Ngũgĩ wa Thiong’O, Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana (a cura di Habté Weldemariam)

Ngũgĩ wa Thiong’O

Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana

Traduzione di Maria Teresa Carbone

Jaca Book, Milano 2015, pp. 126

Si è scritto molto di colonizzazione e impatto sulla vita degli abitanti delle colonie, ma c’è un aspetto che forse non è stato attentamente analizzato e che il keniano Ngũgĩ wa Thiong’o, (a seguire scriveremo Ngugi wa Thiong’o[1]) , uno dei maggiori scrittori africani viventi, prova a colmare con questo libro: si tratta della  lingua.

Lo scrittore nella seguente definizione sintetizza il suo instancabile spirito critico contro i regimi di un’Africa solo apparentemente liberata: “gli oppressi e gli sfruttati della terra ribadiscono la loro sfida: libertà dal furto. Ma l’arma più grande, scatenata dall’imperialismo contro questa sfida collettiva è la bomba culturale…una bomba che annulla la fiducia di un popolo nel proprio nome, nella propria lingua, nelle proprie capacità e in definitiva in se stesso”. In altre parole si tratta, come si capisce, di questioni ancora oggi di vitale importanza, in un contesto di globalizzazione omologante da un lato e di revivalismi particolaristici dall’altro.

E’ questo il nodo centrale di questa raccolta di saggi e fra le tante domande a cui tenta di dare risposte plausibili ed articolate, notiamo : come immaginare una decolonizzazione reale, dopo secoli di violenza culturale e psicologica? In che modo l'incontro coloniale ha strutturato le ideologie della differenza razziale, culturale, sessuale, di classe? Il dominio coloniale è stato o no esercitato, mantenuto, costruendo una cultura europea come superiore, come misura dei valori umani? Che ruolo hanno avuto alcuni testi letterari nel tentare di impartire agli indigeni "valori" occidentali? Domande che si ripresentano con urgenza estrema soprattutto in quei luoghi che sono stati vittime della colonizzazione europea e che hanno avuto la necessità di sviluppare un linguaggio unificante non solo delle narrazioni ma, attraverso di esse, anche di un popolo. La lingua, la scrittura sono elementi determinanti dell’identità di un paese, di una collettività che, con esse, ribadisce la propria vitalità e la propria affermazione come entità vivente. Ed è questo l’elemento dominante che sta alla base di Decolonizzare la mente. In una prospettiva molto autobiografica, e coerentemente con gli obiettivi del volume, l’autore offre il proprio vissuto personale come esemplare di una possibilità di resistenza a questo fenomeno. La presa di coscienza linguistica si lega a un orientamento esplicitamente marxista, fanoniano e alla profonda disillusione di fronte ai fallimenti delle élite borghesi neocoloniali: come trovare il modo di parlare a contadini ed operai e di spingerli verso un rinnovamento sociale, se non usando una lingua per loro non aliena?

Come è noto, si tratta di uno dei testi più dibattuti negli ultimi trent'anni[2], anche se, va detto, al di fuori del mondo accademico e politico anglosassone il suo fascino è stato sicuramente minore e il suo impatto assai meno travolgente.

Ngugi, descrive in questo saggio tutta l’odissea rivoluzionaria, culturale, narrativa ed editoriale che ha coinvolto un intero popolo per giungere al perfezionamento di una liberazione che non è mai completa del tutto finché non perviene anche alla emancipazione dalla lingua e dalla scrittura dei colonizzatori.

Il confronto tra tradizione orale e scrittura, tra teatro come espressione sociale e teatro come retaggio di domini culturali, tra romanzo che utilizza la lingua dei colonizzatori e romanzo che vuole nascere dalla lingua orale di un popolo alla ricerca del suo alfabeto scritto; queste sono le principali questioni che l’autore affronta in questo saggio che si trasfigura in divenire storico di una nazione e di un continente.

I quattro testi che compongono il saggio risalgono ad un tempo piuttosto lontano. Decolonizzare la mente, che arriva per la prima volta in Italia dopo quasi 30 anni, uscì nel 1986 come raccolta di discorsi pronunciati dall’autore nel corso di un ciclo di conferenze tenutesi presso l’Università di Auckland, in occasione del centenario della Conferenza di Berlino nel 1884. A Berlino si erano sancite non solo le frontiere dell’Africa, ma anche le divisioni linguistiche, secondo i termini delle lingue europee: paesi africani di lingua inglese, di lingua francese, di lingua portoghese, evidenziando la spartizione dell’Africa a tutto vantaggio dell’Europa coloniale. La pubblicazione in volume avvenne nel 1986. Da allora, il lavoro di Ngugi non ha perso attualità, né smalto, avendo nel frattempo suscitato non solo reazioni estemporanee, ma una vera riflessione, con tanto di letteratura critica sul tema, anche fuori dai circoli degli africanisti.

