Viaggio all'interno del mondo femminile somalo di Giuseppe Spedicato

Viaggio all' interno del mondo femminile somalo

di Giuseppe Spedicato

 

Alla memoria dell'amico Haji Aba Abukar 

 

 

Sommario

 

§         Premessa……………………………………….       pag.  4

§         Introduzione……………………………………              5

§         Viaggio all’interno del mondo femminile somalo         10

§         Poesie dell’esilio…………………………………         31
 

 

 

Premessa

 

 

Questo lavoro altro non è che il tentativo di riportare quanto mi raccontarono delle donne somale, residenti a Lecce, nel corso di circa dieci anni di frequentazioni (dal 1991 al 2001).

I loro racconti parlano del dramma della diaspora somala. Dell’incubo del vivere a Mogadiscio nei primi anni Novanta. Delle speranze che avevano nel trovare rifugio in Italia. Delle difficoltà incontrate nel paese di accoglienza. Del conflitto che provocava loro vivere a contatto con una società moderna.

Avverto il lettore che per decidere cosa e come riportare delle narrazioni di queste donne, mi sono basato solo sulle sensazioni che mi suscitavano i loro volti ed il tono delle loro voci.

Per garantire l’anonimato non sono stati riportati i veri nomi delle protagoniste.

 


 

Introduzione

 

 

Ho iniziato a frequentare la comunità somala residente a Lecce alla fine degli anni Ottanta. All’epoca era composta da sole cinque persone: la famiglia del mio amico Haji Aba Abukar. Poi con lo scoppio della guerra in Somalia, maggio 1990, la comunità contò ben presto più di cinquanta presenze. Erano quasi tutte ragazze tra i venti ed i trenta anni che lavoravano come collaboratrici domestiche o badanti a tempo pieno (24 ore su 24). La maggior parte, quindi,  viveva presso famiglie italiane. 

A partire dagli anni 1992 - 1993 la consistenza numerica della comunità iniziò a ridursi. Molte di queste ragazze e ragazzi proseguirono il loro progetto migratorio verso altri paesi europei, ma anche negli USA ed in Canada.  

Ho organizzato con loro tanti incontri e feste. Ricordo in particolare una festa di matrimonio del dicembre del 1995, organizzata in una sala della sede della O.n.g. CTM di Lecce (presso cui lavoravo). Gli sposi erano a Londra. La sorella della sposa, Hakima, mi spiegò che il matrimonio era stato celebrato giorni prima a Mogadiscio tra la sua famiglia e quella di suo cognato. Fummo in venticinque a partecipare alla festa. Venti donne e cinque uomini. Io ero l’unico italiano. Hakima, aiutata da alcune amiche, preparò i cibi per la cena: bariis (riso condito con carne, cipolla, uva candita, aglio e cardamono), sambus (frittelle a base di farina, carne tritata o pesce, cipolla e peperoncino),  bataati (crocchette di patate fritte con uova sode), xalwo (marmellata a base di zucchero, burro, cardamono e succo d’arancia o di pompelmo), buskut (biscotti preparati con farina, zucchero, uova, cardamono, vaniglia e burro). Alla fine della cena si bevve  lo shaahi (tè con zenzero, cardamono e zucchero).

Le feste erano un’occasione per stare insieme, mangiare, cantare e danzare ma erano anche l’occasione per parlare. Si parlava per ore della guerra nel loro paese, delle sue cause,  della loro vita in Somalia ed in Italia, delle loro paure e delle loro speranze.

 

Prima di lasciar parlare le protagoniste di questo lavoro, propongo una lettura degli argomenti trattati.

 

Conflitto armato in Somalia

Non sempre si tiene conto che attualmente la comprensione dei conflitti è un’operazione ben più complessa rispetto ad alcuni anni fa quando, ad esempio, si riteneva che i conflitti nei paesi in via di sviluppo fossero delle fasi transitorie che interrompevano solo momentaneamente il percorso dei detti paesi verso lo sviluppo e la modernità. Nel mondo venuto fuori dalla guerra fredda invece, tali conflitti devono essere invece considerati come il tentativo di creare nuovi sistemi politici, dove la grave situazione in cui versano le periferie del mondo del mondo non va più vista come una emergenza temporanea, ma un adeguamento ad una nuova situazione che non sappiamo ancora dove porterà[1].

Se si esamina il conflitto che ha provocato la disintegrazione dello stato somalo, non possiamo non notare che le sue cause sono una commistione di cause interne ed esterne al paese.

La Somalia, a differenza della maggior parte dei paesi africani, ha da sempre potuto contare su una popolazione che condivideva e condivide la stessa religione, la stessa lingua e la stessa tradizione pastorale. Nonostante ciò il paese condivide, con tutti i paesi dell’Africa subsahariana, una struttura sociale basata sul clan che è rimasta impermeabile a tutte le vicende storiche che ha attraversato il paese (compresa la colonizzazione italiana). Questa struttura sociale clanica, nel passato, non è mai stata tuttavia, causa di guerre aperte tra i vari clan. Questi hanno dato vita a conflitti, anche sanguinosi, originati però da dispute sul controllo di pozzi per l’approvvigionamento d’acqua o di pascoli e non per il tentativo di uno dei clan di sottomettere gli altri. Possiamo quindi dire che il sistema Somalia ha retto bene sino a quando, nel 1969, un colpo di stato militare portò al potere il generale Siad Barre. Questi instaurò nel paese un sistema dittatoriale ed inaugurò una nuova politica che portò in un ventennio al disfacimento dello stato somalo. Siad Barre per conservare il potere non esitò a scatenare una guerra contro l’Etiopia (per impossessarsi dell’Ogaden, regione sotto lo stato etiopico, confinante con la Somalia e popolata di genti di etnia somala). La guerra provocò numerosissime vittime, l’impoverimento del paese e l’umiliazione della sconfitta. Siad Barre non esitò inoltre, ad esasperare i disaccordi tra i clan. Tutto ciò ha determinato la guerra civile che insanguina ancora oggi il paese.

Non sono però mancate cause esterne che hanno favorito il conflitto somalo. Tra queste possiamo citare il sostegno ricevuto, sino all’ultimo, da Siad Barre da parte del nostro paese.

 

Accoglienza in Italia della comunità somala

all’epoca dei fatti raccontati dalle donne somale, collaboravo con una Ong, CTM di Lecce, dove avevo il ruolo di coordinatore di un Segretariato sociale rivolto ai cittadini stranieri. Lavorando quindi, con tutte le comunità immigrate presenti nel Salento  constatai che far valere i diritti della comunità somala (comunità emigrata non per ragioni economiche, ma a causa di un conflitto armato) era particolarmente difficoltoso. Nel Salento, nei primi anni Novanta, le attenzioni erano rivolte esclusivamente ai cittadini albanesi (inoltre in quel periodo l’Italia considerava veri rifugiati solo gli albanesi e coloro che fuggivano dalle dittature dell’America Latina) e quindi la comunità somala,  nonostante fosse composta soprattutto da donne, nonostante fuggisse da un paese in guerra, nonostante la Somalia fosse una nostra ex colonia, era in buona sostanza abbandonata al suo destino.

Ricordo che nell’inverno del 1991 giunse a Lecce un nutrito gruppo di donne somale abbigliate con i loro abiti tradizionali, insufficienti a ripararsi dal freddo, che avevano come bagaglio qualche busta di plastica con dentro pochissime e povere cose. Erano prive di tutto.  Fortunatamente il mio amico Haij, già residente a Lecce, aveva preso in affitto per loro un appartamento che era però privo di riscaldamento e che aveva come mobilio solo qualche letto senza lenzuola e coperte. Queste donne stavano letteralmente morendo di freddo e di fame. Fui quindi costretto ad organizzare una raccolta di coperte, di indumenti invernali e di cibo per evitare il peggio. I donatori furono privati cittadini e la Caritas di Lecce.       

