Youssef Ziedan - Nel castello di Fardaqan - a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 Youssef Ziedan

 Nel castello di Fardaqan

 Neri Pozza, 2020

 traduzione di Daniele Mascitelli

 

Grazie alle edizioni Neri Pozza, che ha già tradotto e pubblicato 4 testi dell’autore, a partire dal primo “Azazel” del 2010 ( di alcuni troverete recensioni qui nel nostro sito), ci troviamo di fronte ad un altro romanzo storico con  la vicenda dei quattro mesi passati come prigioniero nella fortezza di Fardaqan, nell’attuale Iran, dal celebre medico, scienziato e filosofo Avicenna.

In realtà, attraverso numerosi flashback non cronologici, molta della vita di Avicenna (sec.X-XI) scorre sotto i nostri occhi, attraverso le rievocazioni ora del medico stesso ora di amici, collaboratori e sostenitori. In questo modo, non banalmente cronachistico e pedissequo, il lettore viene messo a conoscenza degli aspetti più salienti della sua esistenza, dell’ambientazione storica in cui poterli inquadrare, dei personaggi reali da lui frequentati. Ma lo scrittore, come ha fatto negli altri libri, lascia ampio spazio a ricostruzioni di fantasia, soprattutto nelle vicende amorose di Avicenna.

Quello che noi continuiamo a chiamare Avicenna era noto in realtà con il nome arabo di Ibn Sina, ovvero Ali al-Husayn ibn Abd Allah ibn Sina, ma tutto il mondo occidentale, il nostro Dante compreso, ne latinizzò il nome  in Avicenna, onorandolo fino alla fine del XVII secolo come il padre della medicina, oltre che intellettuale, poeta e studioso di diverse scienze. Sebbene di origine, lingua e cultura persiana (secondo alcuni l’origine fu uzbeka) scrisse la maggior parte dei suoi trattati  in arabo, anche se si annoverano  alcuni testi in persiano: l’arabo, nella parte asiatica, ormai si era sostituito al greco come lingua della cultura.

Furono i grandi centri di traduzione dall’arabo, presenti a Toledo, Montecassino, Salerno, tra l’XI e il XII sec. a consegnare all’occidente i testi della filosofia greca, della cultura persiana e medicina indiana, su impulso soprattutto degli Abassidi di Baghdad e confluiti poi in quel grande esperimento culturale che fu la Spagna arabo-andalusa.

Proprio Dante è l’esempio lampante della fama indiscussa di filosofi come Avicenna e Averroé presso la cultura occidentale medievale: infatti il poeta li pone, nella Divina Commedia, insieme al Saladino, nel Limbo, in qualità di grandi intellettuali, in compagnia di scrittori e filosofi dell’antico mondo greco-latino. Non è ovviamente, e non poteva essere, un omaggio all’Islam, tant’è che nell’Inferno dei traditori ci finisce il profeta Maometto; costituisce però una testimonianza del riconoscimento del ruolo culturale svolto dalla cultura araba nel trasmettere una gran parte della sapienza antica, su cui cominceranno, più tardi, a nascere una scienza e un pensiero filosofico moderni.

C’è un illustre precedente come romanzo storico dedicato allo sheikh Reyes, il Principe dei medici, come veniva denominato Avicenna: il testo scritto dal franco-egiziano Gilbert Sinoué “La via per Isfahan”, edito sempre da Neri Pozza nel 2001, in cui si sottolinea di più la vita avventurosa e nomade di Avicenna, ricca di eventi e colpi di scena.

Ma l’angolazione scelta da Ziedan, i mesi della dorata prigionia di Avicenna, fatto  incarcerare dal principe Sama’ al-Daula e dal suo ministro Taj al-Mulk, acerrimo nemico del grande medico,  con le modalità ambigue di prigioniero di lusso da tenere, però, d’occhio, tiene il lettore sospeso sulla sorte del protagonista. E’ proprio da questo stato di sospensione che prende avvio la storia.

Essere incarcerato in un luogo desertico, ai confini degli abitati umani, battuto da un vento freddo costante, arrivare in catene in una fortezza che riunisce le finalità sia di avamposto militare che di reclusorio per spie e traditori, raggela in un primo tempo Avicenna. Ma si rende conto ben presto che sarà trattato con ogni riguardo, avrà un suo appartamentino, del buon vitto . E’ una delle parti più belle del testo la descrizione degli ambienti del castello-fortezza, che richiama un po’, in qualche modo, quello del “Deserto dei tartari”di Buzzati. Simpatiche e azzeccate le rappresentazioni di squarci di vita che vi conducono militari, schiavi e padroni, il viavai con il Signore del Contado e la gente provinciale che vi abita, le eterne preoccupazioni per un freddo che non cessa mai.

