Comunicare l'Africa- a cura di Alessandro Suzzi Valli- recensione di Rosella Clavari e Giulia De Martino

 

 

 

 

 

  Comunicare l'Africa

  Un'ermenutica attuale delle lingue e dei linguaggi della comunicazione sociale

  a cura di Alessandro Suzzi Valli

  Aracne ed., 2018

 

Il saggio in esame, importante contributo alla comprensione della cultura africana, comprende sette  sezioni di ricerca, con uno scavo agli albori della comunicazione prescritturale, ma diciamo in premessa che, della prima parte, intessuta di terminologie per addetti ai lavori da cui ci teniamo rispettosamente a distanza, possiamo offrire una breve sintesi, evidenziando invece, nella seconda parte del saggio, quegli aspetti che già conosciamo della comunicazione attraverso la letteratura, la musica, la radio. Ci sono molti spunti di riflessione che speriamo vi possano invogliare a saperne di più.

Un aspetto interessante di questo lavoro comprende nel suo allestimento, la collaborazione di studiosi africani e internazionali. Il criterio usato dal curatore, come sottolinea Cristiana Freni nella prefazione, è una volontà di ricompattazione della materia in ambito ermeneutico, cioè dell'interpretazione che passa per “intelligere” e poi comunicare.

Martin Nkafu Nkemnkia, professore di filosofia all'Università Lateranense, sottolinea nell'introduzione che conoscere una cultura passa sempre attraverso lo studio della sua lingua, della sua letteratura ed espressione artistica. Nota inoltre che ci sono delle dinamiche conflittuali tra Europa, e NordAmerica di fronte all' Africa; sottolinea in particolare, un'errata concezione dell' Occidente nel considerare l'Africa come una sola entità compatta, anziché un continente dalle realtà multiformi, per cui sarebbe opportuno concentrarsi volta per volta su un solo aspetto, o cultura o nazione. E se si parla di integrazione bisognerebbe capire che paradossalmente capovolgere il verso dell'integrazione dallo stile europeo- nordamericano verso lo stile e la cultura africana sarebbe un utile tentativo per rientrare nei canoni della propria sana umanità.

Soffermandosi sull'aspetto dell'oralità, giustamente Martin Nkafu definendo l'oralità madre dello scritto, aggiunge: “una parola scolpita nel marmo non equivale alla parola scolpita nell'animo”, una parola detta,  vive di vita propria e si tramanda attraverso la vita stessa delle generazioni.

Nel I capitolo del testo si parla degli albori della comunicazione e vediamo l'Egitto considerato come parte integrante dell'Africa, anziché come mondo a sé stante. Francesco Raffaele, egittologo, parla dell'Egitto arcaico e delle prime forme di comunicazione scritturale. Quasi tutte le grandi civiltà umane hanno sviluppato una forma di scrittura; 4000 anni fa  l'Egitto del periodo predinastico e della prima dinastia presenta delle prescritture che sono delle forme mnemoniche di registrazione contabile, di computo. Un uso della scrittura associato alla società complessa. La prescrittura in oggetto ha un nesso anche con la sfera mitologica e cultuale. Bisogna dire che prevale una linea di pensiero a favore dell'origine ideologico-cerimoniale della scrittura, rispetto a quella economico-utilitaria. Con uno sguardo verso altre espressioni di prima scrittura nel mondo, la data della nascita della scrittura cuneiforme sumerica viene fissata al 3300-3200 a.C., ma il periodo di gestazione è assai lungo. In Mesopotamia fu l'apparato amministrativo ( contabilità e controllo dei beni, prodotti e lavoro) la realtà che vide la prima scrittura diffondersi poi ad altri ambiti sociali e in altre aree geografiche.

La protoscrittura della Valle dell'Indo si diffuse nella cultura di Harappa tra il 2600 e il 1900 a.C.; secondo polo asiatico è la Cina della dinastia Shang, le cui prime tracce, risalenti al 1300-1200 a.C., vengono trovate incise su piastroni ventrali di tartaruga, ma anche di scapole di bovini. Nell'area della Mesoamerica la scrittura è un'invenzione originale ( senza alcuno stimolo esterno) come lo è stato per l'Egitto, nel vicino Oriente e in Cina. Nella prescrittura della cultura Maya, i simboli, le rappresentazioni di sovrani, dei e nemici coabitano in maniera simile all'arte egiziana. Altre affinità tra geroglifici antico-egizi e Maya è la duplice grafia: una scrittura monumentale e una corsiva. Come per l'Egitto, inoltre,  il potere della scrittura era ritenuto in grado di influenzare gli eventi. La scrittura aveva presso i Maya un potere magico-propiziatorio, come  medium di comunicazione con antenati e divinità.