Decolonizzare la mente[3], come recita il titolo, appunto, spiega l’importanza cruciale della lingua per una comunità, non solo nella comunicazione quotidiana ma anche nell’elaborazione del suo immaginario fatto di passato, presente, aspettative per il futuro tramandabile e trasfigurabile grazie alla lingua.

Così, la questione della lingua da una prospettiva più sociale, partendo dal dibattito del 1968 sul ri-orientamento dei dipartimenti di letteratura delle università del Kenya (al tempo ancora dominati dal canone britannico), si sposta poi sul più ampio dibattito nazionale del 1974 riguardo al sistema scolastico, viziato da analogo eurocentrismo. Le proposte di rinnovamento si fondavano sul ruolo delle letterature orali e scritte nel loro contesto panafricano e della diaspora dei popoli neri, rigettando l’idea di “sostituire lo sciovinismo britannico coloniale dei piani di studio esistenti con uno sciovinismo nazionale”. Ed è anche questo ciò che Ngugi intende con Spostare il centro del mondo. La lotta per le libertà culturali.

Anche i sostenitori di questo rinnovamento, ricorda l’autore, venivano bollati come sovversivi e perseguitati dal regime[4], e non a caso il volume si chiude con una rivendicazione filosofica e politica della sua proposta. Rivalutare il ruolo di culture e lingue africane è condizione necessaria, ma non sufficiente per una vera decolonizzazione, se ciò “non veicola la lotta antimperialista dei nostri popoli”.

POTERE COLONIALE E IL RUOLO DELL’ISTRUZIONE IN LINGUA INGLESE

La lingua inglese, obbligatoria in Kenya dal 1952, non era fatto marginale nell’esercizio del potere coloniale, bensì centrale per far sì che il potere dei dominatori si infiltrasse in profondità nella vita quotidiana dei giovani africani. I bambini che parlavano gikuyu a scuola venivano sottoposti a punizioni corporali o umiliazioni ed “erano i compagni stessi che avevano il compito di denunciarli”. L’inglese divenne così la lingua obbligatoria dell’apprendimento, “unità di misura dell’intelligenza e dell’abilità”. Per fare questo, occorreva catturare gli “indigeni” fin da piccoli [catching them young], per sradicare la cultura della loro appartenenza e condizionare “a vedere il mondo e il proprio posto in esso come lo vedeva e lo rifletteva la cultura della lingua di imposizione.”

Il merito, e di conseguenza la possibilità di accedere alle scuole più prestigiose e poi alle università, era misurato principalmente in base alla conoscenza dell’inglese, una sorta di bacchetta magica che permetteva ai ragazzi di entrare a pieno titolo nell’élite borghese.

L’imposizione dell’inglese in tutte le scuole del Kenya ebbe l’effetto non solo di produrre una piccola élite borghese, che dopo l’indipendenza divenne l’élite neocoloniale- collusa con i vecchi poteri e responsabile di larga parte del fallimento stesso dell’indipendenza perché pronta a tradire le masse e a scimmiottare l’Occidente in cambio dell’assimilazione- ma anche di svilire il gikuyu (così  come le altre centinaia di lingue parlate in Kenya) instillando nelle masse rurali un’irreversibile sfiducia verso se stesse.

Per un keniano, continuare a leggere e a scrivere in inglese significa perpetuare la schiavitù: “I nostri compagni di avventura quotidiani erano Oliver Twist e Tom Brown invece della lepre, del leopardo o del leone. Questa lingua, insieme alla sua letteratura, ci allontanava giorno dopo giorno da noi stessi, ci strappava dal nostro mondo per immergerci in un altro”, spiega l’autore ricordando i suoi studi. Perché “la lingua ha sottomesso più che il fucile” e perdere la propria lingua significa perdere la propria memoria collettiva.