Una sola cosa gli chiede il comandante di Fardaqan, Mansur al-Muzdawaj quando molti dei suoi 150 uomini sono malati e privi della possibilità di essere visitati da un medico: se il grande medico si occuperà di loro, avrà in cambio carta e inchiostro per continuare a scrivere le sue opere. Ricordiamo che in molte delle città asiatiche, di cui si parla nel testo, c’erano ospedali pubblici e la cura della salute era tenuta in grande considerazione.

Sul perché sia stato imprigionato si apre una voragine per il lettore occidentale, o almeno quello italiano. Il lettore deve, infatti,  impossessarsi di pazienza per seguire le intricate vicende di quella parte dell’Asia, dominata un tempo dai persiani, conquistata dagli arabi e oggetto di cupidigia da parte dei rampanti turchi selgiuchidi. Tenere a mente tutti quei nomi di luoghi e di principi... non ci provate nemmeno…

Il povero Avicenna dovette combattere tutta la sua vita con queste corti litigiose e guerrafondaie e dividere il suo tempo per barcamenarsi tra i suoi interessi culturali e scientifici e la necessità di sopravvivere, a partire dalla morte del padre, accettando i più svariati incarichi che gli venivano offerti, da medico di corte a ministro, da consigliere astronomo a esperto di legge e infine, nell’ultimo periodo della sua vita ad Hamadhan, insegnante teorico e pratico di medicina. Non manca neanche l’obbligo di accompagnare l’emiro di turno in qualche spedizione militare, magari per avere un medico a portata di mano...non si sa mai.

E’ vero peraltro che queste corti, tra una guerra e l’altra, tennero in grande considerazione la cultura e le scienze, promuovendo iniziative e intellettuali di valore, circondandosi di architetture grandiose e immense biblioteche. Il fatto stesso che Avicenna sia stato aiutato anche da mecenati privati fa capire come la diffusione della cultura costituisse un fenomeno rilevante sia tra i sunniti che tra gli sciiti.

Molte delle notizie sulla sua vita e sulle sue opere provengono dal suo discepolo e diletto amico  Djuzdjani, che curò l’autobiografia  del filosofo e ne completò  la  biografia, dopo la sua morte nel 1037: su questi testi si basa l’opera di Ziedan.

La carica dell’autore come direttore del centro manoscritti e del museo della biblioteca di Alessandria lo porta, pensiamo,  a parlare, per molte pagine, dei libri di Avicenna, spiegandone il contenuto e le circostanze in cui furono scritti, anche a scapito della trama, che è pur sempre il motivo per cui si legge un romanzo sia pure storico.

Se ne allontana però quando pone il protagonista in ambasce d’amore: tre donne vengono delineate, la mite e leggiadra schiava Rawan, la bella e colta Mahtab, la torbida e perturbante Sundus. Dell’ultima apprendiamo la storia quasi sul finale del libro, anche se si tratta della donna matura che iniziò al sesso un Ibn Sina sedicenne, procurandogli delle turbe psichiche che lo tormenteranno per molto tempo.

Avicenna visse un personale dissidio tra sesso e castità, considerando quest’ultima come l’unico stato possibile per chi voglia dedicarsi alla speculazione teorica e alla conquista di mistiche contemplazioni. Anche avere moglie e figli può costituire, secondo le sue parole, pericolo per la libertà delle sue attività intellettuali.

Mahtab ( che studia per poter operare come ostetrica e ginecologa) è un omaggio alla forza e alla determinazione femminile ad uscire dalle nebbie dell’ignoranza per avere la stessa considerazione degli uomini negli studi medico-scientifici.

Certo le descrizioni dell’autore circa le attività erotiche di Avicenna sono quanto mai vaghe e poetiche: vi si trovano paragoni con aurore e tramonti, calori estivi e zefiri primaverili, cavalli tumultuosi, cieli stellati e immense profondità spaziali…

Più realistiche le scene delle bevute conviviali che seguono le lezioni  e le discussioni con discepoli e colleghi; interessanti anche i momenti in cui lui pensa ispirato e detta a qualcuno il suo ragionamento, controllandone la scrittura e gli eventuali errori.

In conclusione esce fuori un ritratto di un intellettuale religioso, ma non bigotto, libero anche di dissentire la tradizione del pensiero islamico, cercando sempre una sintesi tra la metafisica di origine aristotelica, ancora ammantata di platonismo e l’islam. Interessato non solo alla speculazione teorica ma anche alle applicazioni pratiche, soprattutto nel campo dell’astronomia e della medicina: unisce alle idee un metodo sperimentale che gli permette anche di tornare sulle conclusioni precedenti, sapendo che la scienza procede per errori e osservazioni continue. Anticipa Galileo di qualche secolo...

A chi ama i romanzi storici questo darà ampia soddisfazione, anche perché riguarda un personaggio, un’ambientazione geo-politica e un’epoca su cui sappiamo poco.

 

 

 

 

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