Tornando ai geroglifici egiziani  ricordiamo che la loro decifrazione avverrà molti secoli dopo, nel 1822 : la scrittura era su oggetti di uso cerimoniale, tavolette di ardesia, manici di coltello, statuette etc. A tutt'oggi gli studi proseguono; nel Nord Africa che ha un importante posto per l'enorme patrimonio di siti d'arte rupestre sahariano, lo studio dei graffiti e pietre rupestri nei deserti egiziani e la comparazione  con le arti figurative predinastiche e faraoniche è decollato da poco. 

La nascita della scrittura in Egitto (con una protofase  iniziata nel  3250 a.C., durerà 500 anni) pare legata all'emergere dello stato, dove arte e scrittura non sono mondi distanti. Se è interessante considerare la pratica della scrittura insieme alle rivoluzioni da cui scaturisce, è lecito tuttavia domandarsi per quali ragioni l'uso della scrittura in una civiltà come quella egizia, che è  lunga 3000 anni, finisce per declinare e scomparire. Possiamo dire che erede dell’egiziano antico sarà la lingua copta, ma in questo caso la religione e la scrittura verranno rimpiazzate dal cristianesimo e dell'alfabeto greco.

Tutto quanto detto finora  ci conduce a pensare che la scrittura sia innanzi tutto memoria culturale e nel suo processo di sviluppo non si può dire se abbia giocato un ruolo più importante il contesto ideologico-rappresentativo o quello numerico-pratico.

Nel secondo capitolo del testo, curato da Alessandro Suzzi Valli, che tratta delle lingue africane tra oralità e tradizione, si parte dall'affermazione sconcertante che il numero di lingue nel continente africano è di circa 2500. Nella sola Nigeria sono 500 e parliamo di lingue vere e proprie, non di dialetti. Rimane sempre valida la suddivisione operata dal linguista americano J.Harold Greenberg nel 1966, in quattro superfamiglie: afroasiatico/ nigero-kordofaniano / nilo-sahariano / khoisan.

Si osservano all'interno dei gruppi, varietà diacroniche ( lungo il tempo, nel contatto con lingue differenti, ai confini dell'area linguistica) ; varietà diastratiche ( che dipendono dallo status sociale del parlante, dal contesto e dal mezzo di comunicazione). Questi fenomeni che sono rilevabili in tutto il mondo, proprio in Africa sono particolarmente accentuati e le lingue coloniali hanno dato il loro grande contributo al multilinguismo, pensiamo per es. al pidgin english ead altre lingue creolizzate.

Osservando le stratificazioni linguistiche notiamo che lo strato più basso è quello della lingue native (L1) parlate da pochi, legate al gruppo etnico di appartenenza. poi vengono le lingue franche (L2) di tradizione antica ( per es. lo swahili o l’hausa. l’afrikaans o il pidgin english, divenute lingue di comunicazione interetnica) ; lo strato più superficiale è quello delle lingue coloniali (L3) : inglese, francese, portoghese e arabo che coprono tutto il territorio del continente.

Notiamo, in tale ambito, particolarità locali: il cosiddetto inglese africano avrà un suono particolarmente riconoscibile rispetto a un inglese indiano. In Africa è normale per un nativo parlare fino a 5 lingue locali, oltre quelle di retaggio coloniale o lingue franche di comunicazione.

Il capitolo riguardante le lingue minoritarie in Africa è curato dal professore di linguistica africana e lingua e letteratura hausa, Herrmann Jungraithmayr, dell'Università di Francoforte. Nel corso delle sue ricerche ha conosciuto 30 lingue minoritarie nell'Africa centrale e occidentale. Nei suoi studi ha potuto constatare la differenza tra confini artificiali e comunicazione tra popoli. Per esempio la lingue ewe, appartenente alla famiglia niger-congo è parlate in tre stati differenti: Ghana, Togo e Benin.  Il potere vitale delle lingue minoritarie è minacciato dalle 5 lingue a maggioranza hausa, fulfulde e kanuri nel Nord, igbo e yoruba nel  Sud. Occorre tenere conto che ognuna delle lingue minoritarie è parlata da un numero di individui tra le 100 e le 100.000 unità.  E' in questa situazione che lo stato moderno in Africa deve affrontare l'impresa di gestire un numero enorme di culture e lingue diversissime in una singola nazione. L'autore di questa sezione si dedica da anni con passione alla difesa delle lingue minoritarie. Alla domanda più frequente che gli viene posta – perché sono importanti le lingue minoritarie ?-  lui risponde invariabilmente : “le lingue materne sono il cuore di un popolo dove amore e vita sono custoditi”.