La scelta della lingua e dell’uso ad essa assegnato è centrale per la definizione che un popolo dà di sé in relazione con il proprio ambiente naturale e sociale. La lingua estranea ti rende straniero nel tuo territorio. Essa decontestualizza l’esperienza umana e la percezione della realtà perché non si è più in grado di nominarla. Ecco perché secondo Ngugi, “la scuola in inglese spezza il legame tra lingua e cultura: il gesso delle lavagne diventa più pervasivo delle pallottole perché ha soggiogato le anime”.

Così l’istruzione scolastica anziché instillare nelle persone la fiducia nella propria capacità di superare gli ostacoli, di padroneggiare le leggi che regolano la natura esterna, tende a mettere in risalto le loro imperfezioni, le loro carenze, le loro inadeguatezze di fronte alla realtà e soprattutto la loro incapacità di agire sulle condizioni che governano la loro vita. Il risultato è l’alienazione sempre maggiore da sé e dal proprio ambiente naturale e sociale.

Assistiamo a un potere pervasivo che ha permesso al dominio coloniale di promuovere la segregazione razziale e la nuova struttura piramidale della società, ma soprattutto una nuova percezione di sé degli africani, funzionale al pieno controllo delle ricchezze nelle colonie. Questo significa controllare la lingua di un popolo, controllare i suoi strumenti di autodefinizione in rapporto agli altri, nonché la sua produttività.

LA SVOLTA

Per comprendere il senso dell'impegno di Ngugi basta leggere una sua dichiarazione programmatica: “La letteratura non cresce o si sviluppa in un vuoto; riceve impulso, forma, direzione dalle forze sociali, politiche ed economiche in una particolare società”.

Ngugi wa Thiong’o, rientrato in patria all’indomani dell’indipendenza, e divenuto docente all’Università di Nairobi, si rende presto conto che le promesse della libertà sbandierata al momento dell’indipendenza sotto il simbolo dell’uhuru sono lungi dall’essere praticate nel Kenya indipendente e neo-coloniale governato dai successori dei lealisti e non dei ribelli nazionalisti. Ha inizio da allora il complesso processo di “conversione dello sguardo” che lo porta , da una posizione di  successo, dall’impeccabile uso della lingua inglese, a divenire assertore tenace dell’uso delle lingue africane come strumento di liberazione e di riscatto dall’antico servaggio coloniale. Si batterà per riabilitare la propria lingua africana come lingua letteraria e reclamerà una riforma delle facoltà di inglese delle università kenyane. Comincia a scrivere in lingua gikuyu nel 1977. Sarà la causa del suo inseguimento e arresto.

Ma la scintilla che ha aperto gli occhi a Ngugi wa Thiong’o  risale allo storico convegno di Makerere, Uganda, del 1962, dove il distacco dalla lingua materna o problema della lingua da usare, fra gli scrittori degli ex paesi colonizzati, è stato affrontato in modi diversi da diversi autori, dando vita ad un vivace ed appassionato dibattito a sostegno dell'una o dell'altra tesi: adottare le lingue 'afro-europee' portato diretto della dominazione coloniale o le lingue africane autoctone?

E' ormai nota, in proposito, la disputa tra Achebe e Ngugi, che, pur con scelte e percorsi differenziati (l'uno utilizzando la lingua "universale" degli antichi colonizzatori, ma 'piegata' alle necessità di un contesto africano, e l'altro una lingua autoctona (il kikuyu, swahili, amarico, … e tutti gli altri 3000 tra lingue e dialetti) africana per soddisfare l'esigenza di 'creare' una lingua che potesse essere intesa dai loro compatrioti[5].

La svolta, letteraria e politica, venne con A Grain of Wheat ("Un chicco di grano", 1967) romanzo nel quale Ngugi espresse per la prima volta posizioni esplicitamente marxiste-fanoniste. Marx, Brecht, Fanon – per alcuni, ruggini ideologiche - diventano ispiratori di un richiamo a prendere posizione, all’azione: “l’appello a riscoprire e a riprendere le nostre lingue è un appello a rigenerarci,  a riscoprire il vero linguaggio del genere umano: il linguaggio della lotta”. Soprattutto dall’analisi di Franz Fanon, elaborerà una teoria secondo la quale è necessario spostare il centro del mondo e decolonizzare le menti non solo nei rapporti fra le nazioni e le culture, ma anche all’interno dell’elaborazione culturale di ogni singolo paese.

