Lo sguardo degli italiani: la Libia (a cura di Giulia De Martino)

 

Tra il 1998 e il 2003 le relazioni Italia-Libia conoscono un sostanziale riavvicinamento, si comincia a dare un volto, anche se ancora molto insoddisfacente, alle spinose questioni degli indennizzi dell'occupazione e della guerra coloniale e del risarcimento agli italo-libici cacciati nel 1970 da Gheddafi. Inoltre comincia a premere al leader libico un riconoscimento di un suo mutato ruolo nel Mediterraneo e in Africa, lontano ormai dal sostegno al terrorismo che lo aveva contraddistinto negli anni di un diverso scenario politico internazionale.
Forse è per questo che negli anni 2000 si assiste ad un'impennata di narrativa italiana, di fiction e autobiografica, che ha per argomento la  Libia, vista in alcuni momenti essenziali della sua e della nostra storia.
Negli anni precedenti non era mancata la pubblicazione di romanzi e memorie, di diari e raccolte poetiche, ma avevano avuto una circolazione piuttosto ristretta, perché in verità agli italiani la cacciata degli ebrei e dei connazionali non era mai interessata granché. Basti aprire le pagine del sito dell'A.I.R.L, l'associazione che raggruppa gli italiani rimpatriati dalla Libia, per rendersene conto; la maggior parte dei testi è edita da piccolissime case editrici, tanto che i libri sono acquistabili quasi esclusivamente on-line.
 Per questo motivo la nostra attenzione si è rivolta a libri più facilmente rintracciabili in libreria e che possono aver attivato l'attenzione di qualche lettore: non è nostra intenzione scrivere un saggio esaustivo di tutte le pubblicazioni, solo dare qualche riflessione su alcuni autori che hanno ambientato in Libia i loro romanzi, così come abbiamo fatto per il Corno d'Africa (vedi Lo sguardo degli italiani sul Corno d’Africa).
I libri non sono molto recenti, ma è significativo che siano stati pubblicati tra il 2003 e il 2008, quando l'attenzione dell'opinione pubblica è stata ridestata dai trattati italo-libici,  dalle visite  di Berlusconi in Libia e anche di alcuni  membri del governo Prodi.
 Parliamo di Carmine Pascià (che nacque buttero e morì beduino) di Gian Antonio Stella (Rizzoli, 2008), E venne la notte di Victor Magiar (Giuntina, 2003) e Ghibli di Luciana Capretti (Rizzoli, 2004).
Li abbiamo scelti  perché sono legati a tre momenti nevralgici della storia dell'Italia e della Libia. Rispettivamente: la sporca guerra coloniale italiana prima di Vittorio Emanuele III e Giolitti, poi dei fascisti di Mussolini; la cacciata di seimila ebrei dopo la guerra dei sei giorni nel 1967 tra forze arabe e Israele; infine, il rimpatrio forzato degli italiani nel 1970, dopo l'ascesa al potere di Muhammar el Gheddafi.
Tranne i precedenti più o meno illustri di Pascoli e D'Annunzio, sui quali preferiremmo sorvolare,  l'attenzione sulla guerra, ma siamo già nella II guerra mondiale e al crollo dell'Impero sognato da Mussolini, è portata da un unico testo, Il deserto della Libia di Mario Tobino del 1952, dal quale in parte è stata tratta la sceneggiatura del film di Mario Monicelli "Le rose del deserto" del 2006.
Non diario, non cronaca, ma riflessione su uomini, condotti, senza volerlo, ad una guerra, impreparati e mal equipaggiati, nelle mani di una burocrazia militare testarda e suicida, storditi dalla implacabile luce del deserto, che li rende aperti ai sogni e alle follie, dove riescono ad intravedere, ma senza capire, un altro mondo,un'altra cultura.
Per  ragioni di ordine cronologico, rispetto ai fatti storici, iniziamo a parlare di Carmine Pascià, in cui sia il primo che l' ultimo capitolo ci presentano la stessa scena, quella della fucilazione di Carmine Iorio, e tra i due estremi il lettore ha avuto modo di apprenderne tutta la storia. La vicenda è vera, desunta da Gian Antonio Stella, dai n.35-36 della vecchia rivista Incom, scritta in modo assai retorico dal giornalista Francesco Maratea, per non sciupare l'immagine dell'esercito italiano e dal n.37, in cui un testimone presente agli ultimi istanti di Carmine, tale Germano Venier, scrive alla rivista smentendo la falsa ricostruzione finale.
Di vicende di disertori fucilati o scappati è piena la storia dell'esercito italiano, non solo sul fronte dell'Isonzo, ma nella stessa invasione libica.
