La confessione della leonessa di Mia Couto (a cura di Rosella Clavari)

 

Leggendo quest'ultima opera di Mia Couto e memori dei suoi precedenti racconti e romanzi intrisi di poesia e visionarietà, vengono in mente le parole di Italo Calvino “si scrive per nascondere qualcosa che deve essere trovato”. Scrivere dunque serve a conoscere se stessi e gli altri, ma non uscendo allo scoperto tutto in una volta. La scrittura visionaria di Mia Couto in particolare è  collegata sia all'amore per la poesia ( la prima arte con cui si è fatto conoscere) che a una profonda etica ( questa, in comune con Calvino) inserita in una visione del mondo molto complessa; non potrebbe essere altrimenti dato che è nato e vissuto in Mozambico, terra africana dalle numerose guerre e contraddizioni. Per lui l'arte, la scrittura nel suo caso, può essere tanto importante quanto  la politica come strumento di denuncia sociale e di rinnovamento culturale.

 

Il romanzo in esame prende spunto da un reale fatto di cronaca: a Cabo Delgado, in Mozambico, dove vengono inviati  quindici giovani studiosi per attività di prospezione sismica, si verificano continui assalti ed uccisioni da parte di leoni e vengono per questo spediti nel luogo dei cacciatori; nonostante la loro presenza, i leoni riescono a farla franca ancora per un po' di tempo seminando il terrore e la morte. Sembra di assistere, oltre al fatto in sé, a una ribellione delle bestie contro gli uomini che nelle guerre diventano anch'essi bestie e nella vita quotidiana stanno degradando l'ambiente naturale interrompendo, tra l'altro, la catena alimentare con l'uccisione di piccoli animali di cui si nutrono i leoni stessi. Ma questo è solo lo spunto per lo svelamento graduale di un imbestiamento generale degli uomini di cui sono vittima in primo luogo le donne.

 

La vicenda è ambientata a Kulumani, sempre in Mozambico, e nel testo si alternano le voci di Mariamar, fanciulla nera, e del cacciatore Arcanjo, alto e mulatto ( contrapposto allo scrittore Gustavo, basso e bianco che lo accompagna nei suoi spostamenti); ma c'è un'altra protagonista che accompagna tutti e tre: la scrittura, quasi un'ossessione esistenziale. Scrive Mariamar nel suo diario che sigilla l'inizio e la fine del romanzo, scrive il cacciatore nel suo diario in cui riporta anche brani rubati allo scrittore, scrive sotto dettatura del marito geloso la madre del cacciatore.... Per Mariamar, creatura morta alla nascita, rinata nei quattro elementi e uccisa di nuovo fino a divenire muta, per la violenza fisica e psicologica subita, “quel quaderno è l'unico vestito che ha” e la scrittura è la sua maschera, il suo amuleto, la sua medicina, come lei stessa dice.  Lo scrittore Gustavo, alter ego di Mia Couto, afferma per parte sua: “scrivere non è come cacciare... scrivere è una pericolosa vanità... fa paura agli altri”

 

Il canto e controcanto di Mariamar e del cacciatore Arcanjo possono essere facilmente letti come la voce dell'Africa umiliata e del potere che porta a uccidere ma anche a essere posseduti dal male; la fattucchiera Apia dirà al cacciatore “ non sei tu che premi il grilletto. Il colpo dipende dalla volontà di un altro che in quel momento occupa il tuo essere”.

Altri personaggi in lotta o in connivenza col male, si affacciano intorno ai primi due: il nonno di Mariamar, Adjiru, dal mondo dei morti, presente in quello dei vivi come protettore della nipote; il capovillaggio Florindo e la sua first lady Naftalinda; Hanifa, la madre di Mariamar che ha già perso tre figlie, uccise dai leoni, e il marito, il violento Genito Mpepe, guida forestale.

Il “doppio” si propone a partire dallo scrittore e il cacciatore, inoltre nei due accomunati dalla pazzia, Mariamar e Roland, fratello folle ( o che si è finto tale) del cacciatore, nelle due sorelle Silencia e Mariamar entrambe attratte dal cacciatore Arcanjo. Una struttura che ricalca i moduli dell'oralità africana, in cui si avvicendano magia e realtà, gemellaggi, scambi di ruoli e metamorfosi fino a quella finale che prelude alla “confessione” del titolo.

Il tutto va a comporre un quadro allegorico del potere in quella parte vuota e abbandonata di Kulumani dove i soprusi subiti dai suoi abitanti non sono inferiori alle colpe commesse tra di loro nelle invidie e nei rancori. “Non abbiamo bisogno di nemici. Bastiamo ampiamente a noi stessi per sconfiggerci”, frase dietro cui  aleggia lo spettro della guerra civile e anche quello del razzismo interno, come leggiamo a proposito di Henrique, padre di Arcanjo “ è un negro che sposa una mulatta e così viene emarginato dai negri ed escluso da mulatti e bianchi”.

 

 Apprendiamo nel contesto del racconto del cacciatore che i leoni sono di vari tipi: il leone della foresta, il leone fabbricato dagli stregoni e gli uomini-leone. Ma è la leonessa, non il leone che semina il terrore, allusione alla vendetta della parte femminile. Le principali vittime della violenza in Africa sono proprio le donne e Mia Cotuo denuncia tutto ciò: sono violenze di strada ma spesso domestiche, sono colpite oltre alle donne, gli anziani, gli omosessuali, i malati di mente così come i morti le cui bare vengono profanate per rubarvi gli oggetti. Quel tipo di morte misteriosa, difficile da arginare, che viene dai leoni, è presente continuamente nella vita degli emarginati, di coloro che non hanno alcun potere.

 

 Ciò che l'autore rimprovera alla sua gente è la cultura dell'accettazione, della passività, dell'assenza di sdegno che favorisce la tirannia. In Mozambico, dopo la data importante dell' indipendenza nel 1974, un'altra è quella del 1992 con la fine della guerra civile che ha fatto più di un milione di morti.  Oggi che dovrebbe regnare la pace, in realtà molti fenomeni sociali sono diventati invisibili in Mozambico e tra questi le violenze verso i più deboli: le donne, i bambini, i vecchi, i poveri.

 

 Il romanzo, nella sua forma, rivela un' ulteriore maturazione dell'autore che nei precedenti lavori ha privilegiato l'innovazione stilistica e verbale; qui, grazie anche alla pregevole traduzione di Vincenzo Barca, possiamo gustare come trasponga con grande stile l'oralità nella scrittura, fondendo la forma poetica con quella di un possibile, alternato, monologo teatrale delle due voci narranti. Ognuno ha il suo punto di vista ( il pregiudizio è sottolineato dal fatto che si parli della  “versione di Mariamar” e del “diario del cacciatore” dato certo e non opinabile) e la verità trapela tra magia e realtà.

 

Ancora una volta Mia Couto, immerso nella sua africanità, dà prova del suo impegno letterario e civile (che gli è stato riconosciuto recentemente nel Premio Camoes, secondo autore nel Mozambico dopo Josè Craveirnha , nel 1991, a ricevere questo prezioso attestato di stima).

Come constata Mariamar a proposito della sua famiglia : “tutto il nostro presente era fatto di passato”, anche lui non può prescindere dalla storia del suo paese e da un modo tutto africano di interpretare e narrare la realtà.

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