Susan N. Kiguli - Terre che piangono - recensione a cura di Rosella Clavari

Susan N. Kiguli

Terre che piangono

(con testo originale a fronte)

traduzione di Marta Zonca

Interlinea, 2023

 Susan Nalugwa Kigali, classe 1969, è considerata tra i più grandi poeti contemporanei dell’Africa orientale e meridionale; è nata in Uganda, una terra chiamata “la perla dell’Africa” senza sbocco sul mare ma impreziosita nel suo variegato paesaggio dai picchi dei monti Rwenzori e dall’immenso lago Vittoria. Una terra purtroppo segnata dall’orrore delle guerre e dalle tristi vicende dei bambini soldato; nella poesia di Susan Kigali, non è slegata questa memoria da quella di un luogo accogliente, con la presenza degli affetti familiari ( in primis la madre rimasta vedova giovane che l’ha cresciuta nella saggezza antica dei suoi avi) e degli amici. Accanto a loro prendono spicco figure di grandi sportivi che hanno dato lustro alla nazione, come i campioni olimpionici Cheptegei, mezzofondista e il maratoneta Kiprotich e al di là dei connazionali il grande pugile e campione Muhammed Alì che incontrò Foreman nel 1974 in Zaire; ne “L’uomo e la sua sansa” rievoca con affetto il grande musicista camerunese Francis Bebey.

Ricorda anche i grandi esponenti della libertà, eroi nazionali come Nkrumah per il Ghana e Nyerere per la Tanzania. Traspare nella sua poesia, accanto alle memorie personali e intime, “quel senso di comunità, di storia collettiva - che facciano parte del mito o siano contemporanee - così tipiche e forti di una certa cultura”.

Susan Kigali è intimista e corale al tempo stesso. La particolarità che contraddistingue questa artista della parola è saper far convivere sentimenti antitetici come sdegno e speranza, rabbia e consapevolezza sublimando a canto di gratitudine il suo racconto esistenziale.

La lingua da cui sono tradotte le poesie è l’inglese (testo originale a fronte) e riusciamo a percepire la musicalità che può sprigionare nella declamazione in pubblico ma è un ritmo che non si perde anche nella versione italiana. Per questo motivo, meritano di esser lette tutte con attenzione nelle due versioni linguistiche.

Nei ringraziamenti finali l’autrice ricorda la collaborazione con le varie Università e Festival cui ha partecipato e ringrazia Antonella Sinopoli con il suo progetto AfroWomen Poetry che ha reso possibile la pubblicazione di questo volume in edizione bilingue. Ricordiamo che l’autrice è docente presso il Dipartimento di Letteratura all’Università di Makerere dedicandosi in particolare alla ricerca sulla poesia africana orale e scritta e sulle performance poetiche nel Sudafrica del post apartheid e nell’Uganda post guerra civile.

Di seguito una breve selezione di poesie tratte da questo testo.

 

 Noi non scriviamo la nostra poesia

 noi la viviamo [...]

 (da: “A un’amica nella sua prima notte di sonno da quando il figlio è a letto per un altro attacco di anemia falciforme")                                                                                                                                    

Ai mercanti di guerra di tutto il mondo

Diteci

avete iniziato una guerra

così che le nostre donne

potessero essere vendute e umiliate davanti a tutti?

Le nostre ragazze ogni giorno

spogliate della loro umanità

e offerte alle

macchinazioni di folli soldati?

 

Diteci

avete iniziato questa guerra

come una fiera del male

che svela i diversi volti

di Lucifero a masse terrorizzate?

I nostri bambini nudi stringono pistole

al petto.

 

Diteci ora

avete concepito questa guerra

come un catalogo di atrocità

da custodire nelle biblioteche della nostra storia?

 

Avete progettato questa guerra

per bruciarci nelle fiamme delle vostre faide

o l’avete fatto per poter emanare comunicati ufficiali?

 

 

Terre che piangono

 I guai nelle nostre terre

scendono in picchiata come aquile urlatrici

gli artigli aperti sulla

popolazione perplessa.

Io non lo

chi ha invaso chi

chi insegue troni regionali

io non lo so quale gerarchia ringhia

di chi sia il canale radio che mente.

 

Ma ho visto

macerie coprire gli indifesi

persone fatte a pezzi

dita puntate

capi abbracciarsi

persone morire.

 

Io non lo so quale Paese

difendano

di chi siano i bimbi

che proteggono

di chi siano i mercati

che salvaguardano

di chi sia il canale radio che mente.

 

 

 Le madri cantano una ninna nanna

(dopo il genocidio del 1994 in Ruanda)

 

Le madri cantano una ninna nanna

mentre la notte cala sugli alberi

tagliando fuori le ombre.

Le voci suadenti s’insinuano e si attorcigliano

attorno agli arbusti e all’erba alta

che celano montagne di corpi decapitati

e il luccichio dei machete

che hanno squarciato gole urlanti.

In questi campi privi di felicità

le madri tengono viva la melodia della vita

catturando un vento malinconico

per infondere forza con il canto negli animi di bimbi

che non hanno mai conosciuto il sapore dei

fiocchi d’avena al mattino

né udito il frinire dei grilli la sera.

Le madri cantano una ninna nanna

per quei volti allucinati

che si ritraggono impauriti quando odono dei passi

i cui compagni di gioco sono scheletri ridenti.

Le madri si fanno ninna nanna

mettendo a tacere le sirene del dolore

restituendo compassione alla nazione.

 

 

 

L’amore non è una rosa

 

L’amore non è una rosa

perché le rose appassiscono e muoiono.

 

L’amore è acqua che scorre

su un fuoco ardente.

 

L’amore è latte schiumato

fresco di mucca.

 

L’amore è un forte infuso

bevuto in compagnia.

 

L’amore è medicina

per una febbre cocente.

 

L’amore è una preghiera

dalle solide ali.

 

 

 Il formicaio

 

Voglio vedere il tuo volto

di fronte al mio

sempre.

 

Voglio accarezzare

il tenero lobo

del tuo orecchio

con la mia voce

sempre.

 

Voglio trovare

il cielo nelle

mezzelune dei tuoi

occhi

sempre.

 

Voglio che tutti

si stupiscano

di ciò che trovi

nelle mie gambe storte

sempre.

 

Voglio sedere

con te

sul formicaio

vicino alle colline scure come il pane

sempre.

 

Mwalimu Nyerere

(In memoriam)

 

Mwalimu Nyerere

tu, sommo padre, hai scalato

il Kilimangiaro fino all’altro versante,

il tuo volto impresso nella storia.

 

Tu libro della nostra lotta

tu portavoce del nostro popolo

tu bastone per il cammino dell’Africa

il braccio più forte della comunità.

 

Spirito di saggezza

pioniere dell’unità africana

fratello di Kwame Nkrumah

artefice della nostra rinascita.

 

Campione di giustizia

la tua mano sull’Uganda

la tua mano sul Sudafrica

la tua mano sul Burundi

la tua mano sull’Africa.

 

Figlio d’Africa

sostenitore della forza del nostro popolo

artigiano di un comune Tessuto Africano

lavorasti sodo per vedere

la gente mangiare assieme

i bambini andare a scuola

gli ospedali aprire.

 

Figlio di Makerere

filosofo nel nostro Cortile

secondo le usanze del nostro popolo

pronunciamo il tuo nome

segno ultimo della nostra riverenza.

 

 

Amo la mia casa

 […]

Per le risate che si alzano in volo

echeggiando in ogni angolo

per le risate sparse

sui cespugli in fiore

per le risate che sfuggono da ogni anfratto

levandosi per salutare il sole

per le risate da cellulare a cellulare.

 

Per quelli che hanno preso lezioni di danza

nell’utero

che scendono in pista

e si fanno adorare

che si voltano di qua e creano magie

si voltano di là

e mandano miliardi di angeli

a pregarli di non fermarsi mai

per quelli che fischiettano canzoni

e ti spingono a cantarle con loro

tuo malgrado.

