“E se l'Africa scomparisse dal mappamondo?” - Una riflessione filosofica con Filomeno Lopes

Questa presentazione del libro di Filomeno Lopes (Armando editore, 2009) prende spunto dall'incontro svoltosi alla presenza dell'autore, di Marco Massoni e Habté Weldemariam presso la libreria Odradek di Roma il 21 ottobre del 2010.

Filomeno Lopes, studioso di filosofia e teologia, oltre che giornalista, unisce a questa attitudine di studio anche la componente artistica, poiché è un musicista e cantante che ha al suo attivo numerosi concerti e la produzione di quattro cd.

Tra i suoi testi di riflessione filosofica ricordiamo “Terzomondialità. Riflessione sulla comunicazione interperiferica” (Ed. l'Harmattan-Italia, 1997), un'opera con un taglio molto innovativo dove si confrontano le periferie del mondo come l'Africa e l'America Latina, “Filosofia intorno al fuoco. Il pensiero africano contemporaneo tra memoria e futuro” (Emi, 2001) e “Filosofia senza feticci. Risposte interdisciplinari al dramma umano del sec. XXI” (Ed. Associate, 2004).  

Veniamo a quest'ultima fatica di Filomeno, cui occorre dedicare molto tempo e attenzione perché è un lavoro poderoso; pur non essendo “addetti ai lavori” in campo filosofico, si può affermare che questo testo è senza dubbio uno straordinario compendio sul pensiero filosofico africano dalle origini ad oggi, e insieme una riflessione sulla filosofia moderna e contemporanea che cita numerosi  esponenti africani ed europei. Un lavoro di sintesi (ci piace il termine “stradario” usato dall’autore), ma  anche di analisi attenta che offre molti stimoli su argomenti suscettibili di essere ulteriormente approfonditi.

Va innanzitutto detto che la chiave di riflessione prescelta è quella della comunicazione e che quindi questo taglio particolare determina anche la scelta degli autori, africani ed europei.

Nella prima parte, incentrata sulla fenomenologia della comunicazione, si tiene conto della globalizzazione odierna e dei cosiddetti contenuti di coscienza comunicante.  Viene sottolineata soprattutto la differenza tra semplice informazione e comunicazione: contro l'informazione manipolata, la necessità di offrire contenuti di coscienza comunicante, alla persuasione pubblicitaria e dialettica (l'antica sofistica) si oppongono la virtù dell'insegnamento e la riflessione nel dialogo, nell'incontro dal vivo, non virtuale; infine, in questa prima parte del libro, la comunicazione viene vista nella storia della filosofia, ricordando tra l'altro che la parola comunicazione compare per la prima volta in un testo filosofico con Leibniz, nel 1695.

Nella seconda parte, di carattere antropologico, si avverte la necessità da parte dell'autore di tirare le fila di un lungo discorso che va dal pre-colonialismo, dal periodo della tratta e della schiavitù, passando attraverso il colonialismo, sino alla sua fine, per arrivare ad oggi, a 50 anni dalla dichiarazione di indipendenza degli stati africani, al post- colonialismo, dove l'autore evidenzia che la sofferenza non è ancora finita.

L'Africa è un esempio eclatante di vittima dei disvalori apportati dal cattivo uso dei mezzi (in campo economico, sociale, religioso), facendoci vedere chiaramente attraverso la propria sofferenza  l'errato concetto di uno sviluppo in cui la persona, l'individuo, il “chi” - come dice l'autore - conta meno del “quanto”, in cui un concetto di commercializzazione esasperata fagocita l'uomo stesso, opponendosi a una possibile economia ordinata pur nel suo carattere informale, un'economia  che rispetti la dignità e la libertà dei popoli.

Quello che ci aspettiamo, il messaggio dell'autore è rivolto soprattutto agli africani e a coloro che definisce euro-nordamericani, è come ripristinare certi valori attraverso i canali giusti, le giuste rappresentanze politiche ed economiche, nel riformulare, a partire da una visione logico-filosofica, l'uso appropriato dei mezzi.

Occorre evidenziare accanto a questi aspetti eticamente importanti anche le attese e le perplessità suscitate dal testo (non tutte le persone che lo hanno letto ne hanno fruito allo stesso modo). Credo che questo sia dovuto a particolari modalità narrative della cultura africana stessa.  Nella lettura del testo e nelle sue riflessioni, non dobbiamo attenderci un “botta e risposta” preciso, immediato, cioè un modo di procedere che appartiene alla  linearità della cultura europea cui siamo improntati. La narrativa africana spesso nel racconto non segue la linea retta, ma piuttosto la circolarità, percorre tutto un discorso dall'inizio alla fine per poi tornare di nuovo all'origine e in mezzo, in questo percorso, c'è un fiume di interrogativi, di paradossi, di iterazioni, di ripetizioni; inoltre la cultura africana, fin dai tempi di Agostino, è la cultura dell'interrogativo, e bisogna dire che gli interrogativi sono disseminati notevolmente nel testo, spesso sfociando in un discorso parallelo o contrapposto a quello che si sta seguendo nel corso della lettura.

