Shubnum Khan, Le radici altrove - recensione a cura di Rosella Clavari

altSudAfrica

Shubnum Khan, Le radici altrove

Edizioni Nova Delphi, 2011

Traduzione di Cecilia Martini

 

Romanzo di esordio di una giovane scrittrice sudafricana di origine indiana e di religione musulmana rivela nel titolo tradotto ( titolo originale Onion Tears ) un discorso sulle proprie radici e sulla convivenza in Sudafrica di etnie e religioni differenti in una variegata commistione di culture che hanno creato l'originale identità di questo paese africano.
Due parole sulla trama: tre  sono le generazioni a confronto, con Khadeejah,  una simpatica nonna abile cuoca e conservatrice quanto basta per non essere reazionaria , Summaya sua figlia, reduce da una depressione in seguito all'abbandono del marito e infine la nipote Aneesa, angosciosamente protesa alla ricerca del padre del quale le è stata falsamente confessata la morte. Spesso si incrociano i destini delle donne nella letteratura  africana contemporanea  forse privilegiando una società matriarcale ed evidenziando la figura in ombra dell'uomo assente o traditore. Ed è spesso la solidarietà femminile che emerge prepotentemente come salvaguardia dagli accidenti della vita e come capacità di rimettersi in gioco.
L'autrice descrive con accuratezza i ritratti psicologici delle protagoniste riuscendo a creare nel lettore  un'empatia con loro a partire dalla vecchia Khadeejah  che trasfonde nella sua arte culinaria l'amore verso la vita e le persone, il suo attaccamento alla tradizione e il suo senso della bellezza “nei suoi cibi metteva il cuore e l'anima (mescolati a un pizzico di tristezza e d'amor perduto)”. Il padre e la madre di Khadeejah  erano arrivati tanto tempo prima in nave dall'India e lui aveva deciso di mettere su casa a Bronkhorstspruit, in Sudafrica, una scelta del luogo casuale, puntando il dito su una mappa geografica, mentre viaggiava con la  moglie- bambina su quella nave. Le storie delle tre donne si alternano nella scansione dei capitoli che prendono i loro nomi ( tecnica usata frequentemente nel romanzo moderno) per cui gradualmente  veniamo a scoprire le loro vite in relazione al loro passato e al loro triangolare rapporto.  Intorno all'anziana Khadeejah  si muove il clan delle sorelle che vengono  a trovarla di tanto in tanto, muovendosi irrequiete per casa perché abituate per anni a lavorare nella loro famiglia numerosa, cui si aggiunge la cognata rimasta nubile e dedita al pettegolezzo. La saggia Khadeejah nel soccorrere una vicina di casa maltrattata dal marito le insegna che “testa di uomo è dentro sua pancia”, quindi se vuole che il marito si calmi deve imparare a cucinare bene e conclude “uomo con stomaco pieno non può picchiarti. Stomaco pesante rende mano stanca” e se anche questo non bastasse allora deve trovarsi in fretta un lavoro per essere indipendente. Le due donne avranno dopo molti anni un commovente incontro con la più giovane divenuta una piccola imprenditrice, ormai emancipata dal marito brutale.
Anche Summaya, la figlia di Khadeejah  ha subito il trauma della separazione dal marito e la forte rimozione del dolore l'ha condotta a impostare una menzogna con la undicenne figlia Aneesa: la piccola sa che il padre è morto ma ben presto scoprirà la verità  sostenuta da un giovane amico e si metterà alla sua ricerca.  Superati i due terzi del testo ci imbattiamo nella vera realtà del Sudafrica e dell'India. Finora sono state le radici indiane a predominare e sappiamo infatti che spesso la lontananza da casa spinge gli indiani residenti in Sudafrica a rimanere attaccati alle proprie origini e alla propria identità di lingua, alla propria religione, alle loro usanze e stili di vita per cui si creano dei quartieri identici a quelli che si sono lasciati nella propria terra di origine.  Ecco però che all'improvviso attraverso il ricordo del viaggio in India di Summaya, proprio nel momento in cui sembrerebbero predominare le radici ancestrali, si affaccia anche il Sudafrica come paese di appartenenza. Summaya non ci si ritrova tra gli indiani tutti marroni, tutti uguali  “le mancavano le pelli dai colori contrastanti. In India erano tutti marroni, punto e basta. Un vortice indistinto di fango”. Si sente estranea a quel mondo, rimpiange il suo paese sudafricano finché non penetra, a bordo di un battello, in un angolo solitario a sud dell'India: oltrepassati i costosi alberghi intravede casupole di legno, fili di panni stesi e bambini nudi che corrono sulla sponda del fiume e “Nel crepuscolo del sole morente, quando il mondo si faceva scuro e malinconico, Summaya vide una donna seduta, curva sulla riva del fiume, che strofinava il suo bucato. La donna si interruppe e guardò su, verso la barca. Gli occhi luminosi nel suo viso segnato dalle intemperie sembrarono parlarle. E Summaya pensò, ma cos'è questo posto? Questo posto etereo, antico, povero”.
Nella povera bellezza di quel luogo fuori dal tempo ritorna a sentirsi indiana, si riconcilia con quel mondo dove ha avuto origine la sua vita . E' un'appartenenza a metà tra due mondi, in bilico tra due mondi,  quella che i più ottimisti considerano una ricchezza e non una conflittualità interna. Summaya pensa:”No, io sono indiana. Sono anche indiana. Come posso negarlo? Si poteva  essere e non essere”
Per quanto riguarda il razzismo presente in Sudafrica, l'autrice lo fa con naturalezza e senza livore, realisticamente poggiando sui ricordi di Khadeejah  che diffida dei bianchi così come dei pakistani:  la vecchia ricorda il disprezzo e la discriminazione che leggeva negli occhi dei bianchi che incontrava o con cui si scontrava nel supermercato e lo sfocato ricordo d'infanzia di un bambino che d'un tratto aveva smesso di giocare con lei  redarguito dalla madre che la chiamava “brava coolie” offrendole caramelle mou.  E così trasferendosi a Mayfair una volta rimasta sola a crescere due figli, il suo unico svago è ,  grazie alla parabola satellitare, il canale Ztv dove vede i film indiani e le telenovele della sua terra che Summaya disprezza assolutamente, proibendo ad Aneesa di vederle con la nonna. Khadeejah alla fine dei suoi giorni conclude amaramente “Perchè il padre li aveva portati in Africa? Perché non li aveva lasciati dove Dio li aveva messi?”  Questo mentre Summaya  ha ritrovato l'amore della figlia , la piccola Aneesa, l”affettuosa”  e  con la consapevolezza della sua  doppia appartenenza, la speranza nel futuro. Non è stato solo il viaggio in India a cambiare la vita di Summaya ma anche un drammatico incidente che vedrà coinvolte tutte e tre le donne risparmiando loro la vita. Aneesa  si renderà conto all'improvviso che ormai “l'età di mezzo” è stata superata, la violenza della vita e delle persone ti cambia ma l'amore è più forte.