Ma attenzione: Ngugi non cade mai nello schematismo programmatico o aprioristico. L'originalità direi unica di Ngugi sta nell'attingere alla tradizione narrativa africana, in una raffinata simbiosi tra oralità e scrittura, creando personaggi di rara intensità.

SMUOVERE IL CENTRO VERSO UN PLURALISMO DI CULTURE

La letteratura, attraverso le storie e i racconti, le narrazioni dei mondi, aiuta a comprendere in modo partecipe la "storia" dell’antropologia umana e sociale, aiuta a percepire le motivazioni storiche della marginalità, della disuguaglianza e della disumanizzazione dell'"altro"; mostra come le frontiere vadano dissolvendosi e come sia necessario guardare al contatto con le altre lingue e altre culture non come dispositivo per costruire delle identità chiuse, ma come il più potente motore di scambio/relazione che l'uomo possieda.

Proprio in Spostare il centro del mondo, scopriamo che l’universalismo del sapere diventa strumento di potere universale. In questa chiave va letta l’aspra critica di Ngugi alla letteratura inglese coloniale e postcoloniale, così come il suo sottile riconoscimento della funzione ideologica della letteratura stessa, strumento al tempo stesso di oppressione e di liberazione. E se tale è dunque il suo ruolo, ne deriva con grande chiarezza che il processo di ‘decolonizzazione della mente’ dal sistema di pensiero che sostiene le divisioni sociali, religiose ed etniche, avviene anche e soprattutto attraverso la letteratura, non più intesa come espressione universale, ma come espressione della differenza. Secondo Ngugi, “la ricchezza di una cultura globale comune sarà espressa nelle particolarità delle nostre differenti lingue e culture, proprio come in un giardino universale dai fiori multicolori.”

In questa analisi Ngugi ripercorre, da scrittore attivo, quelle teorie espresse magistralmente da Edward Said in Cultura e imperialismo, dove si metteva in luce come la letteratura occidentale, anche quando ben disposta non è riuscita del tutto a sfuggire al razzismo imperialista, influenzata dalla weltanschauung eurocentrica.

Tramite il dialogo fra le lingue, le culture e le tradizioni differenti e senza che nessuna di esse prenda il sopravvento e diventi dominante, salvaguardando l’universalità del particolare, Ngugi ci propone un multiculturalismo sano e la libera espressione delle culture come solo efficace antidoto contro la voracità dell’imperialismo culturale, perché il problema posto dalle nuove letterature, siano esse lingue europee o africane, concerne il modo in cui dobbiamo interpretare il ventunesimo secolo. La schiavitù, il colonialismo, l’intera ragnatela di relazioni neocoloniali così ben analizzate da Frantz Fanon hanno contribuito all’emergere sia del moderno occidente che della moderna Africa. Per questo motivo le culture africane, asiatiche e sudamericane sono parte integrante del mondo moderno tanto quanto quelle europee;  non c’è razza, scrisse Aimé Cesaire nel suo famoso poema Diario di un ritorno al paese natale, che abbia il monopolio della bellezza, dell’intelligenza e della conoscenza. C’è un posto per tutti ai rendez-vous della vittoria umana.

EDUCARE I FIGLI AD ESSERE CITTADINI DEL MONDO

Va ricordato che l’opera di Ngugi costituisce non tanto una crociata culturale, ma piuttosto una serie di interrogativi sulla crisi identitaria di un paese a lungo sottomesso. Decolonizzare la mente parla a fondo di questo: l’emancipazione nazionale, democratica e umana.

E chi legge questo libro non può non riportare alla mente la famosa risposta di Amilcar Cabral, - allorché un giornalista francese gli domandò quali erano le ragioni che sottostavano all’idea dell’indipendenza delle nazioni africane : “Prima per imparare ad essere noi stessi, africani, e poi per educare i nostri figli ad essere cittadini del mondo”. Si tratta di una convinzione di tutta quella generazione dei Padri delle indipendenze dei Paesi africani, da sempre sostenitori di una lotta non contro le persone, contro gli europei, ma contro i sistemi di dominazione, di oppressione, di pauperizzazione antropologica e strutturale.

“Lo scrivere in gikuyu” dice in una recente intervista Ngugi “mi fa sentire libero, anche in esilio, perché la lingua che parliamo è la nostra identità, la nostra storia, il contatto con le nostre radici. Ogni Paese può far progredire la sua cultura e la sua economia solo attraverso il profondo legame con la sua lingua naturale. Quasi ovunque, invece, in Africa, fatta eccezione per l’Eritrea, l’Etiopia e il Sudafrica, le lingue ufficiali della politica e dell’insegnamento sono quelle delle ex potenze coloniali”.