G.A. Stella riesce a darci un delizioso piccolo testo di storia romanzata, ma accurata nella sua documentazione, corredata di commenti e informazioni tratti da testi coevi o dalle fonti storiche più accreditate sulla Libia, da Salvatore Bono a Angelo Del Boca, per nominarne alcuni.
Nel primo capitolo il lettore si deve collocare nel punto di vista del condannato a morte per alto tradimento: di fronte al plotone di esecuzione il 18 dicembre 1928 Carmine ripensa alla Madonna delle galline, al santuario di Pagani, al chiasso della festa e alla storiella di Palinuro che cade ubriaco in mare così come gliela sapeva raccontare la madre analfabeta che dell'Eneide non sapeva proprio niente.
Perché é per una solenne ubriacatura di una fatidica sera del 1916, presa in un momento di grande stanchezza e rabbia, che il soldato Iorio ha visto cambiare la sua sorte.
Stella a questo punto assume un tono cronachistico tra il serioso e l'ironico per metterci al corrente del personaggio: chi è, dove è nato, come è finito in Libia e, soprattutto, come si è trovato a diventare un comandante delle forze libiche di resistenza.
Dunque c'è tutta una prima parte che si svolge ad Altavilla silentina nel Cilento: famiglia di “cafoni” (come quelle descritte nel recente film di Martone "Noi credevamo”che proprio dalla rivolta di quelle zone prende inizio) quella del padre diciottenne e della madre, poco più che bambina al momento del matrimonio. Che durerà poco, dal momento che l'anno successivo una fucilata pone termine alla vita del cavallaro della riserva di Persano. Nutrito dalla vedova ragazzina a base di fagioli e pancotto ripassato con la cipolla, Carmine fa il suo ingresso nel mondo del lavoro a 5 anni e a 8 è già garzone di pecore, vacche, bufale e cavalli. Come tutti, cresce odiando i baroni, nelle cui terre si affatica e sognando  “la merica”, l'acqua calda in casa, la corrente elettrica  e una vita in cui non ci si deve togliere il cappello davanti a nessuno. Anche lui già sposo a 18 anni di Lorenzina, si vede sottrarre la vita matrimoniale dal sorteggio della leva dei nati nel 1892, peggio ancora, spedito nel novembre 1911 in Cirenaica, con il piroscafo, ironia della sorte, America.
La propaganda  corre: quelli restati a casa “invidiavano” i partenti, sostengono gli ufficiali, perché è bello pro patria mori, sbarcare in Cirenaica è un ritorno ad una terra che già fu Romana, il Mediterraneo è Mare nostrum e via dicendo. Mentre  le gole si gonfiano al suono di “Tripoli bel suol d'amor”, lo sguardo di Carmine corre mesto al profilo degli Alburni al tramonto, la nave passa davanti alla costa cilentina e il cuore di Carmine si stringe in un brutto presentimento: l'esercito non gli aveva concesso una licenza neppure per salutare la sua Lorenzina. Infatti non la vedrà mai più: nel '14 scoppia la guerra e nel '15 quelli della sua leva vengono tutti raffermati.  
Carmine resta intrappolato in una assurda guerra portata a gente di cui non sospettava neanche l'esistenza e che non gli aveva fatto niente, in un territorio in cui erano sicuri solo i porti, perché il resto del paese conosceva una resistenza che gli italiani non avevano previsto.
Nell'accampamento di Tocra la vita non è facile: il rigido regolamento non ha permesso ai fanti di togliere niente della pesante divisa di lana, eppure si sfiorano i 50°; la quintessenza del suo odio verso l'esercito, i superiori arroganti, Vittorio Emanuele e Giolitti che questa guerra contro i turchi e gli arabi l'hanno voluta, si compendia nella persona di tale sergente Rosina, il più carogna che si possa immaginare. Punito da quest'ultimo, perché sorpreso, dopo il turno di notte,  senza canottiera e con la camicia sbottonata a causa dell'alta temperatura, viene messo di giorno a ramazzare il piazzale dell'alzabandiera, senza poter dormire: la sera stanco e rabbioso beve  e  attacca brighe, viene  rinchiuso dentro una baracca infuocata, con il suo vomito,la diarrea e le pulci. Nella notte, con una involontaria spallata  la porta si apre: non gli rimane che fuggire, intontito dal vino e dal sonno.