E l'arte della palabre quella seguita da Filomeno Lopes, è l'arte della circolarità del discorso che privilegia l'iterazione, canone tipicamente africano, la ripetizione nel discorso come persuasione, ammonimento, invito alla riflessione.

Non si trova difficoltà a seguire questa modalità di discorso se si è acquisita una certa dimestichezza nella lettura di testi teatrali  di autori africani, in cui è possibile ritrovare questi canoni così come l'uso di figure quali la metafora, la metamorfosi, il polimorfismo, l'iperbole, il paradosso.

Paradossale è il titolo stesso del libro, che echeggia un altro interrogativo posto dal filosofo Jean-Marc Ela: “Esiste forse un piano per cancellare l'Africa dalla carta geografica mondiale?” E a questa domanda Filomeno risponde con un'altra domanda paradossale, che è il titolo stesso del libro: “E se l'Africa scomparisse dal mappamondo?” Questi interrogativi non sono solo semplici figure  retoriche, tipiche del narrare africano, sono stimoli forniti alla discussione su un problema, nello scambio di idee provenienti da culture differenti.

I grandi nomi della filosofia africana contemporanea  citati da Lopes come Jean-Marc Ela, Cheikh Anta Diop, Placide Tempels, Marcien Towa, per citarne solo alcuni,  dimostrano la presenza in Italia (in altri paesi d'Europa e in America lo è già da tempo) della storia della filosofia africana a tutto diritto nelle università, il suo riconosciuto statuto.

Nel testo in esame troviamo un percorso storico della filosofia che parte dall'Egitto, culla del sapere cui hanno attinto i grandi filosofi greci: realtà di pensiero pre-greca, quindi, che conferma la tesi di un Egitto non terra a se stante, ma Africa a pieno titolo, e  un'Africa dunque  non solo culla dell'umanità per la presenza delle prime tracce umane, ma anche culla del sapere, della sapienza antica e primigenia.

Due elementi importanti, quindi, da tenere a mente una volta per tutte, ci ammonisce l'autore:

  1. viene riconosciuta l'influenza che le filosofie egiziane e orientali hanno avuto nell'elaborazione del pensiero filosofico greco
  2. l'Egitto faraonico è riconosciuto ormai da tempo come Egitto nero, una filosofia africana, dunque, e - cito dal testo - “egitto-faraonica che è esistita migliaia di anni prima dell'antichità greca e cinese, circa due millenni prima dell'induismo. Platone è stato allievo dei Maestri filosofi africani dell'Egitto faraonico e quindi debitore all'Africa delle sue concezioni filosofiche”.

A parte la parentesi patristica in cui la filosofia è stata soprattutto  ellenica, romana o giudeo-cristiana, e il periodo strettamente musulmano, la filosofia africana scritta comprende dalle sue origini 6 periodi diversi (cit. p. 20): etiope e nubiano; egiziano faraonico;  le scuole di Alessandria, Cirene, Cartagine, Ippona, con le grandi figure di Archimede, Plutarco, Agostino; la filosofia  maghrebina; le diverse scuole di  filosofia medievale (Timbouctu, Gao Dieme, vale a dire la cultura negro-musulmana); la filosofia moderna e contemporanea (che studiosi come Teophile Obenga  fanno iniziare dal filosofo ghanese del ‘700 Anton Wilhelm Amo e dalle opere di Blyden).

E riguardo alla filosofia  moderna e contemporanea troviamo illustrate ben dieci correnti di pensiero (cit. p. 21): da quella culturalista ed etnologica, a quella ermeneutica che studia il linguaggio, l'arte, la musica ricorrendo al materiale sviluppato dai filosofi euro-occidentali, quindi con una felice contaminazione euro- africana; la corrente funzionale, che studia le possibilità della scienza e della tecnica nella realtà socio-politica e culturale africana, fino ad arrivare a quella considerata oggi più proficua: la corrente egittologica moderna e contemporanea a partire dalle opere del senegalese Cheikh Anta Diop e di Théophile Obenga. Autori fieri e consapevoli della propria identità culturale ritrovata nella sapienza dell'Egitto nero, maestro della Grecia, proiettati verso il futuro nello scambio culturale e nella relazione di contenuti comunicanti.