Aggiunge quindi che  non si possono ignorare, anzi occorre studiare la grammatica di una lingua per conoscerla a fondo. E qui si entra nel “mare magnum” delle espressioni come  toni, suoni, forme grammaticali  con un complesso inventario di vocaboli tra nomi e verbi.  Sono lingue con più di 50 fonemi consonantici, vale a dire una stessa consonante esce con un suono diverso attraverso la palatalizzazione, la labializzazione, la glottalizzazione e la prenasalizzazione. Ci sono poi le differenze tonali tra alto e basso; un vero e proprio dominio della fonologia e della tonologia. Sia all'inizio che alla fine del suo saggio, il prof. Jungraithmayr porta un esempio importante a difesa delle lingue minoritarie: lo studente di un suo corso, un giovane kilba, nascondeva la sua identità perché provava vergogna delle sua lingua minoritaria. Dopo avere ricevuto rispetto e incoraggiamento dal suo professore, aveva scelto proprio la sua lingua materna come oggetto di ricerca del dottorato e infine, dopo avere svolto altre ricerche sul campo, venne promosso professore nel campo delle lingue africane,  riconquistando la sua identità minoritaria.

Alessandro Suzzi Valli interviene nuovamente nel capitolo successivo parlando di tradizione orale e trasmissione dell'identità. Si sofferma in particolare sulla comunicazione orale nel popolo Maka. Hampate Ba, interrogato su cosa fosse la tradizione orale rispose “è la conoscenza totale”. C'è quindi una partecipazione totale del narratore e dell'ascoltatore e una dimensione del tempo diversa da quella che percepiamo noi occidentali. Ogni volta il racconto cambia, non ha una struttura preordinata. Ci sono fattori che interagiscono con la creazione della storia e inoltre nell'espressione linguistica il ritmo gioca un ruolo non marginale e i movimenti del corpo, la gestualità, sono segni importanti della comunicazione.

E per offrire una sosta poetica che sottolinei quanto detto finora, esprimendo la varietà e multiformità linguistica presente in Africa (e non solo, vale anche per la varietà della flora, fauna, e delle etnie), ecco le antiche parole  di un cantastorie wolof di un villaggio senegalese, tradotte così:

Quando Iddio immaginò il mondo /volle che in esso le cose diverse/ fossero tante quante sono le stelle del cielo/ e quando creò l'Africa /di tutte queste cose differenti/ non volle dimenticarne nessuna.

Nella parte terza ci sono interventi che riguardano alcune analisi sull’impatto che hanno avuto  le lingue coloniali su quelle africane e interessanti riflessioni sugli adattamenti delle lingue locali africane a contatto con i paesi d’arrivo nel fenomeno migratorio. Dunque cambiamenti nel tempo e nello spazio.

Raymond Siebetcheu ha osservato i comportamenti linguistici dei parlanti bamiléké appartenenti alla comunità linguistica camerunense più importante in Italia. Il Camerun, dopo la Nigeria è il paese africano con il grado più elevato di plurilinguismo. Infatti, accanto alle due lingue ufficiali, francese e inglese, e alle numerose lingue locali quali il duala, il fufulde, il beti-fang, parlato nella capitale e il bamiléké occorre annoverare tre espressioni importanti: il pidgin english ,usato sia nella comunicazione informale che commerciale, nato durante il periodo coloniale nell’area anglofona, ma oggi diffuso anche in quella francofona, a causa delle migrazioni interne; il camfranglais, nato dal contatto delle due lingue ufficiali con il pidgin english e lingue locali camerunensi dell’area francofona; il franfufulde, esiti di contatto francese e fufulde, utilizzato soprattutto nel nord musulmano e arabofono.

Un dinamismo linguistico perennemente in atto, completamente sottovalutato dai governi, il cui sistema scolastico continua ad essere basato sul francese e inglese. E’ vero che dal 2009 sono state introdotte lingue locali a livello di scuola elementare, ma con modalità non concorrenziali alle due lingue estere dominanti, sia in termini di ore sia in quelli di motivazione allo  studio: solo chi riesce bene in lingue straniere viene considerato un bravo alunno. Il naturale processo di sviluppo delle lingue locali viene fortemente limitato e alcune lingue indigene, confinate al solo uso orale familiare, rischiano di scomparire.

Se è vero che le lingue africane hanno avuto difficoltà ad esprimere concetti moderni o settori scientifico-tecnologici, nati in ben diversi contesti culturali, anche le lingue occidentali, assai  standardizzate e con un lessico specializzato nella scrittura, faticano a tradurre concetti legati alle tradizioni africane, nati prevalentemente in contesti di oralità.  

Oggi le lingue bamiléké sono dotate di un alfabeto in caratteri latini: le creazioni lessicali ‘nuove’ si orientano verso il prestito linguistico, cioè l’uso diretto di espressioni in un’altra lingua ( es. dokta da doktor, mase da ma soeur, suora, suku da school ) e il calco, ovvero il conio di parole nuove partendo dalle radici proprie della lingua( es. sondé ngamgà, cioé domenica della sofferenza per Domenica di Passione).