 

Per quelli che piangono il lutto

richiamando mille nomi

ricordando nome su nome

ripercorrendo la storia di ogni vita

a loro cara ogni volto d’amore.

Per quelli che sentono il proprio dolore

dentro e fuori

che strisciano e graffiano la terra

come se questa potesse rispondere alle loro domande

per quelli che ogni giorno guardano il cielo

e implorano Dio

continuando ad amare

a sperare

a vivere come se la vita fosse per sempre

per quelli che non si lasciano mai andare

né lasciano le persone che colorano la loro vita

per quelli che fanno della tristezza parte della felicità

un elemento di pace

per vedere il prima, l’ora e il per sempre

 

per la mia gente che mi fa

desiderare di capire ciò che non capisco.

 

 

Mi manca mamma

 […]

Mi manca quella donna gentile

e la sua dolce morbida risata

e quella voce come se la risata fosse velluto

nella sua bocca.

 

Mi manca nostra madre

il modo in cui si gira risoluta

e chiede “Ate ki Mukwano?”

come se l’amicizia fosse tutto

ciò che vorrebbe da noi.

 

Amo nostra madre

quando socchiude gli occhi per dire no

quando si guarda i piedi intendendo

Non c’è bisogno di stupidaggini”.

Quando alza gli occhi

attraversati da quei lampi di luce che dicono ben fatto

e grazie

quando i suoi occhi si riempiono di lacrime in una

preghiera riconoscente

 

Amo nostra madre

e sono contenta di poter scrivere in luganda e in inglese.

Oggi l’ho fatto in inglese

perché quando i nostri occhi si incontrano

parlano luganda.

 

P.S. “Ate ki Mukwano?” significa “che cosa ti preoccupa amico?”

Warsan Shire - Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

Warsan Shire

Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa

Fandango libri,2023

Traduzione di Paola Splendore

Warsan Shire è una poetessa britannica di origine somala: i suoi genitori sono fuggiti dalla Somalia degli anni ’80, in rivolta contro Siad Barre, prima in Kenia dove lei è nata, circa 35 anni fa, poi a Londra, quando lei aveva poco più di un anno. Le sue prime prove poetiche appaiono, a vent’anni, su Tumblr, la piattaforma virtuale dove ognuno può depositare scritti, foto, pensieri peregrini e riflessioni serie. Ben presto viene notata e insignita di un premio dalla Brunel university, dove insegna la scrittrice Bernardine Evaristo, che ha una particolare attenzione per i giovani inglesi di origine africana.  Ma il suo successo dilaga nel web quando la pop star Beyoncé, nel 2016, la chiama a collaborare al video che accompagna l’album Lemonade, dove alcuni suoi testi poetici separano le dodici parti di cui è composta l’opera dell’artista americana. Nota soprattutto sui social instagram e twitter, oltre che per il suo blog, solo recentemente, nel ’21, la Shire ha raggiunto la grande carta stampata e pubblicato una vera antologia poetica che raccoglie le composizioni di circa 10 anni: la Fandango ce la presenta tradotta nel 2023.

La sua poesia rivela i legami con la spoken poetry della scena londinese, con l’impronta di una forte socialità, ma sicuramente se ne distacca per una maggiore raffinatezza del linguaggio e anche per la specificità dei suoi temi: l’immigrazione e l’ambiguità dell’essere inglese di origine somala, il corpo e il desiderio femminile, l’attenzione ai problemi degli adolescenti che vivono tra due mondi culturali, spesso pagando con disturbi alimentari o la devianza.

Attualmente la sua poesia più nota, Home, attraverso la tragedia dei migranti naufragati a Cutro, ha raggiunto un grande pubblico e interroga, con un linguaggio duro, senza mediazioni, diretto come un pugno allo stomaco, le nostre coscienze.

Nessuno lascia casa a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo” [...]

Nessuno lascerebbe casa a meno che non sia la casa a buttarlo fuori” [...]

 “Nessuno mette i figli su una barca, a meno che l’acqua non sia più sicura della terra”:

versi che rimandano al nostro stupore di fronte alla ineluttabilità drammatica precaria e pericolosa, anzi mortale, dettata dalle guerre, dalla fame, dai cambiamenti climatici, dalla mancanza di libertà.

Altri testi sottolineano come, mentre il posto da cui si viene sta sparendo, ( il caso della Somalia è emblematico) il posto in cui si arriva ti accoglie con file, moduli, impiegati solerti quanto freddi e distanti, funzionari dell’immigrazione che invitano continuamente a ripresentarsi; sguardi obliqui di commiserazione o gelido distacco per strada, e poi i corsi di lingua: piomba su tutto la lontananza dal paese che hai lasciato. Niente ti fa sentire a posto nella tua nuova casa. Non hai il corpo e la bellezza giusta, la cultura o la religione giusta, hai altre usanze e odori (o profumi…) che ti porti addosso. Tutti i testi recano un’impronta biografica: un’infanzia e adolescenza traumatiche vissute dalla poetessa. Un padre e una madre molto diversi tra loro e alla fine divorziati cui succede un nuovo e controverso matrimonio della mamma con un uomo violento. La ragazza ha un percorso scolastico accidentato, accompagnato da bulimia e vicinanza alle droghe, tutto questo pur facendo da madre alle sorelline nate dal secondo marito della mamma.

Comunque situazioni condivise da tanti altri soggetti emigrati ed esuli. Si sente che l’ispirazione affonda anche nelle storie della collettività migrante della famiglia o degli amici e conoscenti. Una sorta di voglia di bianchezza invade le bambine nere quando, confuse, immaginano di chiamarsi Tiffany o Kimberly in una vita privilegiata di un lucore abbagliante, compreso Dio che le guarda benevolo. L’autrice prende spunto anche da dolorosi fatti di cronaca che hanno riguardato donne e bambine nere o da donne famose dello spettacolo presentate come esempi. Ci rivela ritratti di sé e di altri adolescenti persi dietro esperienze di sesso e corporalità di cui però non possono parlare in famiglia, perché è haram. Non perdona alla sua comunità le mutilazioni genitali delle femmine o la tiepidissima accoglienza riservate ad esse alla nascita, segno di una differenza con i maschi privilegiati e di una esistenza all’insegna di obblighi e doveri, senza diritti.

Ciononostante non c’è livore nei confronti dei suoi genitori, spesso ritratti come quando erano giovani in una Somalia diversa. Entrano nella raccolta tanti versi dedicati al padre, visto nei suoi sogni o perso dietro le sue nostalgie di una Somalia che non c’è più. Sente di dovere molto a suo padre, istruito e tollerante: l’amore per la cultura le nasce da lui. Rispetto alla madre, che non si fa domande, che accetta tutto, che si sottomette al destino e cerca di vivere come se fosse ancora in Somalia ha, però, dei moti di ribellione. Non ne sopporta il comportamento religioso fatto di divieti formali e acquiescenza al destino e alle regole morali della comunità somala. La madre diventa un’amata estranea a cui può confessare di avercela fatta. Infatti ringrazia la sua ostinazione a non volere essere la ragazza che la madre e il parentado volevano, seguendo ciò che l’interiorità le suggeriva, permettendole di uscire fuori dal marasma giovanile e di avviarsi verso una accettazione critica e combattiva della duplicità della sua vita.

Warsan Shire è una guerriera e in modo quasi blasfemo si rivolge ad Allah da pari a pari, imprecando o supplicando di benedire cose che in realtà non dovrebbero essere benedette, ma attraversando le quali ha raggiunto una maggiore comprensione della realtà. Spesso questi versi utilizzano una ironia feroce come quando dice di aver pregato il dio delle diete (e dove era Dio durante la carestia in Somalia?) o quando mette in scena una sua amica che mostra al marito la prova della sua verginità, utilizzando …sangue di piccione. La poetessa mostra la sua appartenenza religiosa all’islam, piena di tensione e tuttavia non rinnegata, perché sentita come parte integrante della cultura in cui è cresciuta. Si sente che i suoi versi hanno bisogno dell’ascolto della carnalità di una voce recitante più che di una lettura silenziosa, s’intuisce la musicalità dalla flessione dei toni: l’autrice non solo ha imparato ad amare i classici, ma non ha mai dimenticato che in Somalia la poesia orale è sempre stata una tradizione culturale diffusa e amata. Lei le ha dato un tocco effervescente di melting pot metropolitano che sa un po’ di rock, un po’ di pop e un po’ di jazz.