E sul futuro dell'Africa ci sono molte osservazioni; nelle discussioni attuali sul futuro dell'Africa si individuano i cosiddetti afro-pessimisti e  afro-ottimisti. L'autore cita Aminata Traoré quando afferma che  afro-pessimismo e afro-ottimismo non sono altro che prismi deformanti. Se da un lato prendiamo atto delle osservazioni senza speranza per l'Africa, di Dumont o di Kapuciski, dall'altro c'è il pensiero di Serge Latouche che si sofferma sulle infinite capacità di mettersi in gioco (soprattutto affrontando il tema dell'economia informale). Filomeno Lopes dal suo canto parla del bricolage, come esempio di strategia, reinvenzione e riappropriazione in ambito economico, riconoscendo l'esistenza di una popolazione non passiva ma capace di aggregazione e rivolta contro l'ingiustizia, tutto questo non  eludendo la drammaticità della situazione attuale. 

Un importante punto di riferimento è stato ed è ancora un grande filosofo come  Cheikh Anta Diop, il primo a parlare, nel 1947, di “Rinascimento africano”.

Per inciso, ricordiamo che tra il 1945 e il 1947 ci sono state una serie di pubblicazioni importanti: “Philosophie bantoue” di Placide Tempels (un testo odiato e amato dagli africani stessi), “Dio d'acqua” di Marcel Griaule, un africanista e un europeo come Tempels  che attraverso un'intervista a un anziano cacciatore cieco, Ogottomeli, svela la complessa cosmogonia del popolo dei Dogon e il rapporto tra un sistema mitico e la vita sociale; sempre in quel periodo, nel 1948, la pubblicazione del primo numero della fortunata rivista “Présence africaine”. Sarebbe molto lungo il discorso a proposito di “Philosophie bantoue” che all'epoca fu una sconvolgente sorpresa per gli europei: scoprire un pensiero sistematico, organizzato, eticamente solido in una parte dell'Africa affidata a un gesuita evangelizzatore.

Ma per tornare alle grandi figure di speranza per l'Africa come Cheikh Anta Diop, impossibile non tenere conto anche dell'opera di uno storico come Joseph Ki- Zerbo  (di cui uscirà a breve, a cura di Marie-José Hoyet per le edizioni Emi, uno degli otto volumi delle riflessioni storico-filosofiche).

Vi sono poi coloro che portano avanti il dibattito sulle grandi questioni africane (superando la fase etnofilosofica e antropologica) come Jean-Marc Ela, Fabien Eboussi Boulaga, Marcien Towa.

In particolar modo mi soffermo su Jean-Marc Ela di cui Filomeno parla ampiamente. Questo filosofo e sociologo che ha scelto di vivere dalla parte dei poveri, affermando che l'intellettuale deve uscire dalla sua torre d'avorio e mescolarsi alla gente per capire profondamente i problemi dell'uomo, si sofferma in particolare  sulla dinamicità e storicità delle società africane; nel suo ammirevole impegno sociale e politico, egli sottolinea che accanto ai matematici, ai tecnici e agli scienziati servono esperti in scienze umane. Dice infatti : “Le scienze sociali e la letteratura sono il primo strumento di battaglia comunicativo in ambito teoretico oltre la musica e l'arte per l'affermazione della dignità del muntu nel mondo. L'apertura alla letteratura africana e afroamericana è fondamentale per fondare non tanto una filosofia della letteratura, ma piuttosto una filosofia della  comunicazione, dell'ascolto degli appelli lanciati dalla storia africana nella sua globalità”.  A tale proposito dobbiamo riconoscere che attraverso un romanzo spesso siamo riusciti a focalizzare una situazione storico-sociale ancor meglio che affrontando la lettura di un trattato storico o sociologico, per non parlare di come certe narrazioni riescano a smuovere le coscienze......

Riguardo alle  profonde contraddizioni che lacerano il continente e le difficoltà a far convivere tante espressioni diverse, Jean-Marc Ela illustra i tentativi di soluzione pacifica delle questioni, parla per esempio di una logica della cooperazione e del partenariato (p.88), afferma che è importante  adottare le tecnologie moderne ma confrontandole con i sistemi di valori locali endogeni.

Queste contraddizioni tra modernità e tradizione implicano invece per Marcien Towa (esponente della corrente critica) una richiesta di rinnovamento (bisogna essere fieri del proprio passato, ma per poi metterlo da parte e non rimanere staticamente arroccati su posizioni di esaltazione mitica): “L'assunzione del proprio destino implica la decisione di valorizzare il proprio passato, tuttavia una tale decisione per poter riuscire effettivamente esige una rottura altrettanto radicale con il proprio passato” (p. 394).