Inizia così l'avventura  di Carmine Iorio: preso da alcuni beduini, mentre dorme sotto una palma e condotto nientemeno che al cospetto dei leader della resistenza Sidi Mohammed Idris es Senussi e suo fratello Sayed Mohammed er- Ridà ad Ajdabia,  viene condannato all'impiccagione. Il tutto gli viene affabilmente spiegato in italiano da el-Ghaffar, un compito ex-maggiordomo di italiani di Alessandria d'Egitto. Ma un mirabile colpo di scena lo sottrae alla morte, mentre è già sul palco della forca: visto che è un abile fuciliere potrebbe rivelarsi utile, previa prova pratica. Peccato che la prova non è un barattolo o un tirassegno, ma l'uccisione di due rivali del fratello del Gran Senusso. In cambio, un alloggio, un cavallo e la possibilità di rifarsi una vita. Prendere o lasciare: di là sicuramente il tribunale militare e la fucilazione, di qua la forca, tanto vale uccidere per vivere. Uccidere due sconosciuti che non gli avevano fatto niente? Che forse il re Vittorio Emanuele gli aveva chiesto un parere prima di catapultarlo ad ammazzare gente altrettanto sconosciuta che se stava a casa loro? E che forse il sergente Rosina non aveva sempre detto che i soldati non dovevano pensare, dovevano solo sparare, solo così avevano salva la pelle? I cappellani non benedivano  i moschetti e le baionette da ficcare nella pancia dei nemici? E da che parte stava Dio?
Fu così che dopo una notte di travaglio, smessa la divisa e indossata una tunica caffelatte e una takia in testa, Carmine decide di restare “gradito ospite”, come si era espresso el-Ghaffar, della confraternita dei senussi , dopotutto, chi aveva mai trattato così bene un buttero analfabeta...
Qualche tempo dopo, nel dicembre 1916, durante un pattugliamento nel gebel cirenaico, il 79° fanteria sentì sbalordito urlare dalle fila dei beduini “tenente Rossi e vuie, mare scià , stateve accuorti” e diretto al Rosina “sergente, fetente”. Cavallerescamente i libici non gli chiederanno mai di sparare sui suoi compatrioti.
Si rifà una vita il nostro Carmine divenuto Yusuf el-Muslim, impara l'arabo, legge, lui analfabeta in italiano, il Corano, dopo essersi convertito, anche se continua a pregare di notte San Gennaro e la Madonna del Carmelo, ma scoprirà che anche  i musulmani hanno una venerazione particolare per Maria vergine. Si sposa, ha dei figli. Si occupa di manutenzione di armi, si poteva dire soddisfatto, solo un beduino cresciuto tra le pecore poteva capire un buttero cresciuto fra le pecore e anche quando non si era ambientato nessuno l'aveva mai considerato come un bovaro analfabeta da trattare a bastonate come un cane rognoso.
Dopo la I guerra mondiale si allenta la tensione in Libia, gli italiani hanno ben altro a cui pensare, ma l'ascesa del regime di Mussolini cambia il gioco: lo scatolone di sabbia deve essere piegato ad ogni costo e la lotta si fa dura. Di fronte all'avanzata feroce degli italiani, agli eccidi nei campi di concentramento, ai bombardamenti con gas tossici, alla deportazione di libici nelle isole italiane, Carmine fa la sua scelta di campo: sta dalla parte di Omar el-Mukhtar, il leggendario eroe della resistenza, diventa comandante di guerriglia, ma non sparerà mai un colpo sugli italiani, così sosterrà fino alla fine. Solo quando cattureranno sua moglie le scelte diventano difficili per lui, a poco a poco con l'avanzata fascista e la ritirata degli arabi, perderà fiducia, fino a farsi catturare il 16 novembre 1928, riconosciuto da un libico collaborazionista.
Il processo raggiunse il ridicolo, perché si pretese, per sottolineare  ormai la sua estraneità all'esercito italiano, che domande e risposte allo Iorio fossero fatte in arabo da un interprete. Davanti al plotone titubante a sparare fu lui ad incoraggiare  i soldati, dopo aver rifiutato il prete e richiesto il muftì perché ”signor colonnello, io oggi me ne vado, ma i miei figli no, loro restano, se muoio da cristiano, saranno i figli di un traditore, se muoio da musulmano saranno figli di un eroe”. Per uno che era diventato disertore per sbaglio un gran bel riscatto umano...
La Libia che esce fuori da questo testo è quella dell'avventura coloniale più bruta, quella delle rappresaglie, dell'uso dei gas asfissianti, dei raid contro i civili, dei primi campi di concentramento del XX secolo. Quella dell'irritazione delusa dello stato maggiore italiano contro un popolo incivile di beduini non considerato, razzisticamente, in grado di opporre una resistenza valida, dell'uso disinvolto di truppe non adeguate ai combattimenti in un territorio dal clima e dalla popolazione ostile, costato diecimila morti, da parte di classi dirigenti e ottuse caste militari che pretendevano di trasformare una popolazione prevalentemente contadina “in una stirpe di crudeli guerrieri”. Quella dei centomila libici internati e quarantamila morti per epidemie, pessime condizioni igieniche, scarsa alimentazione e decimazioni periodiche.
