Lorenzo Angeloni, In Darfur (a cura di Giulia De Martino)

 

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Lorenzo Angeloni, In Darfur

Campanotto Narrativa Editore, 2010

Diciamo subito che si tratta di un testo con due caratteristiche anomale: la prima è che non troverete questo libro in libreria ma solo in vendita on-line, la seconda è che i proventi della vendita sono interamente devoluti al centro cardochirurgico di Emergency a Khartoum. A cui ne vorremmo aggiungere un’altra: l’autore ha tratto il materiale dalla sua attività di ambasciatore in Sudan da 2003 al 2007 e non ha scritto un saggio sulla problematica del Darfur, ma un romanzo.
Nella postfazione Angeloni riporta una conversazione con Gianrico Carofiglio, l’ex magistrato attualmente scrittore di noir: “Se si è capito qualcosa e lo si ha chiaro e strutturato, si scrive un saggio; se si vuole manifestare qualcosa che racchiude il mistero dell’esistenza si scrive un romanzo”
Tutto ciò va detto per chiarire le aspettative di lettura: da un lato il romanzo ci dà una mole di informazioni sul Sudan e la sua attuale classe dirigente, sulla guerra nord-sud, su quella nel Darfur, sui funzionari e alti responsabili delle Nazioni Unite, sugli operatori umanitari, sull’atteggiamento dei governi occidentali e sulla Cina (e di ciò il lettore deve esser grato); dall’altra ci rivela una quantità di dubbi, ci lascia con una serie di domande sui destini di una umanità che non riesce a sconfiggere le guerre e anche con delle possibilità di risposte che bussano alla coscienza di ciascuno di noi. Il tutto traspare dalle azioni, dalle parole, dai sentimenti dei personaggi, evitando le analisi astratte e asettiche dell’esperto. Protagonista è Giorgio Respighi, esperto italiano di peacekeeping presso l’ONU e trasferitosi per questo da Bologna a New York insieme alla moglie, brillante architetto e ai due figli piccoli.
La storia ci presenta Giorgio mentre passa dal lavoro “comodo” del palazzo di vetro al “field” in Sudan dove incontra persone che, in qualche modo, insieme alle situazioni in cui si trova coinvolto in Darfur lo spingono verso un percorso di comprensione non solo politica del territorio, ma anche di trasformazione personale.
Il Sudan non è più per lui solo un problema da risolvere, ma i mille volti che ha incontrato nei campi, contratti ancora dal terrore delle esperienze subite, i sorrisi dei bambini innocenti, nonostante tutto, la fatica segnata nelle espressioni degli operatori che corrono da un campo all’altro, tamponando situazioni drammatiche di fronte ad un mondo distratto e indifferente. C’è una citazione interessante premessa alla parte prima del testo: “pensare bene significa percepire la realtà in modi multidimensionali. Questo è l’esercizio del pensiero integro, presupposto dell’agire con integrità” (M.Scott Peck).
E’ uno spiraglio per comprendere la sua voglia di capire che lo porta a conoscere sul campo i guerriglieri del movimento, i leader politici delle diverse fazioni, anche quelli che vivono in Europa, le reazioni della gente nei campi profughi nei confronti delle azioni della guerriglia, ma anche i comandanti janjaweed e i capi tradizionali dei tribali arabi, scoprendo che non sono la stessa cosa, come sbrigativamente presentano le analisi dei politici e dei media occidentali. Cerca di penetrare nelle ragioni degli uni e degli altri, degli arabi, dei Zagawa, dei Fur, dei Masalit, perfino in quelle di un governo ambiguo, spesso costretto a certe scelte economiche penalizzanti le popolazioni più emarginate del Darfur per compiacere gli aggiustamenti strutturali draconiani richiesti dal Fondo Monetario Internazionale che impongono cancellazioni di spese pubbliche sulla sanità e istruzione.