Decolonizzare la mente, è non solo l’indicazione della grande ricchezza della letteratura di resistenza che si oppose, e si oppone, al dominio imperiale e alla globalizzazione, ma anche una un'opera che intende spingere a rileggere i grandi capolavori della letteratura occidentale, sulla complicità della cultura con il progetto egemonico di vecchi e nuovi imperi, da Cuore di tenebra di Conrad a Mansfield Park della Austen, dall'opera Aida di Verdi a Lo straniero di Camus.

Per chi si occupa da molti anni di decostruire (concetto elaborato inizialmente da Jacques Derrida)  i miti “euronordoccidentali”, questo saggio  diventa un grande aiuto alle nostre perenni domande: in che modo l'incontro coloniale ha strutturato le ideologie della differenza “etnico-razziale”, culturale, di genere, tra i popoli? Il dominio coloniale è stato o no esercitato, mantenuto, costruendo una cultura europea come superiore, come misura dei valori umani? Che ruolo hanno avuto i testi letterari nel tentare di imporre ai colonizzati valori occidentali e nella costruzione di una cultura euronordamericana come superiore e come "misura dei valori umani?".

Un approccio al colonialismo attraverso i testi letterari vuol dire individuare come l'immagine del "diverso" sia una "costruzione" ideologico-culturale dell'Occidente; capire quanto della rappresentazione dell'"indigeno" sia passato nell'attuale rappresentazione dell'"immigrato" che sta alla base della xenofobia e del razzismo oggi ampiamente diffusi; significa anche riconoscere-valorizzare le innumerevoli contaminazioni, sovrapposizioni, relazioni di cui é intessuta la storia e ogni esistenza reale.

Alla fine di questa lettura sembra lecito domandarsi: quanto è ancora attuale Decolonizzare la mente? È ancora possibile oggi, nell’epoca pienamente post-coloniale e neoliberista della globalizzazione, rivendicare questo ruolo?

Nella fusione di teoria e prassi, che un’esperienza, prima di tutto personale, di questo grande scrittore testimonia, è racchiusa la profonda attualità dell’opera in cui l’autore rivendica per gli intellettuali africani un forte ruolo politico, che vada al di là della loro appartenenza ad una élite economica e culturale.

Quello di Ngugi è un cammino personale e un percorso intellettuale  di autostima e di mobilitazione del popolo africano contro le costrizioni psicologiche e materiali imposte dai regimi postcoloniali e dall’imperialismo occidentale.

Leggere il libro con le lenti dell’attualità stimola una serie di riflessioni. Ad esempio, la rivalutazione delle lingue africane è solida e convincente, ma richiede investimenti culturali di ampio respiro.  Provando a sostituire “imperialismo” con “globalizzazione”, si resta inevitabilmente colpiti quando Ngugi scrive che “l’imperialismo è totalizzante: ha conseguenze politiche, militari, culturali, e psicologiche per tutta la popolazione del mondo. Potrebbe perfino condurre all’olocausto”. In altre parole il fenomeno del colonialismo ha segnato l’apogeo della “cultura unica”, della presunzione di imporre una propria visione del mondo agli altri. Il paradosso a cui si è andati incontro - una tendenza che in tempi di decolonizzazione si è anche accentuata - è che il mondo extraeuropeo si è adattato all’idea di civiltà sottosviluppata che l’europeo gli attribuiva. L’ignoranza e l’incapacità di concepire il mondo al di fuori di alcuni particolari valori hanno reso possibile un’incredibile sistema di relazioni (economiche, culturali) tra i paesi, tale da giungere, con una progressione spaventosa, ai dati di povertà attuali.

Inoltre questo libro è importante perché rivela pienamente il suo autore, per molto tempo da noi“sconosciuto”[6], definito da molti “scrittore estremista” per aver semplicemente difeso il valore della lingua nel suo contesto sociale dal mondo accademico occidentale e da molti altri scrittori africani;  tutte le sue opere si pongono in difesa della storia culturale africana come fonte di incitamento ad un cambiamento prima di tutto della mente. Mente colonizzata oggi con la globalizzazione, impresa ardua dunque da continuare, ma da lui tentata generosamente.

