Cinema africano a Milano- a cura di Silvana Turco

28° Festival del cinema di Africa , Asia , America latina di Milano

Dal 18 al 25marzo si è svolto a Milano il 28°  festival del cinema Africano dell’Asia e dell’America latina , una rassegna importante in Italia che ha la qualità di mostrarci diverse opere filmiche di rilievo provenienti da quei paesi . A fianco delle principali rassegne , lungometraggi e cortometraggi si è affermata  anche un’altra opportunità : quella dei cineasti italiani che ci propongono opere ( per lo più corti) realizzate nei più lontani paesi asiatici , africani e dell’America latina. In questo contesto però c’è da sottolineare il fatto che  “spontaneamente” si è creata una sezione parallela e/o trasversale sul tema della migrazione, presente in tutte le rassegne con motivazioni e punti di vista diversi; in questo campo uno dei corti italiano più suggestivi è stato certamente “ Il silenzio di  James Joyce” di Michele Tarzia che documenta oltre che la drammatica traversata di un barcone verso l’Italia, lo sbarco finale dalla nave James Joyce, di 600 persone provenienti dalla Libia nel più assoluto silenzio… al cospetto di volontari con una tuta e una maschera completamente bianca come in un laboratorio scientifico.

                              

 

 

 

 

 

Il silenzio di James Joyce                                                                                                                                                Poisonous roses

 

 

Un esempio per un altro punto di vista,  il film egiziano “ Poisonous roses” del regista Ahmed Fawzi   autore  di formazione esclusivamente egiziana . Il film è coprodotto da Egitto, Francia, Quatar, Emirati arabi. Un giovane Saq, occupato nelle concerie del Cairo, ha come primo desiderio, molto concreto, quello di fuggire dalla sua situazione, prendere una barca e, con coscienza del pericolo, venire in Italia dove poter realizzare i suoi sogni. Tutti intorno lo mettono in guardia sui pericoli e anche sulle possibilità economiche, come trovare un buon lavoro e mandare a casa ben 300 euro al mese per la famiglia, come hanno visto fare ad altri. I suoi luoghi di lavoro, la città stessa è un incubo di degrado, sporcizia, inquinamento , sembra quasi poter sentire i miasmi degli scoli a cielo aperto. La giovane sorella Taheya , che lo ama profondamente,  cerca in tutti i modi di dissuaderlo senza riuscirci, né con le parole, né con l’affetto. Tuttavia riesce a bloccarlo alla partenza.

 

  I am not a witch

In un’intervista Alessandra Speciale , condirettrice del Festival , ha parlato della modernità dell’Africa, inaspettata per noi e di come il cinema africano si avvalga di strumenti e tecnologie all’avanguardia, oltre che di equipe internazionali e interculturali specialmente con il mondo arabo e l’Europa. Questa modernità si è rivelata molto anche attraverso le opere di autrici/registe  donne , che sembrano prevalere in questo Festival , infatti i principali premi sono andati ad autrici . Ha vinto il premio come miglior lungometraggio il sorprendente  e bel film di Rungano Nyomi  , già affermata a livello internazionale , proveniente dallo Zambia “ I am not a witch”

A seguito di un banale incidente nel suo villaggio, la piccola Shula viene accusata di stregoneria ed esiliata in un campo di streghe, che le autorità locali promuovono come attrazione turistica. Come le altre residenti, Shula è costretta a vivere legata ad un nastro dal quale è impossibile staccarsi… Un modo di denunciare il fenomeno dei bambini creduti stregoni, ma non è un film etnico, perché l’autrice lo investe di un’ironia persistente e quasi satirica, quando dimostra che questa “strega” dà grandi proventi a chi la sfrutta cioè l’autorità che se ne appropria . il luogo dove la bambina viene esiliata è proposto come interessante spettacolo per i turisti. Le streghe sono legate a lunghi nastri dai quali non possono staccarsi  di giorno.. e la guida turistica spiega che sono legate  di giorno agli alberi per impedire che volino via. Un autorevole personaggio si appropria di Shula e la porta in giro per un tour , dove , con imbroglio dimostra che ha anche magiche proprietà di rabdomante. E’ una denuncia del  dramma sociale de bambini stregoni  esistente in quelle zone dell’Africa, trattato con  leggerezza e ironia con una fantasia coinvolgente.

 

 Aya

Aya   di Mofida Fedhila  , Tunisia, è un cortometraggio e un altro bel risultato di cineaste donne, ha vinto infatti il primo premio nella sua categoria; affronta una tematica abbastanza importante nel suo mondo, ma con ironia: una bimba di sette anni è cresciuta in una famiglia salabita, di tradizione islamica non rigida , suo padre non ha imposto alle donne della famiglia l’uso del hijab ( cioè il velo tradizionale) quindi la bambina frequenta gli amici e la scuola con naturalezza  senza  velo. Viene , per questo , molto criticata e dileggiata . Il padre quindi la prega di indossare il  caratteristico velo, ma Aya risponde con un gesto provocatorio estremo e molto ironico andando a scuola, non tanto col hijab , ma col velo integrale, il nijab, nero, che la copre dalla testa ai piedi con una piccola fessura per gli occhi, che non le era di certo richiesto. Provoca così le reazioni della comunità bigotta e la famiglia è costretta ad andarsene.

 La regista ha chiarito che in Tunisia è dal 2013 che è stata promulgata una legge  che liberalizza l’obbligo di indossare il velo. Uno dei risultati  (pochi) della “ primavera araba” che in Tunisia  ha inciso in qualche modo, rendendo il paese più liberale e laico nei costumi. Il film fa riferimento all’epoca precedente.

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