Di seguito, una scelta di poesie tratte da questa antologia:

Infanzia estrema

Un nodo, una bambina nata/ in ogni casa, preludio di sofferenza./ Benedici la bambina, membrana di scontento/ santa patrona del non/ abbastanza buono./Sei lì Dio?/ Sono io, Warsan./ Fantasia compulsiva,/ ossessiva, dissociativa./ Nata con una ninna nanna/ che lamenta la melanina/ orecchie appena nate controllate/ per i primi segni di colore. / All’inizio avevo paura, ero impietrita./ Ogni sera la bambina legge le sure/ per sottrarsi all’il/ proteggere corpo e casa/ dagli intrusi./ Si sveglia piena di spavento,/ qualcuno recide il cordone, qualcosa si insinua/ dentro nel profondo. / Sei lì, Dio?/ Sono io, quella brutta./ Benedici la bambina capelli afro,/ testa massaggiata col latte/ dalla crudeltà, cranio maledetto, / schiacciato tra ginocchia adulte, intriso di pink lotion./ Tutto quello che mi hai fatto/ lo ricordo./ Ce l’ho fatta, mamma, a uscire viva dalla tua/ casa, cresciuta/ dalle voci/ nella mia testa.

Assimilazione

Non abbiamo mai disfatto le valigie, / sognavamo nella lingua sbagliata,/ portavamo nei piedi le paure di nostra madre- / se lui alza la voce scappiamo/ se sembra annoiato ce la filiamo / incapaci di rimuovere il rifugiato dal cuore,/ incapaci di dormire per una notte intera./

Il cuore del rifugiato ha sei stanze./ Nella prima c’è la valigia intatta di tua madre./ Nella seconda, tuo padre che piange tra le mani./ La terza stanza è un ufficio di immigrazione,/ le tue gambe tagliate nella quarta,/ nella quinta un utero – il tuo?/ La sesta si apre con i documenti giusti./

Non riesco a eliminare il rifugiato dal mio corpo,/ sprango il corpo ogni volta che posso. / Quante pillole ci vogliono per dormire?/ Quante per incontrare i morti?/ Il cuore del rifugiato spesso si ricopre/ di uno strato esterno. L’assimilazione./ Protegge l’organo. Chi non riesce a crescere la pelle in più/ muore nel giro di sei mesi nel paese che lo ospita. / A ogni posto di blocco chiedono al rifugiato sei umano?/ Il rifugiato è sicuro di essere ancora umano ma teme che di notte,/ mentre dormiva, possa essere cambiata la classificazione.

Casa

Nessuno lascia casa a meno che la casa non sia la bocca/ di uno squalo. Fuggi verso il confine solo quando vedi/ che tutta la città è in fuga. Il ragazzo con cui andavi a/ scuola, che ti stordiva di baci dietro la vecchia fabbrica di/ lattine, ora impugna una pistola più grande di lui. Lasci / casa solo quando è la casa a scacciarti./

Nessuno lascerebbe casa a meno che non sia la casa a / buttarlo fuori. Non avevi mai pensato di farlo, e quando/ l’hai fatto, hai mormorato l’inno nazionale a mezza/ bocca, hai aspettato fino al bagno dell’aeroporto per/ strappare il passaporto e ingoiarlo, a ogni triste boccone/ ti era chiaro che non saresti più tornata. /

Nessuno mette i figli su una barca, a meno che l’acqua/ non sia più sicura della terra. Nessuno sceglie giorni e/ notti nel ventre di un camion a meno che le miglia percorse/ non valgano un po’ più del viaggio. /

Nessuno sceglierebbe di strisciare sotto i reticolati,/ farsi pestare finché l’ombra non ti abbandona, stuprata,/ buttata fuori dalla barca perché sei più scura, annegata,/ venduta, affamata, sparata alla frontiera/ come una bestia malata, compatita./ Nessuno sceglierebbe/ un campo profughi per passarci un anno o due o dieci,/ spogliata e perquisita, trovando dappertutto una prigione./ E se mai sopravvivi, salutata dall’altra parte- / Andatevene a casa Negri, sporchi rifugiati, succhiate il latte/ del nostro paese, neri con le mani tese, e odori sconosciuti,/ selvaggi, guardate come hanno ridotto il loro / paese, cosa faranno al nostro?

Gli insulti sono più facili da ingoiare che trovare il corpo/ di tuo figlio tra le macerie./

Voglio tornare a casa, ma la mia casa è la bocca di uno /squalo. Casa è la canna di un fucile. Nessuno lascerebbe/ casa se non fosse la casa a spingerti verso il mare./ Nessuno lascerebbe casa se non quando la casa è una voce / all’orecchio che dice – vattene, corri, subito. Non so più /cosa sono.

Mio padre, l’astronauta

Se la luna era l’Europa, mio padre era l’astronauta che morì/ mentre andava sulla luna./ Mio padre, l’esploratore lunare mancato, accecato dallo / spazio. Mio padre, il cosmonauta nero, in delirio/ per la sete. Mio padre che sentì la voce di Dio, chiara come/ il richiamo alla preghiera, sospesa in quel deserto oscuro./ Mio padre con la tuta spaziale squarciata dal desiderio, che/ avanzava vorticando nel vasto deserto. / Una notte, dopo che gli angeli avranno richiuso le ali,/ potresti scorgere mio padre/ che sfreccia nello spazio, il suo corpo trasportato dall’assenza / di gravità, il sangue che gli va alla testa,/ le sue lacrime grumi rosa viscosi, incapaci di cadere.

Benedici la brava donna di casa

Benedici quelle che sanno aspettare/ come fa hooyo, aspettando che lui muoia./ Rigida nel suo solo corpo umano, resta/ per il bene dei ragazzi, poi resta/ solo per restare, sopporta,/ rinuncia, aspettando l’angelo della morte. / Dice che è tanto più difficile lasciare/ il secondo matrimonio, che non vuole crescere/ i figli come ha dovuto fare con noi, e Cosa direbbe la gente?/ Chiedo E se muori mentre aspetti?/ In un sogno ricorrente, / quello in cui guida da sola all’alba/ su una strada sterrata, e supera cammelli al pascolo, / la treccia le si scioglie al vento, il sole/ spunta, una Somalia senza guerra nello specchietto retrovisore./ Pensa a tutto questo, e ride.

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La poesia di Inez Andrade Paes- a cura di Anna Fresu

Da “Cammina un ponte sull’acqua: poesie di Inez Andrade Paes” di Anna Fresu. Estratto da articolo pubblicato su rivista online La macchina sognante 21.12.2022

 

 INEZ ANDRADE PAES

Portoghese, ma nata e vissuta a lungo al nord del Mozambico, a Pemba, nella regione di Cabo Delgado, vive da molti anni a Válega, in Portogallo. Coordina il Premio Letterario intitolato alla grande poetessa Glória de Sant’Anna, sua madre, (sposata nel 1949 con l’architetto Afonso Enrique Manta Andrade Pae , con cui visse in Mozambico dal 1951 al 1974), premio istituito nel 2012, il cui obiettivo è divulgare la poesia contemporanea in lingua portoghese. Oltre a occuparsi di scrittura sia in poesia che in prosa, si dedica anche alla pittura, all’illustrazione e alla fotografia. Ha pubblicato: O Mar que Toca en Ti (cronaca di viaggio, 2006); Paredes Abertas ao Céu (poesia, 2011); Cantoriana Marítima – libretto per un’opera in tre atti: I. Mar Falante, II. Transparente Luva de Água, III. Flores de Acanto em Marfileno Lençol; Da Estrada Vermelha (poesia, 2015; Da Eterna Vontade. 2015, Labirinto); À Margem de todos os Rostos (poesia, 2017, Coisas de LerColeção Clepsydra; Sobre a Água anda uma Ponte, 2018, Glaciar).