 

 

Rapporto uomo - donna

Dai racconti delle donne somale l’immagine che emerge dell’uomo somalo è piuttosto negativa: i  somali presenti in Italia, ma anche in altri paesi europei, per sopravvivere spesso contano sul sudore delle loro donne piuttosto che su quello della propria fronte. Del sostentamento dei figli rimasti in patria si interessano solo le madri.

In Somalia invece, era sostanzialmente l’uomo a produrre ed a gestire il denaro e questo ribaltamento di ruoli, avvenuto con l’emigrazione, sta causando rilevanti tensioni tra uomini e donne. Questo fenomeno è addebitabile anche al fatto che, in Somalia, la ventennale dittatura di Siad Barre non ha provocato solo guerre ed una grave recessione economica, ma ha anche alterato la personalità della popolazione, soprattutto di quella più giovane, ed ha fortemente compromesso i valori tradizionali di riferimento[2].

     

Rapporto padre - figlia

L’emigrazione sta provocando tensioni anche nei rapporti tra figlie e padri (oltre a quelle tra mogli e mariti e tra sorelle e fratelli).

Quando in Somalia iniziò il conflitto armato tutti tentarono di fuggire, ma per farlo occorreva avere disponibilità economiche. Le destinazioni più ambite erano Europa ed USA, ma erano anche le più costose. Le famiglie quindi, il più delle volte, hanno preferito investire le loro disponibilità nel permettere ai loro figli e figlie in età da lavoro di raggiungere l’Europa o gli USA, mentre gli anziani ed i bambini rimanevano in patria oppure fuggivano in Paesi confinanti la Somalia. Si voleva così garantire la sopravvivenza degli anziani e dei bambini grazie alle rimesse dei figli emigrati.  Però, come è stato già detto, una volta all’estero, ad inserirsi nel mondo del lavoro sono state soprattutto le donne e quindi coloro che sono rimasti in patria o che sono fuggiti in Paesi confinanti la Somalia,  possono contare solo sulle rimesse delle figlie. Le lavoratrici somale infatti,  inviano i loro risparmi presso le famiglie dei propri genitori anche quando sono sposate perché prima di emigrare hanno affidato i loro figli alle famiglie dei loro genitori e non a quelle dei loro mariti. I loro risparmi quindi, il più delle volte, sono gestiti dai loro padri[3].

Le donne somale emigrate però non lavorano duramente solo per sfamare i loro genitori ed i loro figli, ma hanno anche la speranza di costruirsi un futuro migliore in patria[4]. Molte di loro si augurano di poter ritornare in Somalia[5]. Vorrebbero quindi risparmiare dei soldi per acquistare, al ritorno in patria, un’abitazione ed altre proprietà. Tale loro speranza viene però resa irrealizzabile perché in Italia sono pressate da continue richieste di denaro da parte dei loro fratelli o parenti disoccupati, in Somalia accade invece che spesso i loro soldi vengano utilizzati dai loro padri per acquistare beni superflui ma anche per sposare giovani donne[6]. Le donne somale emigrate accusano quindi i loro padri di sperperare i loro risparmi e di far soffrire le loro madri sposando altre donne.

 

Rapporto con società di accoglienza

Quando si tratta dei loro rapporti con noi italiani, che sono soprattutto con i datori di lavoro, non poche raccontano di aver subito comportamenti intolleranti e razzisti. È vero che in questo lavoro viene riportata solo la voce delle lavoratrici somale ma non per questo il fenomeno non deve destare preoccupazioni.

 

Fondamentalismo religioso

In Somalia, anche a causa della guerra, ha preso piede un islam fondamentalista. Tale fenomeno è stato fortemente incentivato dai collegamenti di alcuni signori della guerra somali con la giunta militare e fondamentalista all’epoca al potere in Sudan. In Somalia “operano varie cellule di fondamentalisti, tutte più o meno legate ad Al Qaeda e tutte in collegamento tra loro”[7]. Tali cellule   gestiscono scuole per aspiranti kamikaze e propagandano l’odio e l’intolleranza nei confronti dell’Occidente ritenendolo colpevole di una sorta di complotto ai danni dell’islam e quindi anche della Somalia.

 


 

 

Viaggio all’interno del mondo femminile Somalo

 

 

A)                IL CONFLITTO ARMATO

 

           UBA: ”Abbiamo abbandonato il nostro paese a causa della guerra e partendo abbiamo lasciato figli (anche quattro o cinque) e parenti. Siamo fuggite per poterli sostenere. La sopravvivenza dei nostri parenti e soprattutto dei nostri figli dipende dai nostri aiuti. Io non sono sposata e non ho figli, ma sono dovuta fuggire ugualmente da Mogadiscio a causa del conflitto in corso. In Somalia anche i ragazzini erano in possesso di armi e queste  hanno ben presto modificato la psicologia di tutti, specialmente dei più piccoli. Ad ogni minimo litigio si sparava, ovunque vi erano cadaveri. Io dormivo con una pistola sul comodino perché la confusione politica e la fame che regnavano nella città, avevano favorito il formarsi di bande che saccheggiavano, stupravano e uccidevano. La mia famiglia aveva un negozio con annessa l’abitazione e temevamo che entrassero dei ladri per derubarci. Siamo poi stati costretti a cessare la nostra attività commerciale. In Somalia non esiste più l’autorità dello Stato. I gruppi armati agiscono indisturbati e chi ne subisce le conseguenze maggiori sono i più indifesi: bambini, anziani e donne”.

 

           ASHA: “La città era diventata un cimitero, con la differenza che i cadaveri non venivano sepolti. Molte donne, la sera, venivano condotte nelle moschee perché lì era più facile difenderle dagli stupri. Si moriva anche a causa delle malattie, che si diffondevano perché c’erano cadaveri per strada, gli ospedali non funzionavano e mancavano medicine e l’acqua. Molti bambini morivano a causa di infezioni, molte donne partorivano bimbi morti, molti impazzivano…. Le scene che più mi sono rimaste impresse nella mente sono quelle di cadaveri abbandonati per strada che venivano mangiati da cani, gatti e finanche da galline”.

“Il pericolo maggiore veniva però da bande di giovanissimi che saccheggiavano ed uccidevano anche per futili motivi o senza ragione. Queste bande agivano quasi sempre con il consenso dei signori della guerra, che le utilizzavano per assicurarsi il controllo del territorio. Molti giovani commettevano atrocità anche perché sniffavano colla, masticavano qaat[8] e bevevano alcool. Queste sostanze annientano la sfera morale e quindi rendono possibile ogni cosa. Questi giovani ormai non seguono più nessuna regola e non hanno nessun valore religioso”.

“Ho avuto parenti che sono stati uccisi da queste bande, ma ne ho altri che sono entrati a  farne parte. Ho tanta paura per quello che gli può capitare, ma anche per quello che possono fare….”.  

 

            FATIMA: “Ciò che a me preoccupa di più è che in Somalia la situazione continua ad essere incerta e pericolosa. Io ho perso ben altro che un negozio a causa della guerra. Nel 1991 è morto mio fratello, aveva solo sedici anni, nel 1992 è morta una delle mie sorelle, aveva diciotto anni, e nel 1993 ne è morta un’altra che aveva vent’anni. Io ero particolarmente legata a loro perché da primogenita avevo il compito di badare alla loro educazione ed ero diventata un po’ la loro mamma”.