Ma nel contesto italiano osservato che succede? La nostra lingua si inserisce nelle conversazioni  dei  camerunensi  con una funzione rafforzativa, emotiva e lessicale. Le espressioni lessicali sono in italiano qualora debbano esprimere concetti che i parlanti non conoscevano o usavano in inglese o in francese. Molti termini sono connettivi ed esclamazioni utilizzati frequentemente dagli italiani come -comunque, allora, insomma, bene, madonna!, mamma mia!-. Frequentemente questi elementi compaiono spontaneamente anche nelle conversazioni telefoniche con amici e famigliari in Camerun o quando i  migranti tornano nel loro paese, creando un po’ di confusione nei parlanti locali. Spesso si mescolano con il camfranglais in direzione di un possibile camfranglitalien.

Si potrebbe dire che, pur con qualche riserva sulla capacità della traduzione di rendere alcune espressioni nei rispettivi idiomi, la lingua riesce a ravvicinare e valorizzare culture molto distanti tra loro, con  o senza il beneplacito dei puristi.

Nell’ambito della cosiddetta francofonia è interessante il caso del Niger, in particolare della sua capitale Niamey. Orest Floquet, della Sapienza di Roma ha condotto un’indagine che ha verificato le differenze tra le contaminazioni linguistiche franco-africane operate in diverse capitali africane, quali Abidjan, Dakar, Kinshasa, Libreville, Youndé e il francese di Niamey. La capitale nigerina ha un milione di abitanti parlanti il songhay-zarma e l’hausa, ma il francese è la lingua veicolare di tutti, al di là della posizione sociale, consentendo la comunicazione di etnie di lingua madre differente. Non un francese popolare come si è ibridato altrove, ma usato in forma standard come tra i parlanti francofoni europei, evidenziando quelle trasformazioni morfologico-sintattiche che si verificano anche in altre lingue europee, come la scomparsa del congiuntivo o l’accordo imperfetto tra participio passato con il suo complemento oggetto che lo precede.

C’è da dire che le zone dell’Africa subsahariana sono state colonizzate in modi e tempi diversi da quella equatoriale e per di più con politiche linguistiche differenti tra Francia e Belgio (assimilazionista l’una, più separatista all’inglese l’altra) che possono aver dato luogo a queste differenze. Ma sono ancora in studio le ipotesi possibili che spieghino in modo globale  il fenomeno nigerino.

Molti studi sono dedicati all’impatto che possono avere le lingue africane sullo sviluppo socioeconomico dell’Africa; tutta la parte quarta riguarda questo argomento. Le lingue indigene sono riconosciute come ufficiali solo in 10 paesi su 54, l’arabo in 9. Nei restanti 47 c’è il francese come lingua ufficiale in 21 paesi, l’inglese in 20, il portoghese in 5 e lo spagnolo in un solo stato. All’indomani delle indipendenze molti leader nazionali erano influenzati dall’opinione occidentale che la via migliore verso il progresso e la stabilità fosse il mantenimento esclusivo delle lingue coloniali nell’istruzione per permettere ai cittadini accesso al lavoro, ai servizi amministrativi, alla partecipazione politica, rafforzando tra gli abitanti l’idea che il multilinguismo ostacolasse lo sviluppo nazionale. Ma nel corso del tempo si è constatato che senza l’uso delle lingue locali non si possono raggiungere importanti obiettivi quali per esempio la riduzione della mortalità infantile, la tutela della salute della donna, la prevenzione di malattie come l’Aids, la comprensione delle leggi emanate e delle transazioni commerciali o finanziarie.

In molte interviste strutturate, di cui si sono serviti per i loro studi Martin Njoroge e Moses Gatambuki Gathigia,  si è chiesto ai cittadini di individuare vantaggi e svantaggi nel predominio delle lingue esogene e quelli dell’uso delle lingue africane in domini specifici. Per l’istruzione, tutti concordano che l’uso delle lingue locali, soprattutto tra gli alunni più piccoli, intensifica l’attività di acquisire nuovi concetti, senza l’ansia di sbagliare, creando una possibilità migliore di integrare nuove conoscenze alle tradizionali e di articolare il proprio pensiero. L’uso delle lingue africane permette il passaggio dal mondo di casa al mondo altro, rappresentato dalla scuola, senza troppi strappi. D’altra parte, sottolineano gli autori, in molti paesi c’è una carenza editoriale di materiali didattici scritti nelle lingue africane e in generale una scarsa elaborazione di materiali per l’insegnamento.