Il racconto ci permette di riflettere anche su quello che è stato in Sudafrica il  regime razzista dell'apartheid, costrittivo e limitante anche nei confronti degli asiatici. Dal loro canto, gli indiani residenti in Sudafrica specialmente i più anziani sono rimasti attaccati alle proprie origini e alla propria identità di lingua ( vediamo l'uso dell'urdu a volte mischiato con l'inglese e l'afrikaans nel personaggio di Khadeejah). Anche Summaya, benché giovane, vive con conflittualità il problema della lingua durante il viaggio di ritorno alle proprie radici, in India: “il suo urdu incerto era un terribile tradimento nei confronti della sua cultura”.  Estendendo agli scrittori il problema della lingua, la casa, la vera casa, presso gli scrittori contemporanei dalla doppia appartenenza  afro-indiana spesso finisce per diventare non tanto un luogo fisico ma la lingua inglese: alcuni per esempio  non sono tornati in India ma sono andati a vivere in Canada( ma è un dato di fatto riscontrabile anche presso i più famosi scrittori africani dei quali molti vivono all'estero, soggiornando in America e  in Europa).
Tornando alla nostra giovane autrice che invece vive e lavora a Durban, il carattere intimista della sua opera-prima  ci permette di avvicinarci  con levità a questo mondo metà asiatico, metà africano, suscitando nel lettore il desiderio di approfondirne la conoscenza.

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