La poesia di Inez Andrade Paes è una poesia intimista; di un’intimità che è un aprirsi al dentro e al fuori, che si fa corpo, che diventa empatia e osmosi con tutto ciò che vive: il sé, la natura, il mare, il sole, il vento, gli alberi, i pesci, le conchiglie, gli uccelli; è luce e, a volte, ombra, velo. È il visibile e il non-visibile, è “tutto ciò che l’amore intende e ci trasmette la morte” . E tutti questi elementi sono metafora, simbolo ma sono anche fortemente e volutamente reali. È la sua, una poesia che si tuffa a tratti nell’oscurità dei giorni e da essa porta a galla la luce. Poesia come gesto d’amore, poesia come evocazione di ciò che si perde, come canto dell’assenza. Poesia che è trasparenza, armonia, fluidità, nitore, cura estrema e ricerca della parola e del verso scartando, sfrondando, mirando all’essenziale perché “la Poesia pulisce ciò che nasconde la verità”.

In un’intervista di Álvaro Alves de Faria, sulla rivista Caliban, a proposito di quale sia il ruolo della poesia nel nostro mondo perturbato, Inez Andrade Paes così risponde: “Il ruolo della poesia continua ad essere lo stesso: mantenere vive alcune delle verità eterne. La poesia ristruttura, ristabilisce i motivi per creare e credere. Per capire che il fondamento della vita è l’amore. E intanto il poeta soffre di questo stesso amore. Ma quando scrive si illumina e a volte illumina gli altri.

Inez Andrade Paes è nata in Mozambico da famiglia portoghese e ha lasciato il paese poco dopo l’indipendenza. Per questo le ho chiesto se il luogo in cui è nata, considerando anche il legame che so ancora la unisce al Mozambico, ha in qualche modo influito sul suo essere Poeta, su sui versi, sul suo immaginario. Così mi ha risposto: “Sono nata in Mozambico dove ho vissuto fino all’adolescenza. Tutti i profumi, i colori, le allegrie, le difficoltà restano anche dopo che mi sono separata da questa terra e modellano profondamente la mia scrittura. La maggior parte delle mie poesie riflette questa dinamica costante. È da lì che io parto per la poesia ed è da lì che parto per la fuga. Il pensiero richiede un limite, desidera urgentemente un limite. E lo spazio, lo spazio che il pensiero abita, come lo spazio fisico, si costruisce al compasso del petto che respira e al compasso del cuore che batte”.

E alla domanda su quale relazione abbia con i poeti mozambicani di ieri e di oggi, aggiunge: “Vivo lontana dai luoghi di culto e dagli incontri poetici. Tuttavia immagino questi poeti che conosco, alcuni morti altri ancora in vita, e anche quelli che non conosco, cantando con voci allucinatamente belle sopravvivendo alle disgrazie, ai dolori, agli amori che si rivelarono e si rivelano nelle parole di ognuno di loro. Mozambicani, o no, i poeti continuano ad amare, a scrivere, pulendo i coltelli del corpo, come cavalli stanchi montati da bestie immonde. Nella poesia mozambicana si riconoscono suoni e immagini di una lirica che molto deve a Glória de Sant’Anna. Questa lotta ha dato forma a parole e colori che hanno creato un’eco nel mio modo di sentire le cose. Ma non soltanto”.

Glória de Sant’Anna era la madre di Inez, le chiedo quindi in che modo l’essere figlia di una poetessa così importante ha influenzato, e in che modo, il suo desiderio e il suo modo di fare, di sentirsi Poeta. “Avere come Madre una scrittrice /poeta pesa su di me per la responsabilità di inseguire il mio proprio modo di scrivere. È naturale che l’intimità della scrittura di Glória de Sant’Anna mi tocchi in maniera particolare, come una conversazione a due, ciò che può ispirare la ricerca della voce di Glória nella mia voce. C’è sicuramente una grande influenza, dovuta alla condivisione della vita quotidiana per 46 anni. Sono cresciuta in mezzo a un costante sguardo letterario, poetico, che mi permette ancora di liberarmi dentro la mia propria voce. Intanto, sarà sempre la poesia di Glória de Sant’Anna il mio maggior riferimento

Che cos’è quindi per Inez la poesia? È ricercare l’essenza di tutto perché la poesia scarnifica, “pulisce ciò che occulta la verità. Libera la bocca dalle radici indifese che crescono senza porte né finestre”. E essere Poeta “è guardare dentro di sé i giorni”.

 

1.

 

À minha mãe que me ensinou a amar sobre a água

dentro dela anda uma ponte sobre a água dentro dela

anda uma ponte de noite deita-se

levando-a inteira ao fundo espaço verde

de oiro um musgo

prende-se nos seus pés e marca

todo o caminho de volta

 

A mia madre che mi insegnò ad amare

Sull’acqua dentro di lei

cammina un ponte sull’acqua

dentro di lei

cammina un ponte di notte si stende

portandola intera nel profondo spazio verde

d’oro

un muschio

si afferra ai suoi piedi e segna

tutto il cammino del ritorno

Chi Siamo2.

2.

 

ai          a morte

nem em pedra se profeta ou se acomete ai a vida

que se encontra em tudo e todo o limite que é ordem e

secreto

ai        o corpo que se desenrola neste poema que é arma de um sossego

sem proferir

quase a inútil certeza

 

lì         la morte

che si libera di quel corpo

né in pietra si profetizza o si affronta lì la vita

che si trova in tutto e in ogni limite che è ordine e

segreto

lì         il corpo che si srotola in questa poesia che è arma

di un silenzio

senza proferire

quasi l’inutile certezza

 

3.

 

peço então à água que ampare esse ser

para que descanse das batidas violentas

que chegam em turbilhão peço que se desnude ali antes

bem a meio palmo

e se quebre em duas

para que o sofrimento acabe

 

 

Chiedo allora all’acqua

che protegga quell’essere affinché riposi dai colpi violenti

che arrivano in turbine

chiedo che si denudi lì prima proprio a mezzo palmo

e si spezzi in due

affinché la sofferenza abbia fine

 

 

4.

 

há pássaros no fundo deste océano

e olhares exangues ao lado das conchas

saberás tu cantar como éles? Ou neste mar o sal não

cura?

tantas feridas abertas e cruas sofrem como lapas à

deriva roçando no chão as línguas abertas

à margem de todos os rostos sentidos e os olhares

disperso no meio de tudo aquilo que é mar aquilo que é

fundo

 

ci sono uccelli in fondo a quest’oceano. e sguardi esangui

accanto alle conchiglie saprai tu cantare come loro?

O in questo mare il sale non cura?

tante ferite aperte e crude soffrono come patelle alla deriva

strofinando per terra le lingue aperte al margine di tutti i

volti sentiti

e gli sguardi dispersi in mezzo a tutto quello che è mare

a quello che è profondo

 

5.

 

quando a garganta seca na palavra áspera

dita com certeza

por um momento claro

envolvo o corpo em concha e medito

no espaço

entre a palavra dita e a ferida aberta

com a garganta seca e a boca fechada.

 

quando la gola si secca nella parola aspra detta con

certezza

per un momento chiaro

racchiudo il corpo a conchiglia e medito

nello spazio

fra la parola detta e la ferita aperta con la gola secca e la

bocca chiusa.

 

...6.

 

SE MENTES?