Alcuni intervistati sostengono che comunque le lingue africane possono intensificare le divisioni etniche e rivelarsi controproducenti nelle richieste del mondo del lavoro ormai globalizzato, sostenendo perciò le scelte dei governi che nell’istruzione superiore prevedono quasi sempre discipline impartite nelle lingue ex-coloniali.

Per ciò che concerne gli affari e i commerci sicuramente l’uso delle lingue africane facilita nelle zone non urbanizzate, accrescendo il senso di appartenenza e unione, fermo restando che possono essere usate nelle transazioni illegali e truffe, estromettendo chi non sia pratico di una determinata lingua. Certamente la situazione multilinguistica di molte zone africane escluderà comunque molti clienti di altri gruppi linguistici, di qui il ricorso a lingue franche di secondo o terzo livello; è un gatto che si morde continuamente la coda. E’ interessante notare che alcune aziende di commercio globale via internet e industrie del software stanno vendendo prodotti in Africa usando le lingue locali. Se funziona, per il capitalismo mondiale in recessione si apre un mercato immenso...

Nel mondo dei massmedia è apprezzato l’uso delle lingue africane, soprattutto nelle zone rurali e periferiche: ogni informazione trasmessa è per tutti, istruiti e analfabeti, espressa in modo conciso, tale da veicolare messaggi culturali importanti per la nazione. Il rovescio della medaglia è sempre l’uso distorto che se ne può fare, come veicolare sfumature politico-tribali che possono generare odio nella società. Rimane sempre il problema che è impossibile creare, per esempio un tg o un giornale radio in tutte le lingue di un determinato paese; ma in molte zone con la radio si sta tentando di localizzare al massimo l’informazione, anche linguisticamente.

Gli autori di queste inchieste osservano che i paesi dell’Asia come la Cina , la Corea, Taiwan e la Thailandia basano le loro strategie di sviluppo sulle lingue indigene per coinvolgere l’intera popolazione, inserire il progresso tecnologico nella cornice culturale del paese e combattere povertà, emarginazione, analfabetismo.

Un bell’ articolo di Barbara Cannelli della Sapienza di Roma ci rimanda alle origini del dibattito sulle lingue e sulle culture africane, cominciato a partire dagli anni ’30 a Parigi, preceduto dalla Negro Renaissance americana degli anni’20. Esprimersi era, da  parte dei colonizzati un atto rivoluzionario politico, il silenzio dell’oppresso viene rotto pronunciando parole quali cultura africana, poesia negra, filosofia africana, storia africana. Per molti occidentali, intellettuali e non, pure eresie, dato che trattavano l’Africa come un mondo senza storia, senza un passato degno di essere ricordato e studiato, una terra i cui abitanti possedevano  una mentalità primitiva prelogica e  un coacervo di superstizioni. La decolonizzazione iniziava dalla riconquista di sé, dalla fierezza delle proprie origini e di un diverso modo di leggere il mondo. Ma comparve subito un dilemma non ancora risolto del tutto ancora oggi:esprimersi e ribellarsi utilizzando quali lingue, quali codici comunicativi? L’insidia è sempre dietro l’angolo: scegliere le lingue occidentali e parafrasare i loro modi culturali per far capire le proprie ragioni, soggiacendo di fatto all’eurocentrismo, o rinchiudersi nella difesa ad oltranza delle tradizioni endogene, anche se ormai obsolete, generando una sorta di trappola dell’esotismo etnico? Coincidendo in questo modo anche con alcune posizioni del progressismo occidentale. Cesaire, Senghor, Cheik Anta Diop furono al centro di questo acceso dibattito, polemizzando o accettando certi fraintendimenti del marxista Sartre, colloquiando con posizioni diverse come quella di Franz Fanon.

Tutto cominciò con la poesia in un francese violentato, defrancesizzato fino a raggiungere effetti di grande surrealismo, aprendo questa lingua a possibilità liriche ultramoderne. Ciò divenne politico nel senso indicato da Senghor. In greco poesia viene dal termine ‘poiesis’, a sua volta dal verbo ‘poieo’, produrre, fare. La poesia coincise dunque con un’azione politica dalla cui temperie sarebbe scaturito l’entusiasmo della lotta per le indipendenze. Fanon e poi Thiong’o avevano subito compreso che era stato attraverso l’imposizione della lingua francese o inglese che si era operato la colonizzazione interiore delle popolazioni africane. Ma necessità pratiche impellenti spinsero molti dei padri della patria tuttavia a istituire sistemi scolastici modellati sulle lingue e i modelli degli ex-colonizzatori.

