Daniel Wedi Korbaria - Mother Eritrea - recensione a cura di Giulia De Martino

 

  Daniel Wedi Korbaria

  Mother Eritrea

 

 

   La vela, 2019

 

L’autore eritreo, in Italia dal 1995, dopo essersi sperimentato nel teatro e nella sceneggiatura, approda al suo primo romanzo, che, come dichiara nella prefazione, non è altro che una continuazione della sua attività di giornalista, sotto altra forma. Sua preoccupazione principale è dare una più corretta informazione sul suo paese, al di là dei luoghi comuni, dei sentito dire o peggio dei pregiudizi, spesso ripetuti dai giornalisti, in particolar modo italiani.

“Mother Eritrea” si svolge durante la trentennale guerra di liberazione, dal 1961 al 1991, con una ripresa dal 1998 al 2000, che ha visto contrapposte l’Etiopia, in veste di aggressore, e l’Eritrea, combattente per la sua liberazione, dapprima durante la monarchia di Hailé Selassié e poi nella dittatura di Menghistu Hailè Mariam, ma il racconto rivela anche ampi squarci storici del passato colonialismo italiano. In particolare c’è un richiamo alle leggi razziali, al madamato e alla riduzione di molte ragazzine allo stato di meri oggetti di piacere, un vero e proprio colonialismo sessuale.    La storia si ripete in seguito con gli stranieri occidentali, invitati a frotte dall’imperatore Hailé Selassié, assetato di investimenti economici. L’Eritrea si riempie ancora una volta di meticci, quasi mai riconosciuti dai padri: ragazzi che vivono con un vuoto incolmabile e un equivoco identitario che non sanno come sciogliere. Tutti sognano di poter andare, un giorno, nei paesi d’origine dei misteriosi padri che li hanno lasciati in balia della vita.

Il testo ha una struttura con un piano narrativo principale costituito da un volo aereo da Addis Abeba ad Asmara che vede protagonisti i due fratelli, Yonas e Samuel, detti familiarmente Yoni e Sami e da un piano costruito con flashback, da cui il lettore apprende, senza una sequenza temporale precisa, la vita dei due ragazzi e della loro madre Selam, con un finale a sorpresa.

I frequenti flashback ci fanno scorrere davanti agli occhi  l’infanzia e l’adolescenza di Yoni e Sami, e la vita della madre Selam: con la  famiglia, prima della sua fuga ad Asmara, a causa di un patrigno che alzava le mani su madre e figlia e nelle dolorose difficoltà affrontate poi, quando resta incinta per due volte di un occidentale che l’abbandona impaurito dalla guerra e dai bombardamenti.

Ma la loro non è l’unica storia presente: il trasferimento dal quartiere borghese Alfa Romeo a Tabba Gheltemtem ci introduce alla vita miserabile di questa periferia asmarina, svuotata dagli uomini, quasi tutti nella guerriglia e piena di donne e bambini. Donne che hanno dovuto fare la scelta di prostituirsi per sopravvivere e provvedere ai figli. In una monocamera, divisa in due da una tenda logora, i due bambini si abituano a sentire i rumori e i mormorii, i grugniti e le grida di coloro che ogni sera passano la notte nella loro casa e nel letto della mamma.

E non è  che la madre non pratichi altri lavori, ma tutti pagati pochi spiccioli che  non bastano a soddisfare la fame e le necessità dei due ragazzi. La vita dura non rende tenera questa madre nei confronti dei figli. Il suo amore viene espresso con punizioni corporali, nel tentativo di preservarli dal disonore e dalle tentazioni di rubare cibo e tante altre cose di cui sono privi. I suoi figli l’adorano perché sanno i sacrifici che lei fa per nutrirli, mandarli a scuola puliti, sia pure con vestiti lisi a forza di energici lavaggi, per garantire loro la migliore istruzione possibile, date le misere condizioni di vita. 

E’ il figlio più piccolo, accattivante, sorridente e un po’ ruffiano, a raccogliere i baci e le carezze materne che vengono lesinate all’altro, più scontroso e ribelle, ma molto protettivo verso il fratellino. Un pugno di casupole condivide lo stesso cortile dove le donne litigano accapigliandosi per un nonnulla, ma dove fanno pace, sorseggiando il caffè in interminabili riti e offrendosi l’un l’altra la solidarietà di fronte alle avversità che si presentano nelle loro vite.

Del resto, frustate, ceffoni e bacchettate sono presenti in tutti gli ordini di scuola frequentati dai due ragazzi, dall’asilo alla scuola superiore: non fa differenza se si tratti di arcigni professori di amarigna, l’odiata lingua dei dominatori etiopi, resa obbligatoria a scuola nel tentativo di stroncare l’uso di quella locale tigrigna oppure di preti e suore delle scuole italiane o dell’asilo della cattedrale cattolica. Ma per la fame non c’è punizione che tenga: questo è un ossessivo leitmotiv del romanzo. E’ una fame da medioevo con sogni di fantasiose scorpacciate di leccornie e pasti reali a base di scarti alimentari o cibi deteriorati: Yoni ruba nelle mense dei preti e dei collegiali e tutti e due fanno man bassa delle ricche merende dei ragazzi  più ricchi. E se ce le prendono, certo non si lamentano con la ruvida madre, sicuri che lei avrebbe dato loro il resto. I sonni di Yoni sono perturbati da diablos e streghe, dai dubbi sulla sua buona fede cristiana, ma come sente ripetere spesso dalla madre “la pancia viene prima della morale”.