            “Mio fratello era molto buono. Ogni tanto mi faceva arrabbiare, ma quando arrivava la sera, prima di andare a letto non dimenticava mai di scusarsi e mi pregava di perdonarlo”.

 

          AYAN: “Tutte noi abbiamo avuto numerosi lutti in famiglia. Pensa che almeno un terzo della nostra popolazione è stata uccisa. I primi a pagarne le conseguenze sono stati i giovani, perché sono stati loro a dare il via alla ribellione al regime. Dopo sono iniziati i bombardamenti. Siad Barre dalla sua residenza di Mogadiscio, Villa Somalia, ha fatto bombardare la città. Oltre ai bombardamenti si subivano i saccheggi, gli stupri e le uccisioni da parte di bande armate. Si viveva nel terrore”.

            “A Mogadiscio tutti erano armati. Le armi, sino a poco tempo fa, si vendevano anche per strada come se fossero pomodori. Ti chiederai dove si è preso il denaro per comperare le armi. Noi sappiamo che la famiglia di Siad Barre ha accumulato una fortuna grazie anche ai fondi provenienti dalla cooperazione internazionale. Devi sapere che i vostri aiuti sono finiti nelle tasche dei nostri e dei vostri politici ed infine nelle banche svizzere. Alla gran parte di noi sono arrivate solo le briciole. Chi era al potere si è impossessato degli aiuti e li ha venduti al popolo”. 

            “Altri fondi utilizzati per l’acquisto di armi provengono dalle donazioni di uomini d’affari ed altri sono stati raccolti grazie a collette organizzate dalle famiglie in lotta. Molti di noi, emigrati all’estero, siamo stati contattati da soggetti appartenenti alle diverse fazioni in lotta  che ci hanno detto: - stiamo raccogliendo soldi per difendere la tua famiglia - Ogni versamento è stato registrato in un libro. Molti hanno versato per paura di ritorsioni contro i loro familiari rimasti in Somalia. Altri perché i loro cari erano stati uccisi dalla parte avversa. Non sono mancati coloro che si sono rifiutati di pagare. Con quanto raccolto hanno comperato armi”.

 

           NADIIFA: “Ricordo perfettamente i bombardamenti. Quando Siad Barre faceva bombardare la città io pregavo Allah che non mi facesse morire perché non sono sposata e non ho figli. Per noi è una vera disgrazia non tanto morire, quanto morire senza aver avuto dei figli”.

 

           MUNA: “Voglio ricordarvi a proposito del nostro ex Presidente, che qualcosa di buono l’ha fatta. E’ stata sua moglie, Khadigia, che si considerava la presidentessa delle donne Somale, a propugnare la parità tra uomo e donna. Incontrava gruppi di donne alle quali spiegava che non era giustificata alcuna differenza di diritti tra i sessi. Grazie a lei le donne incominciarono ad uscire da casa senza il consenso dei mariti (i quali non potevano opporsi agli incontri organizzati da Khadigia, moglie del Presidente) e ritornavano nelle loro famiglie dopo molte ore di assenza. Certo questo comportamento provocò non poche tensioni nelle famiglie, ma le donne cominciarono a svegliarsi”.

 

SULTHANA: ”Muna per favore lascia stare Khadigia! La signora ora vive tranquilla e ricca negli Stati Uniti con la sua famiglia grazie ai soldi che hanno rubato.”

 

            ZAHARA: “ Non solo lei vive all’estero indisturbata e ricca, anche alcuni figli di Siad Barre vivono indisturbati in Svizzera mentre io in Svizzera non sono ben accetta. La motivazione è che loro hanno le disponibilità economiche per soggiornare lì mentre io no. Le autorità Svizzere non possono non sapere che loro sono divenuti ricchi perché hanno rubato ed io sono povera perché mi hanno derubata”.

 

           FATIMA: ”Molti Italiani pensano che in Somalia c’è la guerra perché siamo razzisti e fondamentalisti islamici, ma non è così. Nel nostro paese esistono fazioni che lottano per la conquista del potere, chi la spunterà potrà godere di un relativo benessere mentre gli altri…Per questo motivo la lotta  è così aspra”.

 

            SAIDA: ” Io so bene come vanno queste cose, mio padre è un politico o meglio s’interessava di politica. Si è laureato in Romania, è un ingegnere… per lui è stata sempre più importante la politica del destino dei suoi stessi figli. I guai della Somalia derivano dai politici e dai businessman. I primi pensano solo al potere, gli altri solo al denaro. Loro non hanno cuore e, non essendo donne, non hanno figli a cui pensare.”

            “Spesso mi capita di non riuscire ad addormentarmi la notte. Rifletto su ciò che ci è successo ed a quello che ci sta accadendo. Mi rendo conto di essere cambiata dentro”.

 

RUKIA: “Il non riuscire a dormire serenamente per noi è normale. Se poi ci capita di stare senza lavoro è ancora peggio perché non si ha niente da fare e si pensa, si continua a pensare senza interruzione. Si ricorda il passato, quando si era felici con la nostra famiglia, si pensa alla guerra, ai morti, ai tanti morti che abbiamo visto, alle speranze che si avevano nel venire in Italia…”.

 

NAIIMA: “Altro problema è che prima di venire in Italia le madri partendo hanno affidato i figli alle loro famiglie, raramente a quelle dei mariti. I padri che aiutano concretamente i propri figli sono una minoranza, generalmente sono le madri a lavorare ed a sacrificarsi per loro”.

 

           FATIMA: ”Per quanto riguarda il nostro razzismo, voglio farti notare che non è mai stato eletto un Papa nero, e che forse il tuo paese darà il diritto di voto ad italiani che mancano dall’Italia da quarant’anni, ma non agli immigrati anche se sono qui da più di dieci anni, che lavorano e pagano le tasse. Bada bene, con ciò non voglio dire che non abbiamo niente da imparare da voi italiani.… anzi, il contatto con la cultura europea ci ha molto arricchito”.

            “Mi è capitato più volte di constatare che mentre voi passate il tempo a divertirvi guardando le partite di calcio in TV, noi, in Somalia, passiamo il tempo massacrandoci”. 

            “Anche molte donne hanno combattuto e ucciso in Somalia. Anche tu saresti disposto ad uccidere per salvare la tua famiglia e le tue condizioni di vita”.                

 

FAWZIA: ” Nel nostro paese, non esiste una tradizione di stato unitario. La Somalia è un Paese di pastori, dove le decisioni vengono prese dai capifamiglia, che si riuniscono in assemblee. La nostra società è costituita da gruppi familiari e da raggruppamenti di gruppi familiari come i Daarood, gli Isaaq, gli Hawiye, i Dir ed i Rahanwayn-Digil. Quando abbiamo ottenuto l’indipendenza, ci è stata imposta un’organizzazione statale come se il nostro paese fosse uno stato europeo e non si tenne conto delle nostre esigenze. Ai capifamiglia per esempio, non fu assegnato nessun potere. Forse è anche per questo che Siad Barre, quando divenne Presidente, ha potuto accentrare tutti i poteri nelle sue mani. Ha poi posto ai ruoli di comando del paese solo uomini appartenenti ai Marreham, sottogruppo dei Daarod. Questo perché lui era un Daarod. Ciò provocò il risentimento degli altri gruppi e quindi la guerra civile”.