Gli insuccessi dei decenni successivi, provocati anche da un supporto ambiguo degli occidentali, hanno affievolito la ricchezza di quel dibattito culturale. L’assimilazione forzata francese o l’indirect rule inglese hanno fallito entrambe, lasciando agli emarginati delle periferie geo-politiche-culturali, di esprimersi o con il rifiuto della cultura, aiutati in questo dai codici massificanti e appiattenti della comunicazione globale nel mondo, o con la violenza.

Il rifiuto del localismo linguistico, l’aspirazione all’universalità e alla cultura come via principale per l’inclusione nel mondo dà i suoi frutti oggi con una letteratura in prosa e in poesia degna del massimo interesse e con risultati veramente ragguardevoli. Ma questa conclusione è da addebitare più a noi di Scrittidafrica che alla professoressa Cannelli.  

Certo oggi decolonizzare l’immaginario significa mettere in discussione l’ideologia dello sviluppo, del sistema neoliberale e di tutto il pacchetto occidentale  per il  buon funzionamento  della   società (industrializzazione, democrazia rappresentativa, individualismo, tecnologia avanzata, competitività). Si nega la diversità linguistico-culturale e la possibilità di interpretare la vita partendo da logiche differenti per raggiungere , con la colonizzazione delle menti, la colonizzazione sugli altri aspetti: economico, politico e sociale. Con questi presupposti Susana Moreno Maestro e Andrea Alejo Jara analizzano l’educazione plurilingue in Kenia, Mozambico e Tanzania, concludendo tuttavia che politiche e misure non si sono rivelate determinanti per operare un vero cambiamento, del resto le ‘raccomandazioni’ sul “fattore lingua” sono comparse da poco anche  nello scenario internazionale. Sebbene si utilizzino lingue locali nell’istruzione, si pensi al caso del Kenya con lo swahili accanto all’inglese, nella mentalità della gente prevale l’interesse per l’uso soprattutto dell’inglese, come chiave di successo in Africa e nell’immigrazione.

Una lettura sorprendente quella de ”Il suono e la parola dei tamburi parlanti” di Felix Amani: una esperienza particolare quella dei popoli Akan(Costa d’Avorio, Ghana, Togo) che si rapportano in comunità attraverso il cosiddetto tam-tam parleur. Queste popolazioni parlano il twi e hanno mantenuto la capacità di parlarsi a distanza, emettendo, tramite i tamburi,  suoni strutturati nel loro linguaggio. I messaggi parlano di decreti delle autorità, di eventi della vita, di gioie e dolori, di storie e miti, di pericoli imminenti, di figure della religione cristiana in un modo codificato e cifrato. I tamburi non trasmettono segnali ma producono suoni modulari rispecchianti l’andamento melodico, riproducenti le tonalità della loro lingua. In pratica imitano i suoni dell’apparato fonatorio umano. Ovviamente non possono essere compresi se non si è all’interno di quelle comunità etnico-linguistiche. I tamburini sono musicisti ma non suonano musica per puro divertimento, bensì per comunicare messaggi che rinforzano l’interazione sociale delle comunità a cui sono diretti. Il tamburo non può dire tutto, dal momento che è codificato in un repertorio costituito da enunciati stereotipati, comprensivi di coniugazioni verbali ,e non può espandersi all’infinito : emittente e ricevente lo conoscono in base ad un processo di lenta acquisizione. Come in tutti i messaggi il “canale” può essere disturbato e quindi si ricorre alla ridondanza e alla ripetizione, all’enfasi e alle pause per ovviare a disturbi o a eventuali errori. Il discorso musicale quindi presuppone una collaborazione attiva e creativa da parte di chi ascolta: il villaggio rinforza in tal modo i legami all’interno del gruppo. Fin dalla più tenera età i bambini apprendono dalle madri queste modulazioni, per acquisire dimestichezza con il linguaggio del tam-tam..

Al giorno d’oggi, le possibilità dell’era digitale di ascoltare musica e anche il tam-tam parleur, stando comodamente seduti a casa e anche in completa solitudine rovescia la funzione socializzante dell’ascolto in favore di una privatizzazione individualistica. Sicuramente un sound simile a quello dal vivo, a volte migliore, intensifica l’emozionalità del messaggio, lo personalizza ma ne perde la qualità relazionale. Una forma di comunicazione non propriamente verbale come quella del tam-tam parleur non è fatta per un comune conversare tra individui, come una chiacchierata telefonica, ma riporta la comunità ad una dimensione rituale di parola sacra, su cui si incardina la società stessa. Saprà fare lo stesso la tribù di internet?

La sesta sezione riunisce una serie di analisi riguardanti la comunicazione dei media. Il primo, di Armella Muhimpundu ci riporta all’uso della radio in Africa in generale e proponendo un focus sul Rwanda.