 



[1] Ngugi wa Thiong’o, poeta, scrittore, drammaturgo e saggista, nonché autore di alcune opere di narrativa per ragazzi. è una delle figure intellettuali di maggiore rilievo non solo del continente africano e si colloca tra i classici africani a fianco dei nigeriani Soyinka e Achebe, con cui condivide la vasta risonanza internazionale. Perseguitato a lungo dal governo kenyota per le sue idee e proposte culturali, attualmente insegna Letterature africane in diverse università statunitensi. Ha pubblicato numerosi libri. Tra gli altri, tradotti in italiano, ricordiamo Petali di sangue, Spostare il centro del mondo. La lotta per le libertà culturali, e Sogni in tempo di guerra.

[2] Nel 1994, più di 200 poeti, romanzieri, critici letterari, professori e studenti, provenienti da Africa, Asia, Europa e Nord America si sono riuniti presso il Campus di Penn State Berks, in Pennsylvania per una conferenza che celebrava gli scritti di Ngugi. La conferenza, intitolata Ngugi wa Thiong’o: Texts and Contexts,  aveva come obiettivo non solo una discussione sui testi, ma le questioni relative alla formazione di questi testi: storia, rivoluzione,  lingua, contatti interculturali.

[3] Il termine decolonizzazione che Ngugi considera il nucleo del suo discorso politico-letterario non è un termine da lui coniato, ma da lui utilizzato con nuovo impeto nel panorama letterario kenyota-africano. Usato per la prima volta dal tedesco Moritz Julius Bonn nel 1932 nel suo contributo all’Enciclopedia della scienze sociali per la voce “imperialismo”, è poi diventato di uso comune solo dopo la seconda guerra mondiale, specie tra gli anni ‘40 e ‘70, quando gli imperi moderni europei venivano smantellati. Il termine chiaramente indica il ritiro degli europei dalle colonie e viene, usato in senso più generale, come forma di resistenza, dissenso dall’ideologia e dalla mentalità coloniale.

[4] Anche perché, in accordo con la tradizione orale precoloniale, il narratore-scrittore delle opere letterarie africane si pone idealmente come guida e maestro della sua gente. Nel contesto del declino del colonialismo, questa funzione assunse naturalmente, quasi ovunque, connotazioni politiche. Lo scrittore si pose dapprima come critico della potenza imperiale, e poi come critico dei governi corrotti che si sostituirono in molti paesi dell'Africa agli europei nel periodo immediatamente successivo all'indipendenza. Non di rado gli scrittori africani pagarono personalmente il prezzo di questo impegno politico: alcuni con la prigione (i nigeriani Wole Soyinka e Achebe o lo stesso Ngugi), altri addirittura con la vita (il nigeriano Saro-Wiwa).

[5] La posizione di Ngugi, opposta a quella dei nigeriani Chinua Achebe e Wole Soyinka, che pur entrarono nel dibattito che opponeva lingue africane e lingue delle colonizzazioni europee ma produssero a latere degli scritti teorici una varietà di opere letterarie in inglese di straordinario livello, non restò mera provocazione, in quanto lo scrittore keniota abbandonò l’idioma anglosassone nella scrittura creativa dopo il 1977, anno del suo quarto romanzo, Petals of Blood, e per un periodo perseguì anche l’intento di scrivere saggistica solo in gikuyu o swahili.

[6] Sei anni fa, alla vigilia dell'assegnazione del Nobel per la letteratura (il 2010) cominciò a circolare insistente nelle redazioni culturali la voce che il premio sarebbe andato al kenyota Ngugi wa Thiong'o. In Italia ben pochi sapevano chi era e cosa avesse scritto Ngugi. I più avvertiti scoprirono, che alcuni testi narrativi di Ngugi erano, sì, stati tradotti in Italia alla fine degli anni ‘70 per opera della Jaca Book, già dagli esordi attenta al panorama culturale africano, ma che erano poi spariti, con l'eccezione di un romanzo, Un chicco di grano. E notarono, fra le opere uscite dalla circolazione, una raccolta di saggi edita da Meltemi nel 2000, che portava un titolo singolare e, in quella situazione, piuttosto calzante: Spostare il centro del mondo. Già, questo mondo così “globale”, così “interconnesso”, e tuttavia ancora per tanta parte così poco illuminato, così asimmetrico nei suoi rapporti di forze-culturali, editoriali.

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