           “Voglio aggiungere che in Somalia ultimamente si può godere di una certa tranquillità, specialmente nella zona di Mogadiscio dove è stata introdotta la shari’a, la legge islamica. Le donne somale sono ora più deboli, hanno minori diritti, e ciò non fa certo piacere, ma bisogna considerare che finalmente si può uscire da casa senza essere derubati o rischiare di essere uccisi. Secondo la legge islamica, infatti, chi ruba subisce l’amputazione della mano. D’altra parte per molti anni abbiamo avuto un regime laico, ma è stato un fallimento, vigevano solo le regole della corruzione. Per lo meno ora vi sono delle regole che vengono fatte rispettare ed è possibile instaurare un minimo di vita civile. Purtroppo le donne devono portare rigorosamente il velo, e le adultere rischiano la lapidazione. Sono regole molto dure”.

 

RUKIA: “Il ritorno alle tradizioni religiose dovrebbe consentire una vita migliore. La nostra religione, come la tua, condanna chi uccide e chi ruba ed i somali hanno ucciso e rubato perché si sono allontanati dalla religione”.

 

FHAISA: “Io non sono così ottimista. Inoltre, la legge islamica renderà più difficile il ritorno in patria di molti di noi. I più istruiti rimarranno all’estero”.

 

SHAMSA: ”Io penso che nel nostro Paese c’è la guerra forse perché noi somali siamo poco istruiti. D’altra parte come possiamo esserlo se voi italiani durante il periodo coloniale non avete costruito scuole? Siete stati molto furbi, ci avete fatto rimanere ignoranti. I nostri nonni raccontano che non potevano frequentare la scuola oltre la terza elementare. La Somalia del Nord invece, che è una ex colonia inglese, si trova in condizioni migliori delle nostre perché gli inglesi hanno adottato una politica coloniale un tantino migliore. Non voglio dire che la colpa è tutta vostra. I nostri politici hanno pensato solo a rubare ed a fare guerre ed i paesi islamici non fanno nulla per aiutarci, anzi…”.

            “Voglio aggiungere che ho notato che voi non avete alcuna conoscenza del mio Paese e di noi somali, noi veniamo chiamati marocchini come tutti gli altri immigrati. Per voi un somalo ha la stessa fisionomia di un senegalese o di un marocchino. Non ci sapete distinguere. Anche noi però, pensandoci bene, dell’Italia non conoscevamo nulla”.

 

 

B) LA FUGA ALL’ESTERO

 

FHARIA: “Sto pensando a tutto quello che ho perso a causa di questa guerra assurda. Quando ero a casa svolgevo attività di commercio. Acquistavo da grossisti oggetti d’oro provenienti dall’Arabia Saudita e li rivendevo al dettaglio. Era merce molto buona, fatta con oro di ventuno carati e non di diciotto come le collanine e i bracciali venduti nelle vostre gioiellerie. Stavo bene, non mi potevo lamentare. Poi tutto è cambiato. È scoppiata la guerra e sono fuggita. Ho preso una nave, a Mogadiscio, e sono sbarcata nello Yemen. Da qui con un aereo sono andata in Egitto, poi, sempre in aereo, dal Cairo sono partita per  Roma. Prima di allora non mi ero mai allontanata neanche da Mogadiscio”.

 

DEEGA: “Io ho speso dodici milioni di lire per venire in Italia, i soldi li ho ricevuti in prestito da mia cugina che lavorava e lavora tuttora a Roma. Ho viaggiato in aereo: Mogadiscio – Gibuti, (a Gibuti ho dovuto soggiornare per tre mesi e lì la vita è molto cara), Gibuti – il Cairo, il Cairo – Roma. Può sembrare eccessivo spendere dodici milioni per andare da Mogadiscio a Roma, ma coloro che fuggono sono soggetti ad essere truffati ed a me è capitato due volte. La prima volta ero già a Gibuti, è stato un mio connazionale che avendo ricevuto dai miei parenti mille e cinquecento dollari per consegnarmeli se li è tenuti per se. La seconda volta è stato un italiano. Lavorava presso una rappresentanza diplomatica, promise a mia cugina di aiutarmi ad ottenere il visto per entrare in Italia in cambio di tremila dollari. Ma una volta avuto il denaro non ha mantenuto la promessa. Sono in tanti ad aver speculato, e continuano a farlo, sulla nostra pelle. Anche se fuggiamo da un Paese in guerra non siamo molto agevolati. Pensa che dobbiamo lo stesso procurarci i documenti per poter espatriare. Prova ad immaginare di doverti far rilasciare un passaporto in un Paese dove tutto è stato distrutto e nulla funziona…”

 

SULTHANA: “Io studiavo nello Yemen, volevo diventare ostetrica. A dire il vero ero fuggita dalla Somalia perché mio padre voleva obbligarmi a sposare un suo amico, un uomo benestante della sua stessa età. Lì mi trovavo bene, ma con la guerra del Golfo la situazione divenne critica perché lo Yemen si stava preparando ad entrare in guerra come alleato dell’Iraq. Tutti coloro che erano personale sanitario o che si apprestavano a diventarlo, cominciarono ad essere tenuti sotto controllo dalle autorità yemenite perché si temeva che potessero espatriare. Le autorità yemenite volevano evitare il rischio di trovarsi con personale sanitario insufficiente nell’imminenza di una possibile guerra. Riuscì comunque a ritornare in Somalia, ma neanche lì si poteva vivere. Il conflitto armato si era esteso ed intensificato. Sono quindi stata costretta a venire in Italia. Il mio viaggio però non è ancora finito, per me, come per molte mie compagne, il tuo è un paese di passaggio. Appena possibile andrò in Inghilterra. Spero un giorno di ritornare in Somalia”.

 

 

C) LA VITA IN ITALIA ED IL RAPPORTO CON IL PAESE DI ORIGINE

 

AYAN: “Da due anni lavoro presso una signora anziana, con la quale non ho alcun dialogo. Ma al di là del mio caso personale, il maggior problema che abbiamo qui è quello degli alloggi[9]. Siamo costrette a vivere anche in dieci persone in abitazioni fatiscenti dove rischiamo di ammalarci perché sono fredde ed umide. Le stufe non ce le possiamo permettere perché consumano troppa energia elettrica. Queste case sono talmente umide che la sera quando andiamo a letto troviamo umide anche le coperte, come gli abiti che conserviamo negli armadi. Nonostante ciò il prezzo che paghiamo per poterle prendere in affitto è molto alto. Con lo stesso prezzo una famiglia italiana prende in affitto una reggia. Purtroppo sono in pochi ad affittare abitazioni a noi stranieri”.

            “Un’altra cosa che mi da molto fastidio è che qui molti pensano che le donne nere siano tutte delle prostitute. Forse non sanno che la nostra religione, l’islam, condanna la prostituzione e quasi tutte le ragazze somale rispettano la religione.

            Ci sono uomini anziani, alcuni dei quali ricchi, che ci propongono di andare a vivere con loro o di divenire loro amanti. Noi rifiutiamo, ma vi sono donne di altre comunità immigrate che accettano e vivono agiatamente senza lavorare. Alcune di loro vivono in abitazioni che hanno avuto in dono dai loro amanti…”.

 

MYRIAM: “Io non riesco a sopportare il lavoro che siamo costrette a fare qui. Lavoriamo tutte come collaboratrici domestiche o badanti a tempo pieno. Sembra di essere in prigione. Io non posso avere una vita come tutte le persone normali. Sto sempre in casa[10]. Esco per qualche ora due pomeriggi la settimana, ma certe volte rinuncio ad uscire, soprattutto d’inverno, perché fuori fa freddo e non so dove andare”.