Il tono narrativo scelto dall'autore però è quello di uno short storico pieno di grazia e di leggerezza, d'impianto filmico che richiama la rappresentazione che il cinema italiano degli anni '60 ha fatto dei nostri soldati, un po' cinica, un po' tenera, un po' gaglioffa. Ma senza la retorica di “italiani, brava gente”.

Sono passati circa 40 anni da questi eventi e nel romanzo E venne la notte troviamo protagonista il piccolo Haym Cordoba in una Tripoli elegante, piena di gente, oltre gli italiani ci sono ebrei sefarditi, maltesi, ciprioti, greci, turchi, armeni. I negozi e i mercati sono traboccanti di merci, molto frequentati i caffè famosi dove gustare prelibatezze e pasticceria siciliana, chiese, sinagoghe e moschee sono in gara per l'altezza, anche se per legge una sinagoga non può essere più alta dei minareti.
La Libia di re Idris, ormai stato indipendente dal 1952, si presenta con le sembianze di una “dolce vita” che viene sottolineata anche da Ghibli, anzi in un capitolo ne diventa il leit motiv ricorrente.
Haym sta per compiere 10 anni, frequenta una esclusiva scuola cattolica in un quartiere moderno chiamato Città Giardino, felice della multiculturalità della scuola che consente due giorni di festa a settimana, il venerdi dei musulmani, la domenica dei cristiani. E il sabato degli ebrei? Nel testo c'è una vasta panoramica dei comportamenti non omogenei della comunità ebraica: quelli più ortodossi lo rispettano integralmente e non mandano i figli a scuola, altri non lavorano,  ma non transigono sulla frequentazione delle lezioni: Dio preferisce un uomo istruito ad un ebreo ignorante, sostiene con convinzione il padre di Haym, che, però,  poi corre a pregare per attenuare un po' il peccato.
La famiglia Cordoba si è sempre contraddistinta per essere moderna e progressista. E' estremamente orgogliosa delle proprie origini spagnole e parla lo djudeo-espanyol, la lingua esportata  nella diaspora provocata  dalla Inquisizione spagnola del '500 e gelosamente conservata, mentre in altre zone di Africa e di Palestina era stata abbandonata per l'arabo. Nei giorni di chiusura della scuola i ragazzi ebrei imparano le altre lingue, come l'inglese e il francese, all'arabo ci pensa la scuola attraverso maestre di madrelingua, imposte dallo stato. L'italiano è la lingua un po' parlata da tutti ed è segno di grande distinzione  frequentare le scuole italiane, da cui nel '38, per effetto delle leggi razziali, erano stati cacciati tutti gli ebrei, come era successo alla madre di Haym.
Haym è innamorato di una ragazzina, mezza greca e mezzo italiana, di religione cristiana, ma a lui non importa, quando sarà grande è sicuro di superare gli ostacoli che le rispettive comunità porranno al matrimonio misto. Il sabato è anche  il giorno in cui cavalca Blue Belle, una elegante e vigorosa cavalla di proprietà di Hajj Abd Assam Ben Sayèd: mentre è in sella  si sente un eroe western e si atteggia a divo del cinema. Del resto, con il cinema è di casa, visto che il padre e suo zio gestiscono il Rex,” la sala più bella di tutto il Nordafrica”, anche se hanno parecchio da sudare con la commissione statale della censura. Durante queste cavalcate, spesso in compagnia del notabile berbero, Haym si apre alla religiosità musulmana e alla filosofia di vita di Hajj Abd Assam Ben Sayed: il bambino è naturalmente curioso e aperto, per un giorno a settimana il padre e il rabbino cedono lo scettro alla visione di vita del libico, che non ama la politica ed è interessato ad istanze più profonde e spirituali. Haym ha modo di coltivare le differenze e i confronti.
Ma la visione idilliaca della vita tripolina è solo apparente: alle spalle della comunità ebraica ci sono i violenti pogrom del '45 e del '48, che hanno avuto la conseguenza dell'espatrio di circa trentamila ebrei, perlopiù in Palestina. Ferite solo in superficie rimarginate: nella Hera, il quartiere ebraico della città vecchia, sono rimaste le macerie e nelle case restate in piedi abitano gli arabi poveri, contadini inurbati dalle campagne. I tempi stanno cambiando, la propaganda nasseriana socialisteggiante e panaraba sta guadagnando la borghesia libica e l'atteggiamento filo-occidentale del re, protettore degli ebrei è visto con sospetto.
Per farci capire meglio i contesti storici tra il regime fascista, l'occupazione inglese, l'acquisizione della indipendenza e la costituzione dello stato di Israele, l'autore ricorre all'espediente dei racconti dello zio Enver che riporta le vicende del fratello Leon e di Estherìka , una delle figlie del rabbino Toledano, dagli anni '30 al secondo dopoguerra. La narrazione occupa ben 8 capitoli, dal 4 all'11, ma non appesantisce il testo, perché escono fuori ritratti indimenticabili dei Cordoba e dei Toledano alle prese con i fascisti, con gli inglesi, gli americani e con gli ebrei della brigata palestinese, venuta al seguito delle armate alleate.