 

hoje é dia das mentiras e no entanto todos os dias se

mente se mente na liberdade

se mente na glória

se mente com armas na mão

se mente com o punho cerrado em socos poderosos no

tampo de uma secretária se mente por um nada

se mente por um todo

e mais um ano volta-se a mentir porque é o dia das

mentiras e até se ensina aos pequeninos, que é só

naquele dia que se mente

no entanto esse menino que é a semente volta a cerrar o

punho e a dividir a sua mais crua realidade

a da vida

numa outra mente

 

se mente por um pão se mente por um chão

se mente por um dia ausente

 

outra semente ausente desta sina existe e não mente

 

mesmo no dia das mentiras

 

SE MENTI?

oggi è il giorno delle menzogne e intanto tutti i giorni si mente si mente nella libertà

si mente nella gloria

si mente con le armi in mano

si mente col pugno chiuso nei colpi potenti sul piano di una scrivania

si mente per un niente si mente per un tutto

e un anno ancora si torna a mentire perché è il giorno delle menzogne e persino ai piccini si insegna,

che è solo in quel giorno che si mente

e intanto quel bambino che è semente torna a chiudere il pugno

e a dividere la sua più cruda realtà quella della vita

in un’altra mente

.

si mente per un pane si mente per una terra

si mente per un giorno assente

 

un’altra semente assente di questo fato esiste e non mente

 

nemmeno il giorno delle menzogne

 

( In Portogallo, il 1°Aprile è “o dia das mentiras” (il giorno delle menzogne, delle bugie).

Traducendo “scherzi”, più corrispondente all’equivalente italiano, avrei però alterato il senso e il gioco linguistico dei versi).

 

7.

 

O Cedro abana en silêncio Porque è morto e não cai

 

Com o vento que venha de longe E traga o ruido do Mar

 

O Cedro abana sem vento Grita com dores

 

De ferido doído

 

 

Il Cedro oscilla in silenzio perché è morto

e non cade

con il vento che venga da lontano e porti il rumore del

Mare

 

il Cedro oscilla in silenzio grida con dolori

 

di ferito dolente

 

 

8.

 

Preciso do silêncio da manhã

Silêncio cristalino lavado pela cacimba

da noite que chorou mágoas de poetas acordados.

 

Preciso do silêncio mais cansados da noite

onde as maiores alegrias das imagens naescrita surgem

para ajudar o que ressoa o pensamento e se juntaà

cacimba e lava lava e nos transforma.

 

Gosto da vida na inquietude de mim

quando me preparo para sair do que é lógico.

 

Ho bisogno del silenzio del mattino

silenzio cristallino lavato dalla bruma della notte che ha

pianto pene di poeti destati.

Ho bisogno del silenzio più stanco della notte

dove le migliori allegrie delle immagini sorgono nella

scrittura

per aiutare quel che il pensiero risuona e si unisce alla

bruma e lava e ci trasforma.

Amo la vita nell’inquietudine di me

quando mi preparo ad uscire da quel che è logico.

 

9.

 

dois mensageiros morrem de caneta na mão

a boca cala-se

as mãos de um              as mãos do outro são de escriba

um dia foi Poeta           no outro Cantor

 

dois mensageiros morreram aqui os lembro

tenho a porta aberta o sol entra

e os pássaros dentro de casa

 

 

due messaggeri muoiono con la penna in mano

la bocca tace

le mani di uno          le mani dell’altro un giorno fu

Poeta                         nell’altro Cantore

Due messaggeri morirono qui li ricordo

tengo la porta aperta il sole entra

e gli uccelli dentro la casa

 

10.

sou eu

 

que vos chamo

do jardim com tantas flores do tamanho de pequeninos

bicos de Felosas

sou eu que vos chamo e digo vinde

passem as palmas das vossas mãos neste tapete de

verde profundo

com riscos de lápis branco vinde

deitai-vos comigo vede

sou eu que imagino

que este tapete me leva a vós ate ao infinito onde me

aguardam

 

sempre de perfil a parecer ausentes onde me aguardam

a dizer que sou gente

 

um dia sentar-me-ei e tocar-vos-ei de novo sorriremos

juntos a fechar os olhos húmidos

 

cá em baixo a chuva de sal deixará um rasto branco a

decorar brilhante os corais ainda

 

na Baía de Pemba

 

Sono io

che vi chiamo

dal giardino con tanti fiori della grandezza di piccoli

becchi di Filose

sono io che vi chiamo e dico venite

passate i palmi delle vostre mani

su questo tappeto di verde profondo con righe fatte con

la matita bianca

venite

sdraiatevi con me vedete

sono io che immagino

che questo tappeto mi porta a voi fino all’infinito dove mi

attendono

sempre di profilo a sembrare assenti

dove mi attendono per dirmi che io sono gente

un giorno mi siederò e vi toccherò di nuovo sorrideremo

insieme chiudendo gli occhi umidi

quaggiù la pioggia di sale lascerà una scia bianca a fare

ancora più brillanti i coralli

 

nella Baia di Pemba

                                                    (Le poesie, tradotte da Anna Fresu, sono tratte dalle diverse sillogi dell’autrice)

"O poeta enclausurado"- poesie di José Craveirinha

O POETA ENCLAUSURADO” poesie di JOSÉ CRAVEIRINHA

Introduzione e traduzione poesie di Anna Fresu

José Craveirinha (Lourenço Marques/Maputo1922-2003), di padre portoghese e madre ronga (la popolazione del sud del Mozambico), considerato uno dei più grandi poeti di lingua portoghese, ha contribuito con la sua poesia alla costruzione dell’identità nazionale. In Italia è stato tradotto per la prima volta da Joyce Lussu nell’antologia poetica“Cantico a un Dio di catrame”, Lerici, Roma, 1966 e nella nuova antologia che abbiamo curato e tradotto insieme,“Voglio essere tamburo”, Centro Internazionale della Grafica, Venezia, 1991, con incisioni della pittrice mozambicana Bertina Lopes. Perseguitato per i suoi versi eversivi che denunciavano le violenze di cui erano vittima i mozambicani e le mozambicane ad opera dei colonizzatori portoghesi e per la sua attività politica a sostegno del FRELIMO (Fronte di Liberazione del Mozambico) e della lotta di liberazione, Craveirinha viene processato, condannato e mandato al carcere di Machava nell’allora capitale Lourenço Marques, oggi Maputo, assieme al poeta Rui Nogar e al pittore Malangatana, fra gli altri. Una delle prove a carico dell’accusa era stata il suo libro“Chigubo”stampato clandestinamente a Lisbona nel 1964 dalla Casa dos Estudantes do Império e subito sequestrato dalla PIDE (la polizia politica portoghese). Il poeta restò in carcere dal 1965 al 1969. Molte delle poesie scritte in carcere e portate fuori dalla moglie Maria, costituiscono con altre, scritte successivamente, il libro Cela 1, pubblicato solo nel 1980, dopo l’indipendenza (1975) dalle Edições 70, Lisbona per l’INLD (Istituto Nazionale del Libro e del Disco – Maputo, Repubblica Popolare del Mozambico). Joyce Lussu in“Tradurre poesia”[1], racconta il suo viaggio in Mozambico intrapreso con la speranza di incontrare il poeta che però si trovava in carcere. Joyce Lussu non era nuova a queste imprese, l’aveva già fatto, ma con maggior successo, per Nazim Hikmet e il poeta angolano e futuro presidente Agostinho Neto di cui è stata sempre la prima a farci conoscere le opere attraverso le sue traduzioni. Poté comunque visitare il quartiere di Mafalala in cui il poeta ha sempre vissuto e di cui tanto ha parlato nei suoi versi, ed incontrare sua moglie. Il libro Cela 1 non è stato ancora tradotto in Italia, eccetto per alcune poesie apparse in rivista e quelle che qui propongo vengono da me tradotte per la prima volta. I versi di Cela 1 segnano un cambiamento nella poetica di Craveirinha rispetto alla produzione precedente, diventano più duri, più scarni, probabilmente anche a causa delle condizioni del carcere e anche della necessaria rapidità in cui ha dovuto scriverli su pezzetti di carta che la moglie poteva nascondere facilmente nella scollatura o imparare a memoria per poi trascriverli successivamente.

[1] Mondadori, Milano – 1967; Robin edizioni, Roma -1999.

 

UNA CANZONE IN 3 TEMPI

1.

