Alain Mabanckou, Domani avrò vent'anni - recensione a cura di Giulia De Martino

altAlain Mabanckou, Domani avrò vent'anni

Editore 66thand2nd, 2011

E’ormai lunga la tradizione letteraria o cinematografica che pone lo sguardo di un bambino come voce narrante di un mondo adulto, in gran parte a lui incomprensibile. Un ragazzino, si sa, legge le cose con altri parametri e quando non arriva a spiegarsi gli eventi, privati o pubblici che siano, ricorre a modalità irrazionali o fantasiose, che hanno il pregio di fare inattese connessioni o conclusioni  a cui gli adulti non arriverebbero mai.
E’ così che si presenta Michel, l’ingenuo e fresco protagonista di questo romanzo, alter ego dello stesso autore e della sua infanzia passata a Pointe Noire, nel Congo Brazzaville,  in seno ad una famiglia della piccola borghesia della città.
Anche Camara Leye, Leonora Miano, Ahmadou Kourouma avevano posto dei bambini al centro delle loro narrazioni, in situazioni però assai meno ‘normali’: qui è la vita di un bambino, alle prese con la scuola, i primi turbamenti di amori infantili, l’amicizia, il rapporto con i genitori e tutto il resto del parentado, ma anche  con la politica del suo paese e gli avvenimenti di tutto il mondo di cui sente parlare alla radio e da suo padre. Se mai i punti di contatto sono con un altro piccolo delizioso romanzo, Buongiorno compagni dell’angolano Ondjaki, anche lui alle prese con un’infanzia passata all’insegna del socialismo africano di stato.
Il giovane protagonista ha una madre, Pauline, piccola commerciante all’ingrosso di arachidi insieme alla moglie del sarto del quartiere, un padre adottivo, Roger, portiere e factotum in un albergo francese, una seconda madre, Martine, prima moglie del padre e ben sei fratellastri che lui adora. La sua vita è un po’ amareggiata dalla presenza dello  zio René, fratello della madre,ricco e comunista per opportunismo, ammanicato con il potere militare, di cui è un entusiasta sostenitore: l’odiato zio si picca di essere il suo mentore politico, l’iniziatore alle delizie ideologiche di Marx ed Engels e di Marien Ngouabi, padre della patria socialista. Certo il nipote, destinatario di una carità pelosa da parte del parente nababbo, avverte l’incongruenza delle parole e della vita dello zio, ma se la spiega a modo suo e intanto continua a recitare a scuola i discorsi del padre della patria assassinato, sì, ma “immortale”.
Certo, non è l’unico mistero con cui deve confrontarsi: gli altri gli vengono offerti dalla Voix d’Amerique, radio che il padre ascolta e commenta incessantemente, al posto di Radio Congo, buona solo a dare annunci mortuari anche dei più sperduti villaggi. Sono esilaranti le scene dei pranzi e delle cene in compagnia del giornalista Roger Guy Folly che dalla radio vomita, a tutto spiano, gli orrori della Cambogia, di Idi Amin  Dada e di Bokassa, gli scandali politici dei  diamanti di Giscard d’Estaing,  l’esilio dello scià di Persia e la sua malattia di cancro, la salita al potere di Khomeyni, la Palestina, Israele e Yasser Arafat: il padre si accalora per cercare di spiegare a moglie e figlio i perché e i percome delle notizie  ascoltate, dando a Michel dei suggerimenti su cosa pensare, che il bambino  completerà a modo suo. Per la prima volta assistiamo a come gli africani abbiano potuto apprendere ed elaborare alcune  informazioni di un universo che appariva distante anni luce, a come potevano apparire le notizie del centro viste e vissute dalla periferia del mondo. Ma lo spazio è occupato anche dalla cronaca nera del bandito Mesrine, dal nobel dato a Madre Teresa di Calcutta e dalla legge sull’aborto, passata in Francia. Qui si istalla un dramma familiare: Pauline non riesce a mettere al mondo altri figli, anzi quelli che ha dato alla luce prima di Michel sono due bambine vissute solo pochi momenti, già si vocifera che  il successo negli affari e la mancanza di altra prole siano una prova di stregoneria. Figuriamoci come venga accolta l’informazione di una legge per l’aborto! Il bambino dovrà confrontarsi con le tradizioni e le superstizioni, quando scopre che secondo gli ‘esperti’ feticisti è lui la causa della sterilità della madre…
Certo i rapporti d’amore appaiono assai misteriosi al bambino che cerca di comprenderli attraverso le conversazioni con Lounès, l’amico del cuore, un po’ più grande di lui, spiando i comportamenti del suo fratellastro maggiore, soprattutto facendo ‘le prove di matrimonio’ con Caroline, la sorellina di Lounès, assai più svelta di lui a schiudergli un mondo di sentimenti di cui ignorava l’esistenza. Ma sono anche le strade del quartiere di Trois-Cents a offrire spunti di riflessione: apprende che  le questioni di corna  vengono risolte a suon di pugni, con un duello che emula quello di Muhammad Ali e George Foreman , che proprio in Africa, a Kinshasa nel ’74, si erano battuti per il titolo mondiale. Il quartiere prende sempre le difese di colui che ha il ruolo di Cassius Clay, il buono.
Che pasticcio la vita! Unica consolazione per Michel  i muti colloqui con le due sorelline morte, poeticamente trasformate in stelle, con la foto del biondo Arthur Rimbaud, stampata sulla copertina di un libro che suo padre leggerà solo alla pensione, con la voce di uno strano cantante con capelli e mustacchi bianchi, Georges Brassens, che in una canzone si lamenta per un albero perduto, unica cassetta posseduta dalla famiglia, che in gran segreto è venuta in possesso di un registratore. Senza contare gli innumerevoli eroi da fumetto o del  cinema che lo soccorrono suggerendogli comportamenti, azioni o pensieri…
E’ il primo, tra i romanzi tradotti in italiano, in cui non sono protagonisti dei fuori di testa, degli ubriaconi, degli emarginati, come in African Psycho, Black Bazar, Verre cassé,  a parte la figura dello smemorato che aiuta Michel, frugando nei cassonetti della spazzatura,  a trovare la chiave per ‘aprire ‘ la pancia di mamma Pauline. Ed è il primo in cui le figure femminili assumono uno spessore che non avevano mai avuto. L’omaggio a sua madre, contenuto nel testo, gli ha imposto  evidentemente una riflessione sul ruolo delle donne .
 La scrittura è più distesa, anche se graffia sempre con ironia pungente: vi traspaiono le letture di allora che hanno informato il suo immaginario infantile: M.Pagnol e le sue avventure di Provenza, F.Dard e il suo San-Antonio, ma anche Le Petit Prince.
Ci sono  gustosi richiami interni a personaggi e situazioni di altre sue opere, come all’apprendista criminale di African Psycho o ai sapeurs di Black Bazar, ovviamente comprensibili solo a chi abbia letto gli altri suoi testi.
Veramente un’Africa vista e raccontata dagli africani, al di là del progetto Pilgrimage, promosso dal Chinua Achebe Center for African Writers and Artists, a cui Mabanckou ha aderito,  che ha spinto gli autori africani ad andarsene  in giro per il continente per osservare, descrivere, raccontare, dando spazio alla  gente comune che resiste, nonostante tutto.  Un passaggio da romanzi di lotta a romanzi di speranza, come alcuni critici hanno sottolineato.
 

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