Ivan Vladislavic - La distanza - recensione a cura di Rosella Clavari

Ivan Vladislavic

La distanza

Utopia, 2023

traduzione dall’inglese di Carmen Concilio

L’autore, sudafricano di origine croata, appartiene a quella fascia di sudafricani bianchi progressisti che ha vissuto in maniera paradossale la propria posizione in una terra dove la maggioranza della popolazione nera si è trovata sempre sottomessa alla minoranza bianca. Parlando in questo libro del mito di Muhammad Ali (nato Cassius Clay) il grande pugile, campione nello sport ma anche nella vita come difensore dei diritti civili, sorge spontaneo fare un parallelo tra l’attività sportiva strumento di successo ma anche di rivendicazione di un bene comune superiore e l’attività dell’artista, nel caso specifico lo scrittore che ha il potere di svelare la realtà, di portare a galla i problemi irrisolti e di stimolare all’approfondimento di essi. Vladislavic, qui, interagendo nella sua scrittura con la cronaca giornalistica, in altri testi con la fotografia o con l’arte figurativa (ha curato anche numerosi volumi d’arte e di architettura), dimostra di avere questo carisma.

La storia ruota intorno alla vita di due fratelli, Joe e Branko ( c’è anche la sorella Sylvie) che vivono a Pretoria, in una famiglia allegra e dignitosa, dove la mamma lavora come maglierista in casa, il padre meccanico e factotum. Branko si professa il vero sportivo di famiglia ed è il più razionale dei due, Joe, futuro scrittore, innamoratosi di Muhammad Ali, della sua bravura e del suo carisma, non fa altro che ritagliare articoli di giornali che lo riguardano e arriva a collezionare nel tempo ben undici album; ad un certo punto chiede al fratello un aiuto per farne un libro. E’ una famiglia dove apparentemente non si respira il dramma psicologico dell’incomprensione o della tragica povertà ma una maniera di convivere con eventi sociali e politici intorno a sé insieme alle cose piacevoli che prendono rilievo come lo sport, la scrittura, il gioco delle biglie colorate.

I fatti di cronaca sono degli stasimi ritmici che introducono i vari capitoli : la guerra in Vietnam nel 1971 , lo stesso anno in cui Muhammed Ali disputò l’incontro del secolo con Joe Frazier, subendo una delle poche sconfitte della sua carriera; la morte di quattro minatori africani sempre nello stesso anno; ci sono anche eventi eccezionali e sorprendenti come la pesca di una enorme trota oppure la banda della polizia sudafricana unitamente ai virtuosismi dei cavalieri con la sciabola e della sfilata del bestiame in una manifestazione locale. In realtà, Branko scopre, durante il suo lavoro sui fascicoli lasciati dal fratello, che quelle notizie di cronaca sono proprio nel retro degli articoli su Ali, ritagliati da Joe.

A Joe, a dire la verità, più del pugilato ( di cui non aveva mai parlato nei suoi pochi romanzi) interessava la figura di Ali. Ripercorrendo brevemente questa vita ci rendiamo conto di quale fascino abbia potuto esercitare e perché di lui abbiano detto “sul ring una leggenda ma nella vita molto di più” :