In Africa la radio resta lo strumento principe dei media, non soppiantato né dalla televisione né da internet, anzi la diffusione  dei supporti digitali e del telefono cellulare ne ha aumentato l’efficacia sia nelle metropoli che nei più sperduti villaggi delle aeree rurali. Le tecnologie satellitari ne hanno migliorato la recezione, tranne in quei paesi dove la monopolizzazione da parte della politica ne ha rallentato la liberalizzazione. Le radio dagli anni ‘70 hanno cominciato a usare le lingue locali, facendo nascere le community radios, attirando l’attenzione degli ascoltatori con temi di grande portata sociale: l’esodo rurale, la desertificazione e il clima, la corruzione, la delinquenza giovanile e la violenza in generale. Gli ascoltatori a poco a poco sono potuti intervenire a dire i loro problemi e le loro opinioni. Le talk radio hanno permesso programmi di educazione alimentare e di igiene, dirette a zone sperdute, parlanti lingue a rischio di estinzione. Ciò ha contribuito a rinsaldare un senso di identità comune, che si era perso con la lontananza abissale nei confronti delle élite di governo. Sono dirette spesso da volontari, provenienti dai villaggi stessi  più che da professionisti. L’estrema periferia del mondo ha cominciato a sentirsi parte del tutto. 

Il caso del Rwanda è veramente emblematico: il paese è eminentemente agricolo e non concentrato in grandi città. Più della metà della popolazione possiede una radio e più del 60% utilizza i telefoni mobili per ascoltare la radio. Negli anni ‘90 Radio Rwanda, unica radio trasmittente di obbedienza governativa, crea una nuova emittente, la Radio television libre des mille collines, l’RTLM: sul ruolo di questa radio nel genocidio dei tutsi nel ‘93-94 si è scritto molto.  Aggiungiamo noi che anche la cinematografia ha dato il suo contributo, come si vede in alcune scene del film Hotel Rwanda, uscito dieci anni dopo la strage, in cui l’ascolto della radio getta le radici di un genocidio pianificato.

Nell’articolo si cerca di dare ragione su come sia stato possibile questo ruolo. La radio, basandosi sull’elemento sonoro e non sulla vista raggiunge anche chi non è interessato a seguirla, dato l’ascolto spesso collettivo ad alto volume di questo mezzo. I genocidari sfruttarono anche questo per raggiungere un numero più grande di persone e diffondere rapidamente i loro sconsiderati messaggi. Sapendo di dover contare sui più giovani per realizzare i loro propositi resero accattivanti le comunicazioni con trasmissioni musicali. Il messaggio era sempre lo stesso: i tutsi andavano eliminati, tagliati come alberi con il machete. Le incitazioni all’odio erano ascoltate in casa, nei luoghi di lavoro, nei mercati. Alcuni giornalisti della radio divennero dei veri e propri divi. Fu così che gli Interahamwe, i cosiddetti vicini di casa, riuscirono a  uccidere tra ottocentomila/  un milione di persone tra tutsi e hutu moderati: l’ordine dell’inizio del genocidio fu dato per radio.

In seguito alla guerra civile il Rwanda ha sfruttato le stesse possibilità della radio per un grande programma di riconciliazione: vittime e carnefici venivano messi a confronto, dando un luogo deputato all’espressione di emozioni forti di rabbia e di vendetta, invitando o parlando di quanti tra gli hutu avevano salvato dei tutsi, per dare la possibilità di riconoscere nel nemico qualcosa di positivo. Una intensa attività di radiodrammi ha permesso lentamente alle persone di riflettere su quanto accaduto in modo mediato e meno minaccioso. Soap opera come Urunana e Musekeweya hanno avuto il pregio di far discutere in diretta quanto accadeva negli episodi con la distanza della fiction che liberava idee, energie positive, andando alla radice dei pregiudizi e della violenza.

Alessandro Jedlowski ci rende edotti del dibattito sorto in Nigeria in merito alle rappresentazioni di violenza presenti nella filmografia di Nollywood, la copiosa produzione di video e film nata in questo paese già dagli anni ‘60. Con  l’avvento del digitale ha più che raddoppiato le sue realizzazioni, collocandosi appena dopo l’India e prima di Hollywood. I film nigeriani in lingua inglese, yoruba, igbo e hausa circolano nell’Africa sub-sahariana, contribuendo alla formazione di un immaginario collettivo panafricano.

Questi film fanno largo uso della violenza come espediente narrativo, ponendo domande cruciali ai critici. Si tratta di una rappresentazione realistica della società nigeriana attuale? Oppure esprimono ansie e preoccupazioni della gente in merito alla precarietà delle loro vite? E ancora, quali effetti hanno soprattutto sul pubblico giovanile quelle modalità con cui viene rappresentata la società?