La brigata palestinese, formata per lo più da ebrei britannici e originari del medioriente, divulga l'ebraico moderno che intende sostituirsi allo djudeo-espanyol e le idee nuove sulla costituzione dello stato di Israele.
 Il giudizio dell'autore sulle ambiguità degli inglesi rispetto agli ebrei è molto netto, così come lo sarà nei confronti del nasserismo, invischiato e rafforzato dallo schieramento bipolare del mondo durante la guerra fredda. Non sarà risparmiato neanche re Idris, troppo mite e debole per riuscire a fronteggiare la situazione ormai  diventata esplosiva e non in grado di cambiare il clima di diffusa corruzione degli alti papaveri della politica e dell'esercito. Victor Magiar si rende anche conto della profonda differenza tra le classi al potere, latifondisti e borghesi, banchieri e faccendieri arricchitisi, prima all'ombra del fascismo, poi del petrolio, protetti dalla connivenza degli occidentali e il resto della popolazione, ma agli occhi del bambino che osserva la storia tutto questo è difficile da capire.
 Il piccolo Haym non è altri che Victor Magiar decenne quando proprio il giorno del suo decimo compleanno è costretto insieme ad altre migliaia di ebrei a lasciare il paese in modo traumatico.
Infatti il 1967, l'anno della guerra arabo-israeliana, detta dei sei giorni, segna un punto di non ritorno nei rapporti tra ebrei e libici: la cocente sconfitta araba innesca un turbinio di rappresaglie, provocazioni, scontri durissimi, soprattutto nei confronti della comunità ebraica tripolina. Gli arabi, già allevati nella propaganda antisemita fascista, prestano facilmente ascolto alle voci di complotti ai danni degli arabi libici da parte degli ebrei. Anche se, avverte Magiar, quelli che assaltano i forni e i negozi, rispondono solo agli istinti della propria fame e della miseria; gli altri, ubriacati dalla propaganda nasseriana, i figli della borghesia che hanno studiato e si sono laureati all'estero, quelli invece assaltano per degli “ideali” e per questo snidano gli ebrei nelle loro case, distruggendo i loro beni, perseguendo un fine di annientamento.
Il capitolo 14 è la  chiave per capire cosa devono aver provato quei bambini, colti da questi eventi. Haym cerca di orecchiare come stanno le cose dalle conversazioni degli adulti da cui è escluso, cerca la risposta negli atlanti e nei ritagli di giornale dove sono riportate le cifre delle popolazioni e i numeri riguardanti gli armamenti: la loro patria è la Libia, in cui risiedono da secoli, ma tutte le famiglie hanno parenti in Israele, è ovvio per chi parteggiare. Una frase lo inquieta, sentita al caffè:”se la molla parte chi la ferma più”. Ma chi carica la molla, si chiede il bambino con la sorellina, i fanatici, i russi, gli americani? Ma perché non caricano la molla per la pace? E Blue Belle, anche lei sarà in pericolo? E non rivedrà più la sua Ivy?
Per educazione familiare non ha mai amato i fanatici di nessuna parte: quando in classe discutevano delle cifre dei diversi credenti nel mondo, ha sempre finito con il pensare che è meglio coltivare il dubbio su chi ha ragione che imboccare la strada del fanatismo, ma ancora gli sfuggono tante cose per comprendere a pieno la situazione. Il padre, quando apprende della vittoria di Israele, gioisce, ma ammonisce che ora si deve pensare a tendere la mano per una pace duratura, non si può vincere sempre, stare sempre in guerra è rischioso e si torcerà contro.
Intanto le famiglie si chiudono nelle case strette d'assedio, c'è il coprifuoco, è rischioso uscire per approvigionarsi di cibo. Ma molti arabi non si accodano all'accanimento contro gli ebrei, li aiutano, i vicini sono sacri come parenti per il Corano, sostiene il signor Sharìf, e ancora i dipendenti del cinema Rex,  i pigionanti di Gerusalemme della pensione nel palazzo di Haym e tanti altri. Partiranno alfine e potranno portare solo 20 sterline a testa. I profittatori, libici o italiani, aumentano perfino i prezzi delle valigie, oltre  a comprare per pochi soldi oggetti di famiglia  ed  automobili.
Un ultimo desiderio per il bambino in partenza, con in tasca solo un soldatino: andare sulla terrazza a contemplare un'ultima volta la sua città, la dolcezza dei suoi profili, le immagini che già si fanno memoria, sapendo che non vi tornerà più. Una città minuziosamente descritta nelle sue strade e monumenti, ma che per tutto il libro non è mai stata chiamata con il suo nome, come se fosse doloroso ancora  il solo pronunciarlo.