Riceve la prima medaglia d’oro nel 1960 alle Olimpiadi di Roma ma getterà quella medaglia nelle acque dell’Ohio, perché, come dichiarò alla stampa, non aveva senso essere un campione e non poter entrare in un locale interdetto ai neri. Nel 1964, dopo essersi laureato campione del mondo contro Sonny Liston, si converte all’Islam: “Cassius è un nome da schiavo. Io non l’ho scelto e non lo voglio, Io sono Muhammed Ali che significa ‘amato da Dio’, io sono un uomo libero”. Nel 1966 si rifiuta di prestare servizio militare e per questo viene privato del titolo mondiale ed escluso dal ring per cinque anni. A partire dal 1970 riprende a salire sul ring e riporta una vittoria dopo l’altra disputando circa 61 incontri e, tra le poche sconfitte, quella memorabile con Joe Frazier nel 1971. Indimenticabile la vittoria di Ali contro Foreman nel 1974 a Kinshasa, nel combattimento denominato “The Rumble in the Jungle”. Il ragazzo Joe aveva atteso tanto che Ali arrivasse in Africa e ciò avverrà non solo per quell’incontro con Foreman, vi ritornerà nel 1993 quando stringerà la mano di un altro grande paladino della libertà, Nelson Mandela. Indubbiamente Ali sapeva rapportarsi con i mass media, ma sapeva anche farsi carico dei sentimenti dei più deboli e oppressi e in quest’ottica la sua professione è stata uno strumento per la lotta dei diritti civili a favore della comunità afro- americana. Anche nella malattia, quando a soli quarantasei anni viene aggredito dal Parkinson con cui conviverà per altri trent’anni, si attiverà in prima persona per favorire la ricerca medica sul morbo.

L’adolescente Joe e più avanti il maturo scrittore, nell’alternarsi del racconto tra passato e presente, esprime una visione dell’America in trasformazione: all’università Joe scopre una visione dell’America in contrasto con la sua, non più il bastione della libertà in Occidente ma “un invadente stato-bullo che minacciava i governi democratici”. Eppure Joe e Branko da ragazzi si divertivano a fare “gli americani”, volevano addirittura cambiarsi nome, andare a Chicago, amavano tutto ciò che era americano dallo sport a tutto il resto e desideravano più di tutto un televisore. La mania americana- a detta di Joe - non passa mai, “va e viene come una infezione cronica”. D’altronde lo stesso Ali aveva innescato questa polemica con l’America a partire dalla sua condanna al razzismo, al suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito per andare in Vietnam fino a detestare l’eccessiva presenza della sua persona sulla stampa (un po’ in contraddizione con il suo indiscusso protagonismo): “La gente muore in Egitto e in Israele e non se ne sente parlare ma la mia mascella sarà sulle prime pagine di tutto il mondo. Non penso sia giusto ricevere tutta questa attenzione. La gente che la merita non ne riceve”. Il padre di Joe e Branko non vede di buon occhio, come molti bempensanti, le smorfie che fa Ali, la sua eccessiva parlantina. Eppure quella sua freschezza, quel suo essere brillante e poetico non era solo un messaggio sociale, era anche un modo di essere più che un pugile, un artista del ring. Famosi i suoi saltelli, le sue provocazioni all’avversario, le sue cinque divertenti tattiche denominate “il Cretino alle corde”, “il Miraggio”, “il Carrarmato russo”, “il Valzer della Malesia”, “il Bestione del ghetto”. Per i cronisti di boxe, Ali era una benedizione divina perché la sua stravaganza e teatralità alimentavano la loro e ne venivano fuori dei pezzi straordinari e avvincenti.

Non vogliamo anticipare nulla del finale inaspettato ma dire solo che il figlio di Branko, Jordan, pensa che sia bello che il padre stia cercando di terminare il libro di Joe.

La distanza del titolo si riferisce, riteniamo, alle esperienze vissute nell’infanzia e nell’adolescenza che sono quelle più determinanti e da cui tutto il resto prende distanza diventando più opaco e meno chiaro di come si era manifestato all’epoca. C’è anche una frase emblematica riferita a Joe: “la distanza su come sono le cose realmente e come appaiono non sembra turbarlo”; la sua immaginazione, la sua fantasia sono troppo esaltate per accontentarsi di una grigia e spesso spietata realtà. Non possiamo non pensare anche alla giusta distanza che Ali sapeva tenere rispetto all’avversario per poterlo sconfiggere, per schivare i suoi colpi e per colpirlo al momento opportuno sorprendendolo e sorprendendo tutti. La sua lunga battaglia sul ring e fuori dal ring ha sconfitto il tempo e continua a parlarci con rinnovato interesse.

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