            “Assisto una donna anziana con la quale non riesco ad avere alcun dialogo. Dormiamo, ormai da anni, nella stessa stanza. Molte notti non riesco a dormire. Ho paura che la signora possa morire. C’è poi il problema di lavorare in casa di cristiani e quindi sono costretta a stare a contatto della carne di maiale e del vino ed ho difficoltà a trovare il tempo per le mie preghiere, e da quando sono qui sento maggiormente il bisogno di pregare. Detto questo non mi stancherò mai di ringraziare l’Italia perché ci ha dato la possibilità di salvarci”.

          “Penso molto alla mia famiglia, al mio paese… Penso anche che non sono sposata e vorrei farmi una vita, ma come faccio a sposarmi ed avere figli? Ed intanto il tempo passa e tra qualche anno avrò trent’anni. Sono anche preoccupata perché lavoro sempre ma non riesco a mettere da parte neanche una lira. Mando tutti i miei soldi ai miei genitori…Come farò a crearmi un futuro migliore?”.

            “Alcune di noi stanno iniziando a comportarsi come voi europei. Quello che guadagnano è loro ed ai genitori non danno nulla. Non pensano alle loro famiglie. Si comprano vestiti eleganti, gioielli e riescono anche a risparmiare del denaro. Forse fanno bene perché così quando ritorneranno in Somalia potranno comprarsi una casa e vivere bene”.    

 

SHAMSA: “Ma che dici sei impazzita? Se ci comportiamo così che ne sarà delle nostre famiglie? Gli europei non amano molto i loro genitori e li mettono negli ospizi, Allah li perdoni, ma noi non abbiamo neanche gli ospizi. Quando queste ragazze ritorneranno a casa dei loro genitori, ammesso che li trovino  ancora vivi, questi non le accoglieranno più. Non possiamo tradire la legge di Allah”.

 

MYRIAM: “E’ vero ciò che dici, ma lo sai anche tu che certe volte con i soldi che mandiamo a casa comprano televisori, gioielli, vestiti eleganti e si pagano viaggi alla Mecca e quando noi ritorneremo non avremo nulla del nostro lavoro”.

 

SHAMSA: “Tu dici questo perché non hai figli, io con i miei soldi cresco i miei figli e se mia madre li usa anche per comprarsi qualche vestito o qualche gioiello io sono contenta lo stesso perché io a mia madre voglio molto bene”.

 

MYRIAM “A volte penso che noi non dovremmo mandare soldi a casa anche per un’altra ragione: senza il nostro denaro la guerra finirebbe subito. I signori della guerra continuano a fomentare la guerra perché è grazie ad essa che sono diventati ricchi e potenti. Più la guerra dura più diventano ricchi e potenti. Tu ti chiederai – dice rivolgendosi a me – come si fanno i soldi. E’ molto semplice. In Somalia tutti sono costretti a comprare armi per difendersi e queste le vendono loro, signori della guerra, inoltre tutti devono comprare da vivere e l’intero settore del commercio è soggetto al loro controllo. E’ ovvio che la gran parte di coloro che acquistano armi e cibo lo fanno grazie alle nostre rimesse, per questo penso che se noi non inviassimo lì i nostri soldi….”.

 

            Chiedo di sapere come fanno ad inviare i loro risparmi ai loro parenti in Somalia, considerato che lì non funziona né il servizio postale né quello bancario. Dopo aver ascoltato più ragazze comprendo che utilizzano due differenti modalità.

            La prima consiste nell’inviare il denaro presso banche di Gibuti o dello Yemen, su conti correnti di parenti o amici fidati (si tratta di commercianti che svolgono il loro lavoro tra questi paesi e la Somalia) che poi si occupano di farlo pervenire ai destinatari finali.

            La seconda modalità consiste nel consegnare il denaro a somali che svolgono attività di commercio tra l’Italia e la Somalia. Questi, infatti, quando sono nel nostro paese visitano tutte le comunità somale presenti nelle differenti città e molti affidano loro i risparmi per consegnarli ai  familiari rimasti in patria. Chi consegna  il denaro, per avere il riscontro che questo arrivi effettivamente a destinazione,  registra su un’audiocassetta, alla presenza del commerciante, un messaggio: il proprio nome, il giorno di consegna, il nome del commerciante a cui si consegna il denaro, la somma consegnata, il nome del destinatario. Il commerciante completa il messaggio confermando il tutto e dichiarando di assumersi l’impegno, giurando su Allah, di consegnare la somma ricevuta al destinatario. L’audiocassetta viene consegnata al commerciante che la porta con sé in Somalia. Questi al suo ritorno in Italia deve far ascoltare, a chi gli ha consegnato il denaro, la registrazione della voce del destinatario che dichiara di aver ricevuto la somma. Si ha così la prova che il parente ha ricevuto i soldi.

            Questi commercianti, che da alcuni sono chiamati banche viaggianti, ricevuti i risparmi dei loro connazionali affermano di investirli nell’acquisto di merci: generi alimentari e lamiere (utilizzate per ridare un tetto alle abitazioni danneggiate) che poi rivendono in Somalia. Così facendo riescono a restituire il denaro avuto in prestito e ad ottenere lauti guadagni.

 

            SAMSAM: “Io sono molto preoccupata per i miei figli. Ho una bambina di dieci anni ed un bambino di sette anni che non vedo da un sacco di tempo. Notti fa ho fatto un brutto sogno: ero ritornata in Somalia e recatami a casa di mia madre, l’ho abbracciata ed ho chiesto dei miei figli. Lei mi ha risposto che erano a scuola. Ci sono andata subito. Non vedevo l’ora di vederli. Sono arrivata a scuola, ho aperto la porta della loro aula e li ho visti, il cuore mi batteva così forte che sembrava dovesse scoppiarmi in petto, ma quando mi sono avvicinata per abbracciarli il maschietto si è messo a piangere per lo spavento, non mi ha riconosciuta. La bambina invece, mi ha riconosciuta ma non mi ha permesso di abbracciarla e mi ha detto: mi hai lasciata sola per anni ed ora non ti considero più la mia mamma. Mi sono svegliata in preda al panico e non sono più riuscita a riaddormentarmi. I miei bambini vivono con mia madre, e temo che ormai vedano in lei la figura materna e chissà se riuscirò a riconquistare il ruolo di madre con loro”.

            “L’altra mia grande preoccupazione è che nonostante il lavoro ed i sacrifici che sto facendo qui, quando ritornerò nel mio Paese lo farò senza portare un dollaro. Ritornerò povera, non potrò costruirmi una casa e non potrò offrire nulla ai miei figli. Devi sapere che tutto ciò che guadagno lo invio a mia madre e per me non tengo nulla. Mia madre con quei soldi pensa ai miei figli, ma anche ai figli di alcune mie sorelle e soprattutto di alcuni miei fratelli. Con quello che le mando sfama almeno dieci bambini. Ciò non mi dispiace, ma quando ritornerò in Somalia…”.

            “Alcune mie connazionali sono ancora più sfortunate di me. Il denaro che hanno inviano a casa è stato utilizzato dai loro padri per sposare delle donne molto giovani. Queste ragazze hanno fatto degli enormi sacrifici, privandosi di tutto, pur di risparmiare ma le loro rinunce sono servite solo a rendere infelici le loro mamme”.

 

            ZAHARA:      “Mi mancano tanto i miei figli. Vivono con mia madre. Non ne ho notizie da tre mesi e non li vedo da quasi tre anni e chissà quando li vedrò…”.