Il testo si apre e si chiude con due parti liriche molto belle, dalle espressioni simili, dedicate al mare: la prima è quella della traversata che li porterà in Italia, rassegnati da secoli di spostamenti; del resto, ricorda Magiar nessun membro della famiglia è morto nella città in cui è nato. La seconda è il mare che contempla a Spalato, a distanza di trent'anni , dopo aver visto Sarajevo assediata e  aver consegnato aiuti umanitari al sindaco, triste e deluso per una umanità che non vuole decisamente imparare a vivere in pace.
Lui, però, ascolta l'inquietudine del mare: ”Di solito, gli uomini preferiscono credere in ciò che vedono e se non riescono a vedere allora inventano immagini, dai contorni certi. Risolutrici di ogni dubbio, certe nella definizione, possono essere accudite con sacralità, essere oggetto di venerazione. Risposte definitive, rassicuranti nella loro immobilità: questo è il loro segreto. Noi no: preferiamo ascoltare”.
Il bambino cresciuto si è dato un ruolo di vigile sentinella nei confronti della storia, anche se è difficile continuare a credere nell'umanità.
Il ritorno dei palestinesi alle loro case è un problema grosso, ma non per questo è giusto che sia passato sotto silenzio quello di un milione di ebrei espropriati dalle terre che li avevano visti nascere e convivere in tanti paesi arabi; nulla di paragonabile al dolore delle morti nei  campi di sterminio nazista, ma non per questo meno degno di essere ricordato.

In Ghibli Luciana Capretti è mossa, nel narrare la sua storia, dal ricordo personale persistente di un uomo seminudo sbarcato da uno peschereccio che aveva raccolto in mare aperto due persone disidratate e sperdute: uno era suo zio Santo Attardi, fuggito avventurosamente dalla Libia nell'agosto 1970. Ma si intuisce che è mossa anche dalle terribili immagini, molto più attuali, di altri uomini che sbarcano sulle nostre coste, dopo sofferenze inenarrabili. Non termina mai la fuga di uomini che fuggono dai soprusi e dalla violenza e non solo dalla miseria.
Curiosamente tutti e tre i testi hanno un andamento circolare, in cui l'inizio e la fine s'inseguono, anche se in modi diversi. Infatti, in Ghibli, la prima sequenza dell'ex-inserviente dell'oreficeria Attardi, Mahmud, che pregusta l'assegnamento del negozio da parte delle autorità rivoluzionarie, dopo una vita passata a inchinarsi  davanti agli italiani facendo umili servizi, ritorna nell'ultima, come in Stella e Magiar. Affannandosi ad aprire la  cassaforte ancora chiusa e sperando di trovare ori e gioielli, Mahmud rinviene solo un rotolo di panno scuro da cui escono lime, bilancini, pesetti e monocoli, pinzette e misurini con un biglietto: ”E' tutto quello con cui ho cominciato. E' tutto quello che rimane”.
Un punto in comune con il romanzo di Magiar è la descrizione di Tripoli. In quest'ultimo il ricordo è quello di un bambino, perciò sono in primo piano i luoghi del tempo libero delle famiglie, della scuola, degli amici e parenti.
La Capretti ci presenta la dolcevita tripolina, soprattutto quella post- scoperta del petrolio, che fa girare parecchi soldi e affari, in un turbinio di locali, teatri, casinò,  in cui ascoltare Peppino di Capri, Bramieri, Panelli, Valori e Proietti o anche Pollini, Ughi e Gazzelloni in tournée. Il Circolo Italia o il Circolo della Cultura rappresentano il massimo dell'eleganza e della raffinatezza. Nel week-end c'è sempre la possibilità di un bel safari di caccia o fotografico che sia.
Tripoli era dolce, per gli italiani, come i datteri e le banane che maturano nel caldo torrido. Tripoli era dolce, per gli italiani, quando il petrolio comincia a rovinare i deboli, ad arricchire i furbi, a inaridire le campagne, perché i contadini poveri sbarcano nella metropoli, alla ricerca di guadagni più facili ma finiscono per abitare in baracche e lamiere, affollate di mosche e latrine. Invece “gli stranieri affollavano il corso, strombazzavano ai semafori, ridevano al mare, giravano in fuoriserie e ballavano il twist and shake”.
Poi la prima avvisaglia: la cacciata degli ebrei 'nel '67.