I

Il poeta recluso

o anche soltanto incomunicabile per sei mesi

circola

e funziona

come un irrevocabile

perfetto colpo di stato.

Perfino Platone,

furbo, lo sapeva già!

 

II

Il poeta

anche se incarcerato

non ha mai il problema

di sentirsi completamente solo.

 

Perché la poesia non gli permette

di essere in prigione

e restare da solo.

 

III

 La difficoltà della vera poesia non sono le idee.

Sono le parole.

Quando

per esempio voglio dire

che la città di notte è il palazzo

dove inquilini privilegiati

perché disoccupati

non pagano l’affitto…

 Penso…

ma senza parole

posso confessare molte cose ma

nessuno ne sa niente.

 

(1960)

 

UMA CANTIGA EM 3 TEMPOS

 I

O poeta enclausurado

ou mesmo incomunicável seis meses

circula

e funciona

como um irrevogável

perfeito golpe de estado.

 

Até Platão

esperto já sabia disso!

 

II

 O poeta

apesar de preso

nunca tem o problema

de sentir-se completamente só.

 

Porque a poesia não lhe permite

estar detido

e ficar sozinho.

 

III

 A dificuldade

da verdadeira poesia não são as idéias.

São as palavras.

 

Quando

por exemplo quero dizer

que a cidade à noite é o palácio

onde privilegiados inquilinos

por estarem desempregados

não pagam renda…

 

Penso…

mas sem palavras

posso confessar muita coisa mas

ninguém sabe nada.

 

 2.

 INTERROGATORIO

 I

Lo sguardo

acquoso con cui ci fissa il serpente

e un giallo di pus che versa

il suo veleno dentro il nostro ostinato

mutismo.

Mille rospi gracidando

ripetono il ritmo della mascella che danza.

E

Sotto il viscido sguardo del rettile fumante

saliamo sul tetto del covile un milione

di volte più leggeri al peso

del panico.

 II

 Calmi

quattro ore di fila

comodamente seduti su una sedia

al millesimo secolo di domande

torniamo alla prima infanzia

e ci viene forte senza piscio

la voglia di pisciare!

 

Ma…

Non parliamo!

 

I nostri sorrisi mozambicanizzati

previamente da carezze

di manganelli.

 E

le bocche gonfie

imitando il rosso del sangue naturale

rendono autentico questo verso.

 

(1966)

 

 INTERROGATÓRIO

 I

O olhar

aquoso na nhoca a fitar-nos

e um amarelo de pus vertendo

o seu veneno dentro do nosso obstinado

mutismo.

 

Mil sapos coaxando

fazem o ritmo da maxila que dança.

 E

ao viscoso olhar do réptil a fumar

subimos ao tecto do covil um milhão

de vezes mais leves ao peso

do pânico.

 

II

 Quietos

quatro horas seguidas

comodamente sentados numa cadeira

ao milésimo século de perguntas

voltamos à primeira infância

e dá-nos forte sem mijo

a mijaneira!

 Mas…

Não falamos!

 

Nossos

sorrisos moçambicanizados

previamente a carícias

de cacetadas.

 

E

as bocas inchadas

a sangue natural imitando o vermelho

tornam autêntico este verso.

 

3.

Notti nauseate da un milione di angosce

spezzano le unghie nella lascivia delle morbide

pareti di cemento (menzogna, non sono morbide) imbiancato

e nell’amoroso carcere assordante di silenzi

il buio obbligatorio delle 9 di sera

moltiplica i nostri allarmi

ai passi degli stivali

dei carcerieri.

 

Dopo queste notti

sofferte come le soffrimmo

quando non tacemmo in un comizio,

rispettate un diritto conquistato

e anche se non lo dite

pensate: – GRAZIE

COMPAGNI!

 

Noites enjoadas de um milhão de angústias

racham-me as unhas na lascívia das macias

paredes de cimento (mentira não são macias) caiado

e no amoroso cárcere ensurdecedor de silêncios

o obrigatório escuro das 9 da noite

multiplica os nossos alertas

aos passos das botas

dos carcereiros.

 

Depois destas noites

sentidas como as sentimos

quando nós nos calamos num comício

respeitem um direito conquistado

e mesmo que não digam

pensem: – OBRIGADO

COMPANHEIROS!

 

4.

AFORISMO

 C’era una formica

che divideva con me l’isolamento

e insieme mangiavamo.

 

Eravamo uguali

con due differenze:

lei non veniva interrogata

e per disattenzione potevano calpestarla.

Ma a entrambi intenzionalmente

potevano metterci in ginocchio

ma non potevano

farci inginocchiare.

 

(1968)

 

 AFORISMO

Havia uma formiga

compartilhando comigo o isolamento

e comendo juntos.

 

Estávamos iguais

com duas diferenças:

 

não era interrogada

e por descuido podiam pisá-la.

 

Mas aos dois intencionalmente

podiam pôr-nos de rastos

mas não podiam

Ajoelhar-nos.

 5.

 AMORE DOLENTE

 Baci.

Carezze.

Questo infinito sentimento

nell’amore reciproco di un uomo e di una donna

per non dimenticarci mai assolutamente

dell’amore degli amori più amati

l’amore chiamato patria!

 

Bavagli.

Bacchettate.

Prigioni.

Anelli di ferro alle caviglie.

 

E nell’infinito amore dolente

anche il bacio infantile dei figli

la tenerezza ferita instancabile della sposa

una coperta grande e una piccola per tutt’e quattro

e nascosto sotto una tavola schiodata da terra

il giornale che parla di Fidel.

 

E anche se dovessero tirarci addosso l’argomento,

con la sigaretta in bocca e il lugubre revolver sul tavolo,

non mostreremo la carta conservata sotto la tavola in soffitta

lì a far dell’amore nascosto

il futuro di un popolo.

 

(1958)

 

 AMOR A DOER

 Beijos.

Carícias.

Este infinito sentimento

no recíproco amor homem e mulher

para jamais nos esquecermos de vez

do amor dos amores mais amados

o amor chamado pátria!

 

Mordaças.

Palmatoadas.

Calabouços.

Anilhas de ferro nos tornozelos.

 

E no infinito amor a doer

também o infantil beijo dos filhos

a magoada ternura incansável da esposa

um cobertor grande e um pequeno para os quatro

e numa tábua despregada no chão

escondido o jornal a falar do Fidel!

 

E nem que nos caia em cima o argumento

de cigarro na boca e lúgubre revólver em cima da mesa

não mostraremos o papel guardado na tábua do soalho

ali a fazer do amor escondido

o futuro de um povo.

 

6.

PRIGIONE

I

 Qui

dove neanche uno della PIDE ci sente

gridare nel dialetto nazionale degli oppressi

costruiamo

I sogni più fantastici

col materiale invisibile della speranza

la realtà universale dentro

il popolo là fuori!

 II

 Patria:

a causa di noi due

l’unico qualcuno che annusa l’odore

della propria paura

è il carceriere.

 III

 Patria:

il nostro stesso timore

ci porta al culmine della furia

ma il carceriere con la sua stessa paura

fabbrica per tutta la polizia

l’acme della disperazione.

 (1966)

 

.CALABOUÇO

 I

Aqui

onde nem um pide nos ouve

a gritar no dialecto nacional dos oprimidos

os mais fantásticos sonhos

construímos

com o invisível material da esperança

a realidade universal dentro

do povo lá fora!

 II

Pátria:

por causa de nós os dois

o único alguém a cheirar o cheiro

do seu próprio medo

è o carcereiro.

 III

Pátria:

o nosso próprio receio

leva-nos ao cúmulo da fúria

mas ao carcereiro o próprio medo

fabrica para toda a polícia

o auge do desespero.

 

 

José Craveirinha- Memoria di un poeta

 

 

            Ricorre quest'anno il centenario della nascita del grande poeta mozambicano José Craveirinha (28 maggio 1922, Maputo, Mozambico- 6 febbraio 2003, Johannesburg, Sudafrica).

 Questo racconto è a lui dedicato.

