piedi Antoine , il quale al contrario si fa beffe di loro, intendendo andare avanti nel suo delirio parodistico, e così riconfermando ai loro posti i due luogotenenti, dei quali però Moroni si rivela il più spiccio: interpreta la volontà di Antoine per un invito a eliminarlo e gli compiace. Così assistiamo alla morte di Antoine che si accascia ai piedi di Riforoni, pronunciando frasi smozzicate, sembrerebbe allegramente, euforicamente, al di sopra dell’agonia  ed esala l’ultimo respiro prima di rivelare quello che vorrebbe ancora dire .
Questa azione parabolica è divisa in due momenti, sullo scadere del primo dei quali ( I ,5^) assistiamo al sogno di Antoine dove compare un Banditore d’asta pubblica, il venditore di destini ( personaggio connotato sulla reminiscenza dello sciamano o dell’augure classico) la cui fumosa allegoria ha forse a che vedere con l’enigma finale.

Si tratta di  una particolare vendita all’asta: quella del destino di un uomo, Antoine la cui parabola è il percorso drammatico attraverso il quale scopriamo la statura d’un personaggio a  prima vista ambivalente – e il linguaggio con cui si esprime ne è la prima spia- un linguaggio volta a volta iperbolico, turpe. lirico, un fiume di parole che investono lo spettatore e lo illuminano sulla realtà che circonda Antoine e  sui precedenti dell’azione ( o l’antefatto è l’ultima scatola cinese di una successione di eventi che lì si concludono per aprirne una nuova e generare una svolta ?);
una realtà dominata dal mito di una “ storia truccata” cui il protagonista si oppone con violenza verbale, tanto di più quanto più vi è irretito, per cui anche escogitare a sua volta il trucco del sonno come difesa, alla fine lo rovescia fuori della storia , subodorando che potrà rientrarvi solo da morto.

ANTOINE: Dal tipo all’ archetipo. 
 
Le quattro forme  in cui si articola il discorso nel testo in oggetto  ( confronto, contrasto, disputa, confutazione)  cosituiscono anche la dinamica psicologica del protagonista in quanto “le fou “ in dialogo con se stesso, il mondo e l’assurdo in funzione del suo tipo. Ma non si tratta di un semplice “tipo”.
Quando definiamo Antoine “le fou” non ci riferiamo  al”jongleur” riproposto sotto mutate spoglie o a “le fou” riformato. Antoine viene prima di loro e in questo la sua follia non è solo uno stratagemma drammaturgico come lo è per il teatro europeo, è proprio una concezione al di qua dell’invenzione : è il presentimento infantile dell’uomo di fronte alle realtà più grandi di lui e che, qui, sovrasta il microcosmo del popolo “dormiente”, cioè ancora felicemente in grembo alla storia e tutto da partorire.  E non si   tratta  nemmeno di una suggestione pirandelliana. La poetica di Tansi sfugge a questo genere di categorie del teatro europeo e rispetto a Pirandello ottiene l’effetto contrario di far nascere  lo stupore per un “vivente” in un personaggio estremamente paradossale come Antoine.   Pirandello ottiene piuttosto l’insinuazione se alla fine non siamo tutti dei fantasmi, e neppure più sicuri della nostra identità, uno, nessuno, centomila. La poetica di Tansi cade fuori da questo psichismo e si rifà a fonti ben più primigenie quali semmai la profezia e i suoi deliri; più che al verbo espresso si rifà al verbo impresso, per dirla con l’africano  Agostino. Tansi non desidera ascoltatori bensì auscultatori.
Per quanto riguarda la tipologia del “pazzo”, non dimentichiamo  che il ruolo svolto da questo   personaggio  nel contesto tradizionale africano ha un significato ben diverso da quello delle società occidentali contemporanee ;  “le fou” viene presentato da alcuni scrittori  africani , come Thierno Monénembo e Gérald Tchicaya., come colui che domina tutti gli altri personaggi diseredati e no,  emarginati e no  con la sua profonda saggezza e appare come colui  che detiene il segreto dell’avvenire , che incarna il vitale ruolo profetico del veggente mettendo in guardia i suoi contemporanei  incapaci di cogliere il senso degli avvenimenti che vivono.

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