Anche in Ghibli troviamo una mini storia della presenza ebraica in Libia. Nel '70, durante la rivoluzione di Gheddafi, pochi sono gli ebrei rimasti, tra questi un buon amico di Santo Attardi, Davide Harbib, orologiaio nella stessa strada dove si trovava il negozio dell'orefice. I militari invadono la sua casa, si prendono gioco crudelmente della moglie e della figlia, poi con violenza lo scaraventano dal primo piano, uccidendolo. E ancora Davide Terracina, prima viene scambiato per una spia israeliana, perché trovato con delle cuffie in testa, mentre ascolta Haydn, poi viene rilasciato e si precipita da un amico della base americana in smantellamento (Gheddafi ha intimato a inglesi e americani di lasciare il territorio) per cercare aiuto. L'amico gli propone di nascondersi dentro una custodia di violoncello, dato che gli strumenti della loro banda musicale sono da inviare a Malta via mare. Terribile il suo viaggio, semisoffocato, sporco dei suoi stessi escrementi, impaurito perché non è in grado di controllare ciò che succede intorno a lui: alla moglie, per telefono, quando arriva a destinazione, Terracina saprà dire solo”sono vivo, sono vivo” e un peschereccio, da secoli abituato a non fare domande, lo trasporterà in Sicilia.
Come Attardi, Antonino Cimò attende un processo giudicato inutile e di cui si sa, già,  in partenza, l'esito, perciò vuole sottrarsi, decidendo di fuggire a nuoto per raggiungere non la Sicilia, ma il Sicilia o il Sardegna, traghetti che fanno la spola con l'isola. Messosi d'accordo con il capitano, nuota fino a che, in acque internazionali, può essere calata la scaletta che lo accoglie.
Solo quattromila italiani lasciano, per timore, la Libia prima dell'ultimatum di Gheddafi, potendo portare beni e denaro. Poi, dopo il luglio 1970, saranno sequestrati tutti i beni, in banca conti e titoli, negozi, aziende industriali e agricole, mezzi di trasporto, comprese le imbarcazioni, per impedire fughe illegali: gli italiani dovranno pagare i debiti, ma non potranno riscuotere crediti, il tutto in acconto di risarcimenti di guerra e danni della colonizzazione. Si potrà partire solo tramite ambasciata, portando documenti e carte varie al centro di raccolta creato nell'ex-fiera, vanto del fascismo. In fretta e furia viene allestita dalle autorità rivoluzionarie una mostra fotografica che sarà l'ultima cosa che i partenti vedranno della Libia: le immagini terribili della deportazione dei libici nelle isole italiane e nei campi di prigionia, dove morirono a migliaia di stenti e per le decimazioni, il bombardamento di gas nervino nel villaggio di Taizerbo il 31 luglio 1930 e simili. Saranno le forche caudine davanti alle quali dovranno passare gli ex-colonizzatori.
Ma l'Italia è distratta, i politici inviano proclami senza convinzione, c’è altro a cui pensare: l'opinione pubblica scossa dalle bombe di piazza Fontana, il terrorismo e la violenza nelle piazze, l'avanzata del centrosinistra, e, perché no, l'ennesima vittoria della Longari ai quiz di Mike Bongiorno, le minigonne di Mary Quant .
Così in ventimila ritornarono con le poche cose con cui erano andati 30 anni prima, per mare come erano partiti, "ma senza la retorica del nuovo impero, le sirene degli incrociatori, la fanfara delle trombe e lo scampanio delle chiese”. Perdipiù con la messa in quarantena delle navi, perché nel frattempo era scoppiata la febbre gialla: “Li tennero un po' in attesa, poi li dovettero accettare con discorsi ufficiali, commozioni estemporanee e promesse roboanti. Lavoro, alloggio, indennizzi. Per prepararsi ad esaudirle li mandarono a svernare nei campi di accoglienza completi di baracche, magri pasti e squallide latrine.”
Per tutti erano i fascisti che tornavano e ci si vergognava un po' di questo passato che tornava improvvisamente a galla.
Ma l'attenzione della Capretti è per le persone in fuga, per chi è costretto in modo violento e repentino a cambiare vita. E non erano tutti fascisti quelli che erano partiti negli anni '30. I ventimila erano composti, in gran parte, dai contadini più poveri di molte regioni italiane, che non avevano mai posseduto un podere o una casa propria o delle sementi da investire per crearsi un futuro. Quelle casette linde e ordinate, provviste di tutto apparvero il giusto paradiso  dopo una vita di privazioni e miseria: non erano stati a pensare che quella terra Mussolini l'aveva presa ai libici per risolvere un problema sociale italiano. E poi, poi si erano abituati al paradiso, avevano assaporato il potere di dominare dei sottoposti che nulla potevano contro di loro .