Il poeta guardava le pareti della sua cella, una volta bianche. Col manico del cucchiaio incideva parole, sfogava la sua angoscia. A volte il suo sguardo si velava per un rivolo di sangue che colava da una ferita che il sopracciglio corrugato faceva riaprire. Aveva ripetuto solo il suo nome, quello di un Zé Ninguém, di un nessuno di memoria paterna. Ma nelle sue vene scorrevano i fiumi della sua terra, Maputo, Limpopo, Zambesi, Rovuma… quelli di sua madre, ragazza del sud che l’amore aveva portato fra le braccia di quel suo padre, povero emigrante. Nella testa sentiva ancora le note struggenti di un fado che suo padre gli cantava al suono della chitarra. Nel cuore, i battiti del tamburo che riecheggiavano nel “silenzio amaro” del suo quartiere di legno e zinco.

 Altro non aveva detto. Non i nomi di chi andava a raggiungere su quel treno lento che varcava la frontiera, né i luoghi dove si riunivano, né le azioni che preparavano. Per dimenticare i colpi, il dolore, ripeteva i suoi versi che l’avevano incriminato. Quasi un sorriso sulle labbra spaccate. Allora anche i tiranni, stupidi, ottusi, conoscevano la forza della poesia, sapevano quanto un verso letto o passato di bocca in bocca potesse consolare, infiammare gli animi, gridare giustizia, libertà!

 Ora non aveva carta su cui scrivere, foglietti che sua moglie avrebbe portato fuori nascosti nella scollatura. Le poesie diventarono brevi, incisive, sferzanti perché lei potesse impararle a memoria le rare volte che le era concesso vederlo. I suoi libri incriminati, i suoi autori “pericolosi”, sua moglie li aveva nascosti con cura alle retate della polizia, neppure lui sapeva dove. Sapeva che un giorno li avrebbe ritrovati, li avrebbe letti ai suoi nipoti perché respirassero bellezza e libertà. Avrebbe voluto tingere le pareti con i colori del pittore della cella accanto, anche lui pericoloso sovversivo, nero per giunta, che dipingeva danzatori e volti che urlavano oppressione, colori della loro terra, il verde della savana dopo la pioggia, il rosso della sabbia e del leone, il marrone della pelle e del baobab, le geometrie dei teli che le donne avvolgevano ai fianchi.

Avrebbero ridato memoria e impeto ai suoi sensi offuscati quando lo riportavano in cella dopo gli interrogatori.

Avrebbe voluto che i muri si allargassero in un campo di calcio dove correre e tirare a un pallone perché le sue membra intorpidite e dolenti riacquistassero vigore. Di sua moglie ormai solo la traccia di un piatto di upsha che il carceriere rimestava cercando chissà quale segreto. E la visione di lei in cucina, i bei capelli setosi avvolti in un fazzoletto, le mani abili a tritare foglie e cipolla, a pestare arachidi. Lui seduto al tavolo troppo piccolo – quante volte lo avevano detto – a scrivere su un quaderno per starle vicino e rubarle ogni tanto un sorriso. Maria. Dove sarà ora quel sorriso non più scambiato, non con i vicini che girano lo sguardo e gli amici che non ti salutano. Di sicuro lo conservi dentro, mentre aspetti tutti i giorni davanti al portone della prigione. Lo getti in faccia in sfida ai poliziotti che vorrebbero allontanarti. Maria. Sposa sorella compagna di ogni giorno e di quelli che verranno.

Tu sai, Maria, che non mi spezzeranno, che mi avvolgerai ancora nella “carezza bruna e bionda del tuo amore” e che la “certezza di pace” del nostro affetto non sarà più soltanto una speranza.

 

(da: “Sguardi altrove”, Anna Fresu, Vertigo edizioni, Roma 2013)

 

Nel nostro sito, voce POESIA, potrete leggere le poesie dell’autore, nella traduzione di Anna Fresu.

 

Rajab Abuhweish - Il mio solo tormento - Canto da El-Agheila- recensione a cura di Rosella Clavari

 

 

 

 

 

 

   Rajab Abuhweish

   “Il mio solo tormento”- Canto da El-Agheila

   Fandango libri, 2022

   traduzione di Mario Eleno e Manuela Mosè

 

Ci troviamo di fronte a una testimonianza drammatica di guerra, durante il colonialismo italiano in Libia. A parlare è una vittima di quelle terra lontana che l’impero italiano voleva conquistare inseguendo un delirio di onnipotenza, tristemente famoso durante le dittature. Il fatto storico che spesso viene ignorato è che prima dei campi di concentramento di Auschwiz-Birkenau con la tragedia dell’Olocausto, sono esistiti campi simili per opera dei fascisti delle colonie dell’impero italiano. Le persone venivano deportate nel Campo di El-Agheila e per raggiungere il campo, costrette a percorrere 400 km a piedi nel deserto; tra loro vi erano donne, bambini, anziani e ragazzi.

In quel periodo ( il campo esiste dal 1930) viene eseguita l’impiccagione di Omar al-Mukhtar, la guida del movimento di resistenza armata delle tribù cirenaiche, nel 1931. L’eccidio continua con la deportazione nel campo di El-Agheila, che si trova nella Cirenaica sud-occidentale, di 100 mila persone di cui solo metà sopravviveranno. Tra i deportati c’era un poeta libico, studioso e insegnante, l’autore del poema di cui vi offriamo solo alcune strofe delle 30 che lo compongono . Il poeta non aveva a disposizione carta e matita, così ricorse alla memoria, alla trasmissione orale del canto, come una preghiera, perché tutti lo udissero e vi trovassero rifugio oltre la morte stessa. Tra i prigionieri c’era un altro uomo colto e studioso, Ibrahim al-Ghomary ,sopravvissuto alla chiusura del campo, che si prese l’onere di trascrivere il poema consentendone la conoscenza e la divulgazione. Anche l’autore stesso uscì vivo dal campo ma con lo status di cittadino italiano libico e morì nel 1952 pochi mesi dopo l’indipendenza.

Il testo tradotto in francese da Kamal Ben Hameda, per la versione italiana ha trovato in due attori molto sensibili alla tematica, la sua traduzione e realizzazione. Mario Eleno e Manuela Mosé sono gli attori di Teatro Porto Aperto dove si svolgono i loro reading dedicati alla poesia meno conosciuta del Sud del mondo. La poesia di Rajab , asciutta, incisiva “un canto che si inserisce nella pura tradizione araba di epoca preislamica, una poesia orale, un dire istantaneo, una voce che dà coscienza immediata del massacro di un popolo” arriva fino a noi. Ci ricorda che “siamo stati colonialisti, fascisti, invasori e razzisti in un recente passato” - come sottolinea Antonio Scurati nella prefazione - ma questo deve servire a capire chi vogliamo essere oggi e domani, perché certi orrori non si ripetano più.

                                            

Il mio solo tormento -Canto di El-Agheila                            Parti scelte:

Il mio solo tormento

il campo di El-Agheila

la prigionia della mia tribù

la lontananza dal mio paese

 

Il mio solo tormento

la promiscuità nel campo

la ristrettezza dei viveri

e la perdita dei nostri cavalli

sauri dai riflessi bronzei

dolci e valorosi

ineguagliabili nella battaglia

 

Il mio solo tormento

questo strazio senza fine

ho nostalgia delle mie terre

Akrama, al-Adam, Assagaif

rivedo i pascoli di Lafwat

che per quanto aridi

nutrono dal loro seno

i giovani e fragili dromedari.

 

Ho una spina nell’anima

Akrama e al-Sarati

sono il mio ultimo desiderio

vorrei vivere abbastanza a lungo

per tornarci

ripercorro quei luoghi

dimentico il mio misero presente

ed è un ruscello di lacrime che cola

lungo la mia barba bianca.