            “Non sono riuscita neanche a registrarli sul mio passaporto. Al Consolato mi hanno chiesto due milioni di lire per registrarli. Uno per ogni figlio. Dalla Somalia non è possibile avere certificati così i funzionari dei nostri consolati e delle nostre ambasciate godono di ampia discrezionalità nel rilascio dei nostri documenti”.

 

 

 

D) IL RAPPORTO CON GLI ITALIANI

 

SAIDA: “E’ da due anni che vivo qui, ma non ho ancora incontrato, a parte te e pochi altri,  tuoi connazionali che non hanno problemi a stare con noi, a mangiare il nostro cibo…  Noi cerchiamo di essere gentili con tutti. Se entrano nelle nostre case cerchiamo di essere ospitali, ma loro non ci invitano mai nelle loro abitazioni. Sono disponibili a donarci delle cose: frutta, abiti (usati), ma pochi cercano di esserci amici. Molti poi non sanno neanche dove si trova il nostro paese e che è stato vostra colonia per tanti anni”.

            “La signora presso cui lavoro mi tratta come se fossi una bambola. Devo essere sempre sorridente, perché a lei piace essere circondata da persone felici. Finge di non sapere che io a Mogadiscio ho dovuto lasciare due figli. Ora è mia madre ad occuparsi di loro. Il mio ex marito non si interessa di loro e mio padre….. Molte notti non riesco a dormire per la preoccupazione di cosa può essere capitato ai miei figli. Vivere a Mogadiscio è molto pericoloso”.

            “La signora se ha ospiti a cena per far sfoggio della sua bontà e della sua tolleranza mi fa sedere a tavola con loro e si comporta come se fossi sua sorella, ma non appena gli ospiti vanno via ridiventa la mia padrona. Tocca solo a me ripulire tutto. Quando non vi sono ospiti non posso mangiare mai insieme a lei ed alla sua famiglia (ha un marito ed una figlia), devo mangiare o prima o dopo di loro. Mai avrei potuto immaginare di fare questa vita. Come ti ho già detto mio padre è ingegnere ed in Somalia godevo di un certo benessere”.

 

HAKIMA: “Io lavoro presso una famiglia che pretende che io smetta di coprirmi il capo con il velo. All’inizio pensavo che fossero persone poco tolleranti verso l’islam, poi ho capito che la religione non c’entra nulla. La signora considera poco elegante il velo e poiché la sua casa è frequentata, lei dice con fierezza, da persone altolocate, desidera che io indossi abiti occidentali per non farle fare brutte figure con i suoi ospiti”.

 

SULTHANA: “Io sono stata licenziata giorni fa perché sono andata a Roma a trovare mia sorella, che è appena arrivata dalla Somalia, e sono ritornata dopo cinque giorni. Avevo promesso alla signora che sarei mancata solo due giorni. Io però non vedevo mia sorella da due anni ed avevamo molte cose da raccontarci: dei nostri genitori, dei nostri parenti che sono ancora vivi, di quelli che sono morti, come dei tanti amici che non ci sono più. Ma questo alla signora non importava e mi ha licenziata”.

            “Poco tempo fa una mia conoscente italiana, sapendo che ero disoccupata, mi ha portato un annuncio pubblicato su un quotidiano locale: Cercasi donna per assistere signora anziana.  Ho telefonato, si trattava di una famiglia molto facoltosa, ma quando ho detto che ero somala mi hanno risposto che non vogliono negre in casa. Ciò che non riesco a capire è perché hanno voluto offendermi in quel modo, bastava dirmi che il posto di lavoro era stato già occupato. Mi hanno offesa intenzionalmente”.

 

FAHRIA: “Tempo fa, come tu sai, sono stata costretta ad interrompere il mio lavoro di collaboratrice domestica presso una famiglia. Non mi pagavano da due mesi. Dopo aver più volte chiesto di pagarmi le mensilità arretrate, mi sono rivolta a Maria Rosaria[11] che ha scritto una lettera ai miei datori di lavoro chiedendo quanto mi spettava. I miei ex datori di lavoro mi hanno subito contattata dicendomi che erano sorpresi, ma che comunque avrebbero provveduto a saldare il loro debito. Il giorno dopo il mio ex datore di lavoro si è recato presso l’abitazione di alcune di noi chiedendo di me. Era furioso. Alle mie connazionali ha detto di riferirmi che se non avessi rinunciato a chiedergli del denaro mi avrebbe denunciato per furto, per aver rubato degli oggetti presso la sua abitazione. Devi sapere che alcuni datori di lavoro per evitare richieste di denaro alla fine di un rapporto di lavoro (o quando pagano meno di quanto concordato) ci minacciano: stai zitta o diciamo che ci hai rubato degli oggetti preziosi così ti mandiamo in prigione e non ti rinnovano il permesso di soggiorno. E molte di noi, che non hanno rubato nulla, per paura non reclamano i loro diritti. Ritornando al mio caso, ho vissuto per parecchio tempo nascosta, ma ho raccontato tutto a Maria Rosaria che mi ha aiutato a recuperare i miei soldi”.

 

MUNA: “Nella famiglia dove lavoravo ho subito una scenata terribile da parte della signora perché avevo lavato, in lavatrice, una mia camicetta insieme ai suoi indumenti. La signora mi spiegò che dovevo lavare a parte le mie cose. Evidentemente aveva paura che io fossi portatrice di qualche malattia e che quindi potessi contagiarla. Onestamente ancora adesso non riesco a capire il suo concetto d’igiene. Aveva paura dei miei vestiti ma non le creava alcun problema che fossi io a cucinare per lei, suo marito e suo figlio”.

            “La signora, inoltre, non mi permetteva di mangiare insieme a lei ed alla sua famiglia. Tutto ciò per me era molto umiliante. Appena ho trovato un altro lavoro mi sono licenziata. Quando ho comunicato alla signora che me ne volevo andare mi ha detto che non se l’aspettava da me perché mi avevano trattato come una sorella. Mi faceva lavorare duramente dalla mattina alla sera per una misera paga e mi ha anche umiliata, eppure raccontava a me ed alle sue amiche, di avermi sempre trattato come una sorella”.

            “Fortunatamente nella famiglia presso cui lavoro adesso non ho alcun problema”.

 

            SAMSAM: “I ragazzi italiani non hanno rispetto per i genitori. Nelle famiglie dove ho lavorato ho visto mamme piangere per quello che avevano fatto i loro figli. Ma veder piangere la propria mamma a loro non creava alcun turbamento. Io nelle mie preghiere ringrazio Dio e mia madre, perché se sono nata lo devo a loro. Prego anche per mio padre, ma il padre non è come la madre, non era lui a  prendermi in braccio per consolarmi quando da piccola piangevo. La mamma è un’altra cosa: è da lei che si impara a vivere e che ti trasmette ciò che conta veramente nella vita”.

            “Io penso che se i ragazzi italiani fossero nelle nostre condizioni cambierebbero subito atteggiamento, e scoprirebbero che i genitori sono il bene più grande che si possa avere al mondo. Spero che siano della stessa opinione anche i miei figli”.

        

HAKIMA: “Io cerco di fare da mamma a due mie compagne più giovani. Una ha diciassette e l’altra diciotto anni. Temo che qui si possano perdere. Sono giovani e possono dimenticare facilmente chi sono”.

            “Una ragazza molto giovane della nostra comunità ha fatto delle scelte avventate e le sta pagando amaramente. Si era fidanzata con un ragazzo italiano che l’ha messa incinta. Lei era felicissima perché innamorata, ma anche perché per noi avere dei bambini è una grande gioia (Allah ci ha dato la vita per onorarlo e per avere figli). La sua felicità però è durata molto poco. Il suo ragazzo non solo non la voleva sposare, ma voleva anche farla abortire. Lei si è rifiutata ed è andata in Svizzera dove ha avuto un bel bambino. Ora sarà difficile per lei essere accettata dalla sua famiglia perché ha avuto un figlio fuori dal matrimonio. Si è messa in un bel guaio”.