 La Capretti ce lo racconta tramite i ricordi di Masino, il genero di Claudio Favara, un brillante nipote che aveva raggiunto lo zio Santo e aveva ottenuto un certo successo con una officina  che impiegava manodopera locale. Masino era partito con le navi del 28 ottobre del 1938, vittima dei piani coloniali del duce e di Balbo, trasportato come gli altri con le camionette militari in direzione dei poderi, pensando al sussidio che avrebbe ricevuto, al quintale di farina, alla casa  e non all'odio e al sangue di cui era inzuppata quella terra che si apprestava a coltivare. Aveva poi venduto la terra, alla morte della moglie, nel momento in cui bisognava decidere di prendere la cittadinanza libica per poter possedere terre.
E neanche il padre di Santo Attardi era un fascista, era stato un socialista che non aveva accettato di iscriversi al Fascio e perciò
aveva perso tutto, il lavoro, e via via la casa e quello che possedeva. Si era imbarcato da Palermo con una figlia alla volta di Tripoli dove aveva lavorato come riparatore in una botteguccia di oro nel suq. In seguito l'aveva raggiunto la moglie, vero nerbo della famiglia, dura e dominatrice, che aveva saputo tirarne su le sorti . Così, dopo la guerra, Santo si era fatto strada duramente fino ad arrivare ad un suo negozio di oreficeria e ad un commercio d'oro e gioielli con l'Italia, grato tuttavia a quel padre così mite e buono che gli aveva insegnato un mestiere.
Il bel mondo descritto dalla Capretti raggiunge l'apice con le avventure del rimpatrio dell'avvocato Peluso, legale dei ricchi libici, attività che gli aveva permesso di avere tenute con cavalli e raffinate grandi automobili di prestigio. Ma ormai la sua attività si era fermata: le nuove leggi prevedevano, nei documenti, l'uso dell'arabo e lui, che era stato anche l'avvocato del re, ormai si limitava a scorazzare nervosamente per la città con la sua macchina, guidata dall'autista Ahmad, interprete e collaboratore discreto e fidato.
Alcuni, andandosene rivelano tutta la loro indole furba e intraprendente, come Cassaro, il compagno del viaggio di mare di Attardi che si impossessa di soldi che doveva trafficare e per i quali era stato fermato, addossando la colpa a Santo. O come la moglie di Favara, la Nilde che, prima che gli impiegati di banca si rendano conto delle nuove disposizioni bancarie, si affretta a svuotare il conto in banca, che verrà nascosto in sottofondi di valigia, insieme agli ultimi gioielli salvati da Santo Attardi. E sarà Denise, la moglie francese di Cassaro a trafugare la borsa con i soldi, trasportandola in Italia illegalmente. Come si vede, nella Capretti, gli italiani descritti non sono retoricamente tutti”brava gente”.
Altro motivo comune con il Magiar è quello della solidarietà di alcuni arabi, nel momento delle difficoltà della partenza: non sempre i rapporti sono stati da colonizzatore a colonizzato. Molti italiani andandosene hanno lasciato relazioni umane di scambio, di affetto e stima o gratitudine sincera. Come fra Ahmad, l'autista, e l'avvocato Peluso: le lunghe ore trascorse insieme sono state occasioni di scambi di vista culturali, l'opportunità di conoscere un po' di più la storia libica e i libici. Peluso gli regala un camion, con cui avviare una nuova attività quando lui se ne sarà andato via. Ahmad viene arrestato quando cerca di difendere l'ex-padrone dai soprusi della polizia di frontiera.
Quando i militari si presentarono alla fattoria di Cason per requisire casa, mezzi, attrezzi e prodotti questi si sentì abbracciare forte da un suo lavoratore arabo. L'italiano gli aveva insegnato ad arare, a cercare l'acqua dove non c'era, ad innalzare barriere contro il vento. L'altro gli aveva insegnato ad amare il deserto, le piste, i cammelli, come orientarsi in mezzo a quello che per lui era solo il “vuoto”. Si erano rispettati per tanti anni, non si sarebbero più rivisti.
Tutto il periodo delle partenze degli italiani è segnato dal ghibli che soffia implacabile e senza tregua, “quasi la natura avesse deciso di alleviare l'esodo di migliaia con la sua calda, insostenibile brutalità. Perché il mal d'Africa non fosse così forte e persistente. Perché non li accompagnasse per tutto il resto della loro vita di emigrati in patria. A Tripoli non sarebbero potuti più tornare”.
Libro dal taglio di reportage giornalistico con intenti più di informazione che di riflessione. Ma è appunto l'informazione che è mancata agli italiani, eventi importanti della nostra storia sono stati sottaciuti, perchè non c'è mai stata una vera riflessione sul colonialismo: in fretta si è cercato di dimenticare, ma la mancanza di un processo mentale di decolonizzazione produce rigurgiti razzisti e xenofobi o biecamente nazionalisti e anche una scarsa chiarezza sugli ambigui rapporti attuali con la Libia e il suo dittatore Gheddafi.
 

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