Non è facile seguire un percorso lineare, orientarsi in questo terreno discorsivo, proprio perché c'è il dramma costituito dall'essere stati gli africani colonizzati e dipendenti dal modello culturale occidentale ; dall'altro lato c'è la reazione di esagerata rivendicazione dei propri miti, che non permette la comunicazione e porta a una chiusura, a circoscriversi culturalmente nell'etnografia e nell'etnofilosofia; inoltre, all'interno delle stesse rivendicazioni, l'ambiguità di un modello occidentale come la négritude, che si biforca in quella parzialmente accettata di Senghor e quella fortemente libertaria (e senza nessuna concessione all'esotismo per compiacere l'Occidente) di Aimé Césaire.

Ma a parte questi grovigli, questi contorcimenti in cui ci imbattiamo ogni tanto, la chiave scelta da Filomeno Lopes ci riporta all'aspetto degno di essere privilegiato, la comunicazione appunto. Richiamandoci a Severino Ngoenha, tutto ciò che esiste, sussiste attraverso una tela infinita di relazioni onnicomprensive, “per cui niente esiste fuori della relazione”.

 Ecco allora che la filosofia non è uno studio, una riflessione di chi si isola dal mondo bensì, soprattutto alla luce di questo concetto di relazione così fortemente inteso dagli intellettuali africani, “è la domanda sempre rinnovata sul senso delle nostre vite nella storia concreta”.

Occorre inoltre avere coscienza della complessità della situazione e della complessità dell'Africa, mosaico di tante culture, civiltà, etnie diverse.

C'è un'immagine poetica, un anonimo canto wolof di un pastore senegalese, che suggella questo aspetto:

“Quando Iddio creò il mondo,

volle che in esso le cose

fossero diverse tra loro e così tante

quante sono le stelle nel cielo.

E quando creò l'Africa

di tutte queste cose differenti

non volle dimenticarne nessuna”.

 

Ecco la varietà e la complessità dell'Africa descritte da un umile pastore, con un canto poetico, osservando il creato. Il filosofo camerunese  Eboussi Boulaga  circa l'approccio a questo aspetto della complessità osserva: “Vi sono due modi di perdersi ogni qualvolta si riflette sull'Africa: il primo consiste nel soffermarsi sulla diversità biologica e culturale delle sue popolazioni perdendo di vista il sottofondo unitario, e il secondo nel soffermarsi sul sottofondo culturale unitario perdendo di vista la sua straordinaria diversità”.

Quindi bisogna considerare quel sottofondo unitario che è rappresentato dallo stretto legame tra parola e azione, dal culto per gli antenati, dalla circolarità della parola, dalla cultura dell'interrogativo, ma sapere che non è assolutamente così dappertutto, ed è importante soprattutto confrontarsi con le culture del resto del mondo per favorire quella relazione di scambio in cui ciascuno può accogliere e donare delle conoscenze e delle esperienze di vita.

L'aspetto etico, il servizio alla maat (dal nome egizio) cioè alla verità come compito della filosofia domina il testo di Filomeno come desiderio e invito, nella comunità umana, alla ricomposizione armonica, al ripristino di un equilibrio e di un'armonia fortemente compromessi. Un ammonimento che parte da un'etica non più di carattere iniziatico-esoterico quale era presso i filosofi egizi maestri dei greci, bensì come patrimonio acquisito comunicabile nell'era della globalizzazione. 

Concludendo, questo libro è veramente un notevole compendio, uno “stradario” per usare la definizione dell'autore, della storia della filosofia africana a partire dalla sua nascita in Egitto fino ai risultati raggiunti nei tempi attuali, focalizzando in particolar modo 500 anni di storia e moderna e contemporanea di questo continente. In quanto stradario va quindi usato spesso per orientarsi nel “mare magnum” del pensiero filosofico e  sociologico moderno (considerando anche gli antecedenti storici)  e non è sufficiente una prima lettura, in quanto gli argomenti toccati sono numerosi, ciascuno suscettibile di essere approfondito in separata sede; questo forse è il limite del testo, di non avere limiti, “mettendo troppa carne al fuoco”.

Il concetto di comunicazione, di relazione definiscono l'africanità di un pensiero che fa riflettere sul fondamento etico dell'uomo in genere: essere nati per amare, essere nati  per l'altro;  l'individuo in Africa si concepisce solo come membro di una comunità, in tal senso abbiamo visto l'interazione e il dialogo di tutte le cose esistenti in Théophile Obenga e la ricerca dei fondamenti irrinunciabili della vita umana  in Severino Ngoenha.

Su queste ultime riflessioni, non dimentichiamo che spesso proprio dai luoghi dove l'uomo è più martoriato e soffocato giungono segnali nuovi di ripresa, una volontà di riscatto capace di capovolgere la situazione non solo di un popolo ma dell'intera umanità.

Rosella Clavari, Marzo 2011

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