Yasmina Khadra, L'attentato (a cura di Giulia De Martino)

Yasmina Khadra, L’attentato

Sellerio editore Palermo, 2016

Traduzione di Marco Bellini

Chiariamo innanzitutto che si tratta di una riedizione, con la stessa traduzione, del testo pubblicato da Mondadori nel 2007 con il titolo di L’attentatrice: quello di Sellerio riporta il titolo originario dell’autore, uscito in Francia nel 2005. In effetti lo scrittore aveva esposto le proprie rimostranze, individuando nel cambiamento di titolo una sorta di furbizia editoriale che spostava l’attenzione dal fatto che nel testo si tratta di due attentati, uno della giovane kamikaze palestinese,in un ristorante affollato nel centro di Tel Aviv, l’altro del drone israeliano sulla moschea, colma di fedeli, dove sta predicando un imam famoso per le sue posizioni radicali.La precisazione si è resa necessaria perché altrimenti ne risulterebbe compromessa la comprensione del senso generale del romanzo: l’autore non si schiera con i terroristi ma non può approvare neanche le decisioni e i comportamenti spietati degli israeliani. Yasmina Khadra compiendo un piccolo miracolo, si sottrae al manicheismo implicito in una narrazione del genere, i buoni tutti da un lato, i cattivi dall’altra e tenta di darci uno scorcio del conflitto israeliano-palestinese, incarnato in alcuni personaggi emblematici, generalmente privo di retorica, cercando di penetrare nelle ragioni e nella mente di coloro che scelgono il martirio, secondo il suo stile appassionato e, a tratti, sovrabbondante di aggettivazioni e particolari.

Seguendo un metodo, già attuato in altri romanzi, la questione storico-politica non viene affrontata di petto o in modo esclusivamente ideologico, ma si insinua in una storia tutta individuale e privata di un giovane chirurgo palestinese, Amin Jaafari, brillante medico in carriera in un noto ospedale di Tel Aviv, sposato con Sihem, una donna bella e intelligente, ammirata da tutti i suoi colleghi e amici. Una tranquilla vita borghese, bella casa in un quartiere residenziale, buona macchina, vacanze all’estero, cosa si potrebbe desiderare di più per un giovane povero di origine beduina, originario di Jenin?Certo per centrare i suoi obiettivi di riscatto ha dovuto voltare le spalle a tutta la sua gente, per frequentare i piani alti della buona società israeliana, apertasi per lui dopo la naturalizzazione della cittadinanza, ha dovuto allontanare da sé la miseria e la sofferenza, ha fatto di tutto per far dimenticare di essere un arabo e di essere confuso con i terroristi. L’alto prezzo pagato Amin lo scoprirà il giorno in cui, dopo aver passato tutta la giornata in ospedale ad operare i feriti di un ennesimo attentato , durante la notte viene svegliato dalla polizia con la notizia che non solo sua moglie è morta, ma risulta essere l’attentatrice kamikaze, responsabile di decine di morti, tra cui anche ragazzi che festeggiavano un compleanno.

Il mondo gli crolla addosso, ma a poco a poco, convinto com’è che la sua adorata Sihem si trovasse in visita dalla nonna e comunque   avesse un profilo lontano anni-luce da quello di una militante attivista, in odore di martirio. All’inizio arrestato come possibile complice, in seguito rilasciato come totalmente estraneo ai fatti, il giovane inizia un percorso tormentato di domande a se stesso: se è vero che sua  moglie si è votata al martirio, come è stato possibile per lui non accorgersi di nulla, come mai non ha saputo accorgersi dei segnali che lei deve avergli mandato, come ha fatto ad essere così sordo e cieco e, soprattutto chi era la donna con cui ha convissuto per anni, convinto di essere amato nello stesso modo in cui lui l’amava? Mette  a soqquadro la casa per cercare indizi, lettere, foto, una cosa qualsiasi che gli spieghi il perché: trova un breve ma eloquente messaggio che la moglie gli ha indirizzato. Dunque, è proprio vero...Ma non gli basta, vuole sapere come è avvenuto il passaggio da mogliettina adorabile a kamikaze.

Non ascolta i consigli di due buoni amici israeliani, una sua collega e un poliziotto,di evitare di andarsi a cacciare in guai più grossi di lui, dai quali non potrebbero proteggerlo, e si lancia in una specie di viaggio iniziatico che lo condurrà, attraverso Gerusalemme, Betlemme, Nazareth all’inferno di Jenin, nel momento delle distruzioni di massa operate dagli israeliani nel 2002, soprattutto nel campo profughi palestinese, alla ricerca di coloro che, ai suoi occhi, devono aver cambiato la testa di Sihem.Alcune descrizioni richiamano le sconvolgenti immagini del bel documentario del palestinese israeliano Mohammad Bakri "Jenin Jenin".

Amin arriva, per qualche momento, persino ad illudersi che un ipotetico adulterio con il cugino Adel possa averla, per amore, convinta dalla parte dei miliziani palestinesi. E per alcune pagine del romanzo lo seguiamo, marito cornuto e umiliato, alla ricerca della verità.