 

Il mio solo tormento

la perdita dei nostri uomini

dei nostri beni

le nostre donne, i nostri bambini imprigionati

e i nostri audaci cavalieri

ora piegano il capo

davanti ai fascisti

come concubine sottomesse.                                                       […]

 

Il mio solo tormento

languire sotto il giogo di questi insulti

degradanti e infami

le nostre aspirazioni negate

i più nobili fra noi

i più degni

sono morti

per un minimo errore

le nostre donne vengono spogliate

incatenate a un palo

contro le nostre spose

i fascisti hanno perpetrato

crimini indicibili.

                                                                               […]

Omar al-Mukhtar è morto

soltanto Dio è eterno

una luce

si è estinta

questo eroe

ostinato

lo celebreremmo in pieno giorno

se non ci fosse pericolo

e sapremmo cantare la sua gloria.

Premio internazionale di poesia Leopold Sedar Senghor

 Premio Internazionale di Poesia Leopold Sedar Senghor- IV ed. 2018

Seconda classificata: ANNA FRESU con “Ponti di corda”

Anna Fresu, regista , autrice, attrice di teatro, traduttrice e studiosa di letterature africane, nonché socia fondatrice di Scritti d'Africa, ci ha onorato con questo premio che riconosce la bellezza del suo percorso umano e artistico. Ecco alcune poesie tratte dalla sua raccolta:

 Ode alla parola

Credo nella parola / che lenisce e consola/ nella parola taciuta/ o fatta voce / parola sussurrata/ passata di bocca in bocca/ a guarire l'arsura / ad annodare fili/ fra anime stanche/ e corpi schiacciati. / Credo nella parola/ che si fa giustizia / e speranza ritrovata/ nella parola che risorge/ storie dimenticate/. / Che costruisce il futuro/ e non nega il passato./ Credo nella parola / che accoglie ed abbraccia / che ridona la voce/ a chi l'hanno rubata./ Parola che inganna la morte/ e non nega il presente./ Parola che si fa canto/ innalzando la vita.

 Ci sono nel mondo poeti

Ci sono nel mondo poeti/ che mai hanno letto / mai hanno scritto versi./ Poco sanno che sia / leggere o scrivere. / La mia lingua non parlano, / ma danno il nome agli uccelli/ e alle erbe del campo./ Con gli alberi conversano, / ringraziandoli per l'ombra,/ ascoltandone le memorie. / Sanno il sentiero del vento/ e il colore della pioggia, / il tempo della semina/ e il tempo del raccolto./ Le orme delle fiere/ riconoscono e vigilano./ Mai entrati in una chiesa, / pregano il Sole e la Terra. / Suonano pelli e legni/ sanno canti di altre ere./ Di ogni corda conoscono i segreti./ I loro occhi nella danza guardano/ la sabbia e non il cielo./ E quando infine terminano/ il loro andare nei giorni,/ a tutto dicono addio/ senza amarezza né pena./ Perché sanno che saranno terra/ luce foglie e semi/ occhi di bimbo abbracci/ acqua di fiume pantere. / E i versi che hanno scritto:/ i loro passi nella vita,/ orme di un tempo/ che non conosce oblio.

Poeta?

Saranno da poeta/ questi versi/ un po' sghembi/ scritti a sera/ con la testa/ posata sul cuscino?/ O sospiri/ sfuggiti/ al sonno/ quand'è quasi/ mattino?/ O strascichi/ di sogni/ senza quasi/ memoria/ solo un vago/ ricordo/ sulla pelle/ un leggero tremore/ in fondo al petto?/ Saranno questi versi/ sassolini gettati in acqua/ per farli schiarire? Ponti di corda/ fra quest'IO / e il SONO.

Scelta di poesie dalla raccolta "UNA PARTE DI ME", di Olaseni Olatoye OLUGA

Pubblichiamo con piacere una scelta di poesie tratte dalla raccolta inedita "UNA PARTE DI ME" di Olaseni Olatoye Oluga, che si segnala per la scelta di cimentarsi nella nostra lingua e la volontà di tessere e mantenere legami sia professionali che culturali con il nostro paese, dove ha vissuto per alcuni anni come studente, anche dopo il suo ritorno in Nigeria.

 

LEGGI LA SCELTA DI POESIE

 

L'autore si presenta

Mi chiamo Olaseni Olatoye OLUGA e sono nato il 14 marzo 1951 a Lagos (Nigeria). Sono arrivato in Italia il 1° febbraio 1978, con una borsa di studio del governo Italiano ed ho studiato agraria all’Istituto Professionale di Stato“San Salvati” di Monteroberto di Jesi (Ancona), dal 1978 al 1981.

Nell’ottobre del 1984 sono tornato in Italia, ancora come borsista del Ministero degli Affari Esteri, per un corso in Avicoltura.

Anche se residente in Nigeria, ho sempre lavorato in ambienti di lingua italiana; per quindici anni sono stato con la Technics Engineering Architecture Marketing (T.E.A.M.) Nigeria Limited, una filiale della T.E.A.M. Srl di Roma, come “Administrative Manager” e adesso, dal 2003, lavoro all’Ambasciata d’Italia di Abuja, Nigeria, come Assistente Amministrativo.

Ho cominciato a scrivere sia poesie che commenti sociali sui giornali locali nigeriani dall’età di quindici anni; la stampa della raccolta poetica “Una parte di me” del 1981, è stata possibile grazie al grande aiuto e incoraggiamento del Dr. Giuseppe Luciano Landi, Fondatore del P.I.S.I.E. (Politecnico Internazionale per lo Sviluppo Industriale ed Economico), un' Agenzia del Ministero degli Affari Esteri, responsabile nel gestire lo studio e l’addestramento degli studenti stranieri, borsisti del Ministero.

Sono sposato dal 1975 con la Signora Doris Abosede Oluga e abbiamo tre figli di 38, 30 e 25 anni.

Olaseni Olatoye OLUGA

 

 

Selezione di testi tratti da "Isole galleggianti. Poesia femminile sudafricana (1948-2008)"

Proposta di una selezione di testi tratti dal volune

Isole galleggianti. Poesia femminile sudafricana 1948-2008

a cura di Paola Splendore e Jane Wilkinson 

Edizioni Le Lettere 2011

Traduzione di Paola Splendore
 

Poetesse sudafricane. La natura, la casa, le parole: dissoluzione e ricomposizione di un mondo (a cura di Rosella Clavari)

Poetesse sudafricane. La natura, la casa, le parole: dissoluzione e ricomposizione di un mondo (a cura di Rosella Clavari)

La recente pubblicazione del testo "Isole galleggianti. Poesia femminile sudafricana (1948-2008)" a cura di Paola Splendore e Jane Wilkinson (Ed. Le lettere 2011), ha risvegliato l'interesse verso questi voci così intense e originali nel panorama universale della poesia. Viene subito chiarito all'inizio il legame con il titolo attuale: si risale a Dorothy Wordsworth con "Floating Island" (1842)  e attraverso Ruth Miller, che riprende il titolo nella sua prima raccolta del 1965, arriviamo a Joan Metelerkamp con la raccolta "Floating Islands" del 2001. Un titolo dunque più volte ripreso che sottende una tematica comune: contro gli strappi e i traumi delle vicissitudini  storiche e personali è possibile ancora immaginare parole intere, mondi interi che affiorano come resti galleggianti.

Scelta di testi integrali o brani di poetesse del Nord Africa

Una scelta di testi integrali o brani di poetesse del Nord Africa

Poesia al femminile nel Nord Africa contemporaneo

La pubblicazione, nel 2007, di una piccola e preziosa antologia di poetesse arabe contemporanee dall’intrigante titolo Non ho peccato abbastanza, a cura di Valentina Colombo per La piccola biblioteca Oscar Mondadori, ha reso un po’ di notorietà ad un soggetto abbastanza sconosciuto, quello delle voci poetiche femminili attuali del Maghreb e del Medioriente. Basta fare un giro nel web e ci si accorge di quante presentazioni sia stata oggetto o di quante bloggers abbiano pubblicato poesie tratte da questa antologia, forse per una consonanza con le espressioni in esse contenute o per la sorpresa di trovare versi scottanti, sensuali o francamente erotici di poetesse saudite, degli Emirati, dello Yemen.

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