IO CAPITANO
Regia di Matteo Garrone
2023
Non sappiamo se Matteo Garrone abbia visto i film dei registi senegalesi o franco-senegalesi come Atlantique di Mati Diop, Pirogue di Moussa Traoré o Yoolé di Moussa Sene Absa, che descrivono viaggi di migranti africani in prevalenza verso la Spagna, tratti più o meno da storie reali, ma sappiamo, dalle interviste, che ha lavorato duramente per due anni e più per la preparazione e realizzazione di questo film, vincitore del Leone d’argento a Venezia. Sapendo che doveva superare la concorrenza della cronaca giornalistica televisiva, fatta in maggioranza di cifre: quanti migranti sono sbarcati, quanti sono morti nella traversata in mare o nel deserto, quanti affollano l’hotspot di Lampedusa, quante o.n.g o navi costiere italiane partecipano ai salvataggi ecc.
Riteniamo giusto inserire questo film italiano nella rubrica del cinema africano a somiglianza di quello che facciamo con i testi letterari scritti da non africani ma che si occupano o parlano di Africa. Innanzitutto perché è un film valido ed emozionante, poi perché ha il coraggio di cambiare il punto di vista da cui viene narrata la storia, non più o soltanto lo sguardo di chi salva o accoglie, ma quello dei protagonisti. Persone, non numeri. Inoltre perché ci immette in quella parte della vita dei migranti che non conosciamo: quella del paese d’origine e della permanenza nel deserto e in Libia.
Qualcuno ha parlato di una visione edulcorata del Senegal, paese da cui partono i due cugini sedicenni, protagonisti del film: forse in parte, perché vediamo una Dakar e un Senegal non disperati, di una povertà dignitosa, di ragazzi che vanno a scuola, passano il tempo libero attaccati al cellulare, a fare musica e cantare, a partecipare a feste coloratissime in cui si balla sfrenatamente, a giocare a calcio o a seguire le partite in tv, indossando le magliette dei loro idoli, immaginandosi di diventare calciatori o rapper famosi e ben pagati.
Ma proprio questo vuole raccontarci Garrone: i sogni degli adolescenti, uguali in tutto il mondo, che la globalizzazione ha reso forse massificati, ma non per questo meno ambiti. Questi ragazzi non navigano nell’oro, la madre di Seydou, vedova con tanti figli e nipoti, ha problemi economici sicuramente e in testa i ragazzi hanno anche la voglia di aiutare la famiglia ad avere una vita più decente, attraverso il loro viaggio verso l’Europa. Da sempre avere una vita