            “La vita per una donna immigrata è molto dura. Appena arrivate (in Italia) proviamo una gran confusione nella testa e sentiamo il bisogno di avere dei punti di riferimento, delle sicurezze. Chi ha una solida base religiosa si salva, chi non ha una forte fede può anche impazzire. Anni fa proprio a Lecce una nostra compagna si è suicidata”.

            “Vorrei ora dire qualcosa sul concetto di amicizia. Io noto che tra i ragazzi italiani i rapporti non sono facili. Sembra che le ragazze abbiano paura dei ragazzi. Poi non comprendo affatto quel darsi del lei. Ho avuto modo di constatare questo perché ho lavorato presso famiglie italiane, dove ho assistito a feste organizzate dai figli dei miei datori di lavoro dove erano invitati i loro amici ed amiche. Vedete, tra di noi è più semplice e naturale fare amicizia. Non esistono tanti formalismi. Poi ci divertiamo con poco. Capita anche che sia la ragazza a chiedere ad un amico di uscire con lei”.

            “Ho poi notato che l’educazione impartita ai bambini italiani è ben differente da quella che ricevono i bambini nel nostro paese e differenti, ovviamente, sono i risultati. I nostri bambini hanno un gran rispetto ed un gran timore dei genitori. Ma non solo dei genitori. Se il padre invita in casa un conoscente  lo devono chiamare zio anche se non è un loro zio. I genitori italiani invece, non riescono ad esercitare nessun controllo sui loro figli, che agiscono come vogliono. Ai nostri genitori basta uno sguardo per mettere a tacere i  figli. Inoltre, da noi, quando la figlia chiede il permesso al genitore per fare una qualsiasi cosa, viene accontentata solo se ha assolto i suoi compiti, che possono essere faccende domestiche ma anche altro”.

 

FAWZIA: “É una questione un po’ complicata il fidanzamento ed il matrimonio tra un italiano ed una donna somala. E’ vero che qui gli uomini trattano meglio le donne di quanto accade da noi. Vi sono però problemi seri da affrontare. I genitori di un nostro eventuale marito italiano come accetterebbero una nuora nera? Vi sono poi problemi legati alla religione, all’educazione dei figli. D’altra parte non dovete pensare che i nostri genitori sarebbero particolarmente felici di sapere che una loro figlia sposi un italiano, un cristiano. É vero che vi sono donne somale che hanno sposato degli italiani, ma una parte delle volte il matrimonio è stato accettato, in Somalia, esclusivamente per i vantaggi economici che questo comportava per la famiglia di lei. Sposando un cristiano rischiamo di essere considerate delle prostitute dalle nostre famiglie”.

           “Vi sono comunque casi positivi di unioni matrimoniali tra somale ed italiani e viceversa. Il problema principale a mio avviso è che l’emancipazione della donna somala è un cammino ancora lungo”.

 

 

E) COME SI VIVEVA IN SOMALIA

 

UBA: “Da noi i bambini ricevono, o meglio prima della guerra ricevevano, un’educazione molto rigida ed avevano poco tempo per i giochi. Molti bambini frequentavano due scuole. La scuola normale la mattina e quella coranica il pomeriggio. Quest’ultima era molto impegnativa e gli shek, i maestri di queste scuole,  usavano le maniere forti con chi non apprendeva subito. Gli shek insegnavano a recitare a memoria i versetti del Corano e questo è scritto in arabo. Nelle scuole normali, invece, si insegnava a leggere e scrivere, l’aritmetica etc. La scuola coranica la si iniziava a frequentare da piccolissimi e si poteva smettere di frequentarla anche a trent’anni. La sua durata dipendeva esclusivamente dalla sensibilità religiosa dello studente e della sua famiglia. Generalmente le famiglie desideravano che fossero soprattutto i figli maschi a frequentarla”.

           “Riguardo le scuole coraniche vi è un’altra cosa da sapere. Gli shek non erano pagati dallo Stato, ma dai genitori degli studenti. Quindi non tutte le famiglie potevano permettersi di far frequentare questa scuola ai loro figli. Poi non tutti i ragazzi e le ragazze desideravano frequentarla anche perché gli shek erano violenti. Io non ero molto brava a scuola, in nessuna delle due. Ho iniziato a frequentare la scuola coranica quando avevo quattro anni e quella normale, la scuola elementare, a sei anni. Ben presto ho abbandonato la scuola religiosa, lo shek era molto violento. I miei genitori erano molto amareggiati e per mesi hanno cercato di convincermi a ritornare a frequentarla. Ma i loro sforzi sono stati vani. Certo, se fossi stata un bambino anziché una bambina avrebbero insistito di più”.

 

ZAHARA: “Voglio raccontarvi la mia storia. Premetto che la mia non è una storia fortunata e quindi la posso raccontare con poche parole. Solo le storie belle meritano di essere raccontate nei particolari”.

            “Quando avevo due anni sono rimasta orfana di padre, mia madre scelse coraggiosamente di non risposarsi per meglio tutelare me, mia sorella e mio fratello. Per tale motivo tra me e mia madre si è instaurato un legame molto forte. Per poterla aiutare ho iniziato a lavorare quando avevo quattordici anni ed ho continuato a farlo anche quando mi sono sposata. Avevo diciannove anni, mio marito ventuno. Eravamo innamorati, ma tra di noi dopo un po’ le cose non andavano più bene. Gli screzi erano continui. Lui voleva farmi smettere di lavorare, voleva che mi occupassi solo della casa e dei figli. Ne abbiamo avuti due. Dopo tre anni di matrimonio abbiamo deciso di divorziare. Io sentivo di non essere più innamorata di lui e poi non volevo fare la casalinga a tempo pieno, mi avvilivo a stare in casa tutto il giorno. D’altra parte dovevo lavorare anche per aiutare mia madre, da noi non ci sono le pensioni sociali. Successivamente, a causa della guerra, sono dovuta venire qui in Italia dove, per ironia della sorte, sono costretta a fare faccende domestiche a tempo pieno in casa di estranei”.

            “Non sento la mancanza di un marito, mi basta sapere che i miei bambini e mia            madre stiano bene”.

            “L’errore che commettiamo noi donne somale è quello di sposarci molto giovani e di avere presto molti figli (da noi non si usano le medicine per non avere figli). Una donna molto giovane, che non lavora, che non ha una famiglia disponibile ad aiutarla e che dopo pochi anni di matrimonio si ritrova con due o tre figli e con un marito con cui non va più d’accordo (o che, peggio ancora, la maltratta) non può chiedere il divorzio. Chi si occuperebbe del suo sostentamento e di quello dei suoi figli?”.

 

ASHA: “Molte di noi si ritrovano in queste condizioni non perché sono state stupide ma perché i familiari le hanno costrette a sposarsi”.