Gli incontri, inseguiti con determinazione,  con i militanti e le loro associazioni politico-militari, con l’imam-guru Marwan, il ritorno presso la sua gente, la visione desolata delle distruzioni effettuate delle case dei civili, parenti di militanti,incarcerati o uccisi gli aprono gli occhi: sua moglie non è stata plagiata da nessuno, da sempre ha continuato a condividere sogni e speranze del popolo palestinese, rifiutando interiormente la torre d’avorio, in cui lui aveva cercato di rinchiuderla,fatta di briciole di benessere e stima da parte degli israeliani, frutto illusorio di una riconciliazione impossibile a un livello esclusivamente privato. Dapprima Sihem aveva partecipato con raccolte di fondi,seguendo la cellula clandestina a cui si era iscritta; poi l’ostinazione di Israele a negare loro un futuro sotto ogni forma, attraverso non solo i raid e l’attività poliziesco-militare, ma le umiliazioni continuamente inferte alla dignità del suo popolo l’avevano spinta al gesto supremo del martirio. Del resto lui stesso sperimenta la fragilità della sua situazione: dal momento che viene reso noto che sua moglie si è fatta esplodere, anche se lui non c’entra niente, sale l’odio di colleghi e vicini fino ad essere aggredito nel suo giardino, spazzando in un sol colpo tutta la sua invidiabile posizione sociale: resta pur sempre un arabo che all’improvviso ti punta un’arma addosso e ti ammazza, sasso, coltello, o bomba che sia.

C’è un colloquio illuminante, duro, lucido e pacato, con un senso di ineluttabilità profonda, tra Amin e un comandante dei miliziani: “Ho voluto che capissi perché abbiamo preso le armi, dottor Jaafari, perché dei bambini si gettano sui carri armati quasi fossero bomboniere, perché i nostri cimiteri traboccano, perché voglio morire con le armi in pugno...perché sua moglie è andata a farsi esplodere dentro un ristorante. Non c’è cataclisma peggiore dell’umiliazione. E’ una disgrazia incommensurabile. Ti toglie la voglia di vivere. Finché non hai reso l’anima a Dio, hai una sola idea per la testa: come morire degnamente dopo aver vissuto disperato, cieco e nudo?[…] Tutti i ragazzi che hai visto, alcuni con le fionde, altri con i bazooka, detestano la guerra più di chiunque altro...Anche loro vorrebbero godere di uno status onorevole, diventare chirurghi, star della canzone, attori del cinema, correre in fuoriserie e toccare il cielo con un dito tutte le sere. Il problema è che impediscono loro di sognare, dottore. Cercano di rinchiuderli in ghetti finché vi si annullano. Per questo preferiscono morire. Quando i sogni sono conculcati, la morte diventa l’ultima salvezza[...]L’istante in cui si prende coscienza della propria impotenza è quello in cui si prende coscienza della vulnerabilità degli altri”. Anche il suo amico poliziotto israeliano si era espresso con parole simili.

Questo aiuta a capire ma non a condividere, conclude in cuor suo il dottor Jaafari, che resta dalla parte della vita e non riesce ad entrare nella mitologia della morte bella e salvifica, ricompensa per una esistenza deprivata sotto ogni profilo. Del resto è per questo che aveva intrapreso il lavoro di chirurgo, per aiutare a vivere e non a morire. Il mistero resta, perciò, su ciò che veramente avviene nella testa di coloro che decidono di martirizzarsi con l’atto dinamitardo,la storia è appunto narrata dal punto di vista di chi non vuole cedere a questa visione.

Per il lettore che non avesse ancora colto la responsabilità degli israeliani e  dei palestinesi stessi nel determinare queste scelte,attraverso i discorsi dei diversi personaggi, ecco che l’autore riserva l’ultima sorpresa: fa morire il protagonista in un raid di droni che cercano da anni di ammazzare l’imam Marwan, bombardando la moschea affollata di gente e coinvolgendo, nell'assalto, il quartiere intorno. E’ un eterno ciclo:di fronte all'atto nuovi kamikaze sorgeranno, nuovi ragazzi imbracceranno le armi, nuove umiliazioni subirà la popolazione civile e nuove ritorsioni opererà l'esercito israeliano.Un incubo senza fine.

Il romanzo termina con la ripetizione delle prime pagine: un uomo colpito e moribondo, Amin stesso, ha la visione di un bambino  che corre felice nelle terre degli avi e al suo passaggio si raddrizzano i muri delle case abbattute, facendo crollare l’unico  Muro che deve essere cancellato.

Forse un eccesso narrativo la morte del protagonista, cui delle volte indulge il nostro scrittore, che non aggiunge molto di più a quanto già affermato e mostrato: ma la lettura resta emozionante( lo si legge tutto d'un fiato) e, come al solito, molto più convincente di qualsiasi saggio storico-politico.

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