A letto a volte senza cena, si spera nella colazione del mattino, sempre che si riesca a prendere un buon posto nella fila del pane o dell’acqua. Questa è Asmara, la piccola Roma di un tempo, al tempo delle guerre: penuria di derrate alimentari, di corrente elettrica, di acqua potabile e abbondanza di bombe, retate e perquisizioni dei torrserawit, i soldati etiopici, sempre con i kalascin spianati per offendere e uccidere.

Ma la resilienza degli asmarini è forte, nonostante tutto si prodigano come possono per i guerriglieri, molti dei quali sono loro famigliari. In aiuto vengono i film, come si sa fonte di sogni, illusioni e speranze. I coloni italiani avevano lasciato bei cinema che si riempivano di film western, di kungfu alla Bruce Lee e di melodrammi indiani, mantenendo nei cittadini più giovani, un embrione di giustizia, diritti e pace. Per chi non  poteva permettersi il costo di un biglietto bastava andare nel cortile di Selam: la vicina Adey Zimam, fan sfegatata di film, attori e musiche indiani, dopo aver visto il film il giovedì sera, provvedeva a raccontarlo e a mimarlo a donne, vecchi e bambini che l’ascoltavano a bocca aperta. Per questo Yoni è contentissimo quando la madre va a fare le pulizie nell’ex-cinema Impero (gli etiopi del Derg- il Comitato rivoluzionario subentrato alla monarchia- avevano cambiato tutti i nomi, ma gli abitanti continuavano a chiamarli con le vecchi denominazioni italiane) per poter accedere gratuitamente alla visione dei suoi film preferiti.

Selam preferisce rifugiarsi nella fede del suo santo preferito, Kuddus Michiel, l’arcangelo Michele, a cui dedica devozione costante e costosi pranzi ai preti copti nel giorno della festa del patrono. Tutto ciò nella speranza di essere salvata dalla dannazione eterna, a causa della sua vita di sciormuttà, particolarmente odiosa, dato che lei era figlia di un kescì, ossia di un prete copto.

Con molta disinvoltura religiosa Selam porta i figli a fare i chierichetti nella cattedrale cattolica: anche i figli sono ansiosi di riparare le colpe della madre, accedendo alla comunione e alla cresima, praticando la santa messa compunti, ma con la testa rivolta alla buonissima merenda che sarebbe seguita dopo…

Il ritmo di questa vita già molto complicata viene interrotto dalla convivenza della madre con un torrserawit, che pretende di far loro da padre e di insegnarli l’educazione a suon di busse e maltrattamenti. I ragazzi non comprendono le ragioni della mamma che non può non cedere al volere del soldato, sapendo quante donne sono state ammazzate per essersi sottratte e oltretutto lui sembra volerle un po’ di bene. Per l’adolescente Yoni inizia una guerra personale con l’Etiopia, con ribellioni aperte all’uomo della madre, con ascolti segreti delle radio  proibite dal regime che inneggiavano alla inevitabile sconfitta degli oppressori, prestando orecchio ai racconti di guerriglieri feriti (nascosti dalle donne del cortile) che prendono il posto delle storie dei film o dei libri.

I dissidi con lo pseudo-patrigno e l’impossibilità di proseguire la scuola ad Asmara, pressata dall’avvicinarsi del fronte eritreo, li porta ad Addis Abeba. Falsificano i lasciapassare, comprando i biglietti aerei con i soldi guadagnati con il lavoro di grafico e illustratore di cartoline di Yoni, procuratogli da suor Angela, una specie di angelo custode che veglia su questi ragazzi intelligenti e capaci. Un tenero amore viene lasciato con rammarico da Yoni ad Asmara, ma devono assolutamente alla madre il compimento dei loro studi.

Non parliamo del finale che rovescia le aspettative del lettore, forse in modo eccessivo, nel fargli anche conoscere finalmente l’identità del padre amato-odiato, ma una conclusione positiva era necessaria per dare un respiro e un luogo alla speranza nel futuro, dopo tante disavventure.

Alla presentazione in libreria di questo romanzo si è parlato di un certo sapore dickensiano ed è proprio vero: i due fratelli assomigliano ai poveri trovatelli sfortunati che riempiono le pagine del romanziere inglese. In loro alberga la stessa verve, la stessa volontà caparbia di cavarsela, un punto di vista infantile che giudica il mondo, partecipa delle sue miserie, ma se ne salva per quello sguardo innocente che vi pone. Il linguaggio usato è spesso crudo e violento come la vita che vive la città oppressa. A differenza di molti romanzi africani che hanno utilizzato lo sguardo dei bambini per narrare il passato coloniale o postcoloniale qui non c’è traccia di feroce sarcasmo o leggerezza ironica, ma un tono costantemente serio, stemperato dal candore divertente di alcune battute pronunciate dai bambini.

Si distingue anche l’amore che l’autore porta alla sua città, dal 2017 patrimonio Unesco per l’architettura modernista impressa dagli italiani e la buona conservazione, dovuta agli eritrei, nonostante i duri colpi della guerra. I ragazzini la percorrono durante i loro tragitti per raggiungere le scuole e l’autore indulge nel nominare locali e monumenti. C’è  anche una zumata dall’alto del campanile della cattedrale che la descrive benissimo, durante una visita dei sovietici, alleati di Menghistu, accompagnati da Yoni, che, scandalizzato dalla esiguità della mancia ricevuta, li bolla come poveracci...

Il romanzo si rivela molto interessante, disseminato di titoli di film e canzoni degli anni ‘70-’90 che ce lo rendono più vicino e di espressioni in tigrigna e amarigna, che via via che si legge diventano familiari. Dunque, non è solo l’argomento ma il modo di narrare che attira il lettore fino all’ultima pagina, con un andamento cinematografico serrato e incalzante.

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