 

DEEGA: “La Somalia è un paese islamico e quindi è permessa la poligamia. L’uomo può sposare anche quattro donne. Io non sono sposata, ma se lo fossi e mio marito si risposasse lo lascerei subito e se avessi avuto dei figli lavorerei e penserei io a loro. Devi sapere che nel passato erano le famiglie a combinare i matrimoni. Non vi era neanche il periodo del fidanzamento. Ora il fidanzamento è  consentito ed abbastanza diffuso. Quindi i fidanzati si possono conoscere prima di unirsi in matrimonio e ciò è molto importante. Da noi comunque il fidanzamento è un periodo breve e non dura molti anni come in Italia. Ci si sposa davanti allo shek. Questi alla presenza di quattro testimoni, due per la sposa e due per lo sposo, legge agli sposi alcuni versetti del Corano ed annota il matrimonio in un registro. Con il matrimonio lo sposo si obbliga a rispettare la sposa ed a occuparsi del suo sostentamento e dei figli che nasceranno dal matrimonio. La sposa si impegna ad essere fedele al marito”.

            “Purtroppo la nostra religione permette la poligamia, ma nessuna donna accetta volentieri di vedere il proprio marito sposato con un’altra donna. Ma se la donna proviene da una famiglia povera e se non lavora, ha poche possibilità di opporsi alle volontà del  marito. É condannata a subire, specialmente se ha dei figli. Le famiglie povere si augurano che le figlie si sposino presto per avere meno bocche da sfamare (ma anche per accaparrarsi la dote che il marito deve alla moglie), figurati se possono permettersi di riaccogliere in casa una figlia, che dopo pochi anni di matrimonio ha già due o tre bambini”.

 

AYAN: “Noi donne somale abbiamo ottenuto dei significativi cambiamenti sociali a nostro favore, ma ora a causa della guerra i nostri diritti sono regrediti. Ritengo che finita la guerra molte di noi ritorneranno in patria e il cammino verso l’emancipazione riprenderà ad un ritmo molto più sostenuto di quanto è stato nel passato perché abbiamo constatato di quanti e quali diritti gode la donna in altri paesi”.

           “Dovresti conoscere la condizione delle donne in Arabia Saudita, altro che Somalia. Il nostro è un paese musulmano ma la donna è più indipendente rispetto ad altri paesi islamici. Io prima di emigrare in Italia sono stata diversi mesi in Arabia Saudita ed ho visto come trattano tante creature innocenti, colpevoli solo di essere donne. Le trattano come se fossero cani. Devono essere coperte dalla testa ai piedi, possono uscire da casa solo se accompagnate da un uomo e non possono lavorare. A noi somale ci chiamavano schiave. Molti  sauditi sono poi repressi sessualmente, basta mostrare una caviglia che… beh il resto lo puoi immaginare. Noi somali lì siamo stati trattati male, i sauditi sono ricchi, ma senza cuore”.

            “Anche nello Yemen e soprattutto in Kenya siamo stati trattati malissimo. Siamo stati picchiati, derubati e molte donne sono state violentate. Le autorità di questi paesi non hanno fatto nulla per aiutarci e proteggerci, anzi…”.

            “Penso che quando ritorneremo in Somalia tutto cambierà. Per la prima volta nella nostra storia a detenere il denaro saranno soprattutto le donne. Siamo soprattutto noi donne a lavorare all’estero. Al nostro ritorno solo noi potremo acquistare abitazioni ed altri beni e non i nostri fratelli o mariti. Il rapporto di forza cambierà. Noi donne avremo più potere”.

 

FAWZIA: “In Somalia i rapporti tra cristiani e musulmani erano molto buoni, pensa che a Mogadiscio c’è una cattedrale cristiana. Circolavano finanche voci che raccontavano di somali che si erano convertiti alla religione cristiana. Questi però non potevano dichiarare la loro nuova religione. Nell’islam la conversione ad altra religione non è permessa, è considerata un peccato grave e gravi possono esserne le conseguenze. Vi erano anche cristiani che si convertivano all’islam, ma lo facevano soltanto per facilitare la loro unione con donne somale”.

 

SHUKRI: “Mi piacerebbe sapere cosa ci riserverà il futuro. Se ritorneremo in Somalia e quando. Come sarà la nostra nuova vita laggiù. Ogni tanto ascoltiamo delle previsioni e promesse da parte di nostri uomini politici che non sappiamo mai se prendere sul serio. Forse ha ragione mio fratello Abukar quando dice che gli uomini possono prevedere solo quando dovranno mettere benzina e cambiare l’olio alla loro auto, il resto lo stabilisce Allah”.

 

NAIIMA: “Solo Allah sa quando e se ritorneremo in Somalia, noi possiamo solo pregare”.


 

Poesie  dell’esilio

 

 

 

 

“Hai abbandonato il tuo Paese,

i tuoi figli,

i tuoi genitori,

ed ora sei sempre in pena per loro.

La notte ed ogni momento del giorno pensi a loro.

Non potrai mai essere felice lontano da loro e dalla tua terra.”

(Tradizione orale somala. Traduzione dal somalo a cura di Giuseppe Spedicato)

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“Siamo fuggiti come se fossimo stati su un treno in corsa.

Siamo stati costretti ad abbandonare il nostro Paese

ed ora possiamo affidarci solo a Dio perché ora non abbiamo amici.

Abbiamo superato terribili esperienze che non dimenticheremo mai.

Pensiamo sempre a come era la nostra vita ed a come è adesso.

Ora non siamo più liberi come lo eravamo nel nostro Paese,

continuamente siamo fermati e ci chiedono i documenti.

O Dio siamo fuggiti per tua volontà,

siamo dietro di te,

aiutaci a far cessare questa maledetta guerra.” 

(Tradizione orale somala. Traduzione dal somalo a cura di Giuseppe Spedicato)

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[1]
“Secondo questo approccio (approccio semplicistico oggi predominante sull’ineluttabilità della globalizzazione), l’espansione del mercato conduce necessariamente al progresso sociale e alla democrazia, e le difficoltà – ossia quelle che vengono chiamate le sacche di povertà, disoccupazione e marginalizzazione sociale – sono solo transitorie. Nessuno si chiede se la transizione durerà anni o molti secoli!”. Samir Amin, Il capitalismo nell’era della globalizzazione, Asterios Editore, Trieste, 1997 pag. 12

[2] Con ciò non si intende dire che i valori tradizionali solo per il fatto di essere antichi siano positivi.

[3] In Somalia la donna non ha pari diritti all’uomo.

[4] Con il perdurare della condizione di incertezza in Somalia la speranza di ricostruirsi una vita in patria si affievolisce sempre di più.

[5] Non è raro sentirle dire: “io voglio morire in Somalia”.

6 In Somalia è consentita la poligamia e questa rende i matrimoni instabili “come piuma al soffio del vento”.

  Le rimesse degli immigrati consentono ai familiari rimasti in patria di sopravvivere, ma contribuiscono anche ad alimentare un’economia parassitaria.

[7] Massimo A. Alberizzi, Corriere della Sera, 31 luglio 2005.

[8] Trattasi di una droga che ha anche l’effetto di assopire fame e stanchezza. In Somalia scarseggiava tutto durante la guerra, ma non il quaat. Questa droga, che è una pianticella, è utilizzata in tutta l’Africa Orientale e nello Yemen. Una ex studentessa universitaria mi raccontò che prima della guerra alcuni studenti la utilizzavano in prossimità degli esami. Masticando questa pianticella si riusciva a studiare giorno e notte senza provare stanchezza.

[9] Per poter meglio gestire la loro permanenza in Italia prendono in affitto (in piccoli gruppi) un’abitazione. Questa è utilizzata per trascorrerci i pomeriggi in cui sono libere dal lavoro e ad abitarci quando sono disoccupate. E’ anche utilizzata per ospitare connazionali appena giunte/i in città. 

[10] Si riferisce all’abitazione dei datori di lavoro

[11] Si riferisce all’avvocato Faggiano Maria Rosaria che in quel tempo collaborava con CTM.

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