Giorgio Respighi sta attento a non sposare un’unica tesi che spieghi la crisi del Darfur e indaga sul petrolio e gli interessi della Cina, ma anche sulla crisi ambientale: negli anni ’80 il mondo aveva acceso i riflettori sul Sahel per la terribile siccità e carestia, ma in seguito, la desertificazione non aveva interessato più nessuno e le popolazioni si sono concentrate nelle zone più ricche di acque e fertili, creando a catena conflitti a non finire tra i diversi gruppi africani e arabi e tra africani stessi. Individua le responsabilità dei capi della guerriglia, allontanatisi dagli intenti di giustizia sociale iniziali, nell’aver politicizzato e armato i campi profughi, a volte per puri giochi di potere personale, moltiplicando la violenza e i rischi per la popolazione civile; sottolinea l’ambiguità d’azione dell’Organizzazione Unità Africana, stretta tra le richieste dell’ONU e gli interessi del Ciad e della Libia che pure hanno portato armi; se la prende con la lentezza e l’inerzia delle Nazioni Unite che spesso scelgono soluzioni di facciata che risolvono in apparenza o in superficie, autocondannandosi a non capire e non a intervenire veramente nel favorire il processo di pace.
Cosa succede nella vita del protagonista? Rischia di persona, viene ferito, si infila in situazioni non “ufficiali”, servendosi di personaggi dell’underground, il sottobosco che prolifera in certi ambienti di Khartoum che tengono le fila dei contatti con tutte le parti, anche le più pericolose.
Suoi “aiutanti”, l’uno, Isaac, che gli fa da autista a Khartum, sfuggito anche lui agli attacchi delle milizie nei villaggi che non vuole dimenticare ciò che è successo: “…..rivoglio la mia terra, rivoglio il mio villaggio. Lì è sotterrato il mio ombelico, e lì un giorno tornerò a vivere”; Giorgio capirà che molti non torneranno, perché non sapranno dove tornare e che non vengono date compensazioni a chi ha perso tutto, neanche qualche capra e soprattutto, abituati alle bidonville e ai campi intorno alle città, non vorranno più fare i contadini o i pastori. Un intero tessuto sociale tradizionale compromesso per sempre. Spesso Giorgio, alla fine di alcuni capitoli, colloquia mentalmente con lui.
L’altro, Mustafà Sabun, uno zagawa che lo guida nei viaggi fuori Khartum, sparirà durante un attacco dei janjaweed e salvarlo sarà per lui il simbolo delle cose concrete  che si possono fare per le persone in Sudan, se si supera una visione puramente di cifre statistiche e “neutrali” nell’affrontare le crisi politiche e umanitarie del mondo.
Se le persone hanno il viso tondo e mite di Sabun o il volto splendido e misterioso di Heyam, la funzionaria governativa sudanese che lo aiuterà nel suo intento di voler parlare con tutte le parti in causa, a costo della propria carriera e di cui si è forse innamorato, vale la pena di mettere in gioco tutto, il proprio modo di concepire il lavoro, la coppia (il protagonista mette in crisi il rapporto con sua moglie), la guerra e la pace.
Dopo un periodo a New York, Respighi tornerà in Sudan che ormai gli ha preso l’anima, operando una scelta radicale; così cita il suo ultimo rapporto di funzionario delle Nazioni Unite: “ i tre anni trascorsi da quando ho cominciato di occuparmi di Darfur mi hanno condotto ad un punto di non ritorno. Le Nazioni Unite sono fatte da tantissime persone straordinarie che si impegnano giorno dopo giorno per il mantenimento della pace nel mondo, la mia lesson learned è questa. La mia strada mi conduce altrove ed è giusto per me prenderne atto e agire di conseguenza.”
Partire dalle persone è un compito infinitamente più modesto di quelli che Respighi si era prefisso in passato, ma l’unico forse con cui uscire dall’impotenza in cui ti gettano le grandi crisi internazionali irrisolte: per fare questo non servono statuti o regole d’ingaggio che spesso diventano pastoie o alibi per non agire. Serve conservare la propria umanità e voler scoprire davvero quella degli altri.
 


 

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