Il successo di Nollywood per molti è una riprova della creatività e della capacità imprenditoriale dei nigeriani, evidenziando un modello  economico e culturale autonomo e lontano dal controllo politico. Altri si preoccupano di quali effetti possano avere, a livello mondiale, queste immagini fosche della Nigeria e presso i nigeriani stessi.

Innanzitutto occorre dire che, prima dell’invasione dei film prodotti localmente, i generi di maggiore presa sul pubblico nigeriano erano film western, gangster movies americani e i film di kung fu, in cui l’espediente narrativo principale si basava proprio sulla violenza.

Inoltre, le rappresentazioni del Yoruba Travelling Theatre e la letteratura popolare di Onitsha, nata intorno alla città-mercato e diffusa capillarmente da una editoria a basso costo, si basavano su storie di violenza  nell’ambito della magia e dell’occulto, temi ancora largamente trattati dai film odierni. I generi vanno dal melodramma all’epico, dall’horror alla commedia, spesso ispirati dal cristianesimo soprattutto di confessione evangelica. Molti critici sostengono che questi prodotti supportano i nigeriani nel confrontarsi con le sfide della modernità e sono perciò un reale specchio della società con i suoi dubbi e preoccupazioni. Gli spettatori intervistati vi colgono  la capacità di dare voce al loro quotidiano. Non a caso hanno al centro la famiglia, spesso in preda a punti di vista contrastanti circa il modo di fare soldi e avere successo e la contrapposizione  villaggio-città, laddove il primo è la tradizione e la superstizione e il secondo la modernità.

Certamente la produzione di Nollywood è determinata soprattutto da ragioni economiche e se i film di questo genere fanno cassetta perché rinunciarvi? La riprova è che, al contrario di quelli hollywoodiani, difficilmente raggiungono un livello estetico di bellezza.

Spesso la qualità bassa dal punto di vista tecnico determina immagini molto crude che possono determinare un senso di repulsione, soprattutto tra gli spettatori non nigeriani, non in grado di legare i contenuti dei film  al loro contesto di provenienza. Indubbiamente se la violenza è un riflesso della realtà, delle ansie e paure che caratterizzano il presente  nigeriano è anche vero che l’eccesso in quelle  rappresentazioni può generare un discorso collettivo ansiogeno, perché le paure, già esistenti a livello di inconscio collettivo, vengono confermate.

Troppo spesso però i film subiscono critiche più sociologiche che filmiche. La realtà rappresentata è spesso ai limiti del grottesco, elemento che potrebbe esorcizzarne la violenza. Si avanza l’ipotesi di una influenza su sceneggiatori e registi delle strategie narrative dei film horror fino ad arrivare a delineare una estetica dell’oltraggio, in cui si mescolano attrazione e repulsione: i personaggi sono messi in una situazione tale di violenza che nessun spettatore potrebbe identificarvisi e contemporaneamente compiono azioni pressoché inverosimili ma in risposta a difficoltà reali.

Nell’ultimo capitolo si dà conto brevemente di come anche in Africa il mondo tecnologico stia cambiando le sue offerte. Non si pensa più soltanto ad un utente finale passivo della tecnologia informatica, ma si tenta il coinvolgimento degli utenti a livello di nuove potenzialità d’uso, attraverso piani nazionali governativi e interventi di attori privati, possibilmente locali. Verrebbe in tal modo superata la fase dell’attivazione di centri servizi, dove era possibile usufruire di impianti di connessione internet e telefonici per chi non ne fosse munito, per supportare determinati settori dell’economia e/o per venire incontro ad esigenze specifiche di determinate zone geografiche, di comunità e gruppi sociali. Per esempio, si pensa a servizi che possano essere d’aiuto ad attività agricolo-pastorali, agevolando la gestione delle proprie risorse o offrendo modelli di previsione per la gestione di fenomeni naturali, in cui il know-how è a doppio senso: quello tecnologico integrato con le nozioni dei residenti del posto. Oppure la digitalizzazione dei servizi commerciali e bancari.

L’avvento delle tecnologie mobili e dei cellulari di ultima generazione ha creato lo spazio per lo sviluppo di applicazioni realizzabili con investimenti contenuti. E’ evidente che due condizioni sono essenziali: chi offre la tecnologia deve poterla adattare e modellare su una lingua locale perché non si costruisca sul nulla, vanificando investimenti e risorse; chi usufruisce deve accettare una certa dose di flessibilità della propria lingua per ottimizzare l’uso dei mezzi.  Un sogno? Meno di quello che si pensa. In Africa ci sono risorse umane che possono agire e contribuire al proprio sviluppo, senza attendere unicamente un aiuto esterno da utilizzare in modo passivo. Perché l’Africa, come ribadisce Martin Nkafu Nkemnkia, non è solo guerra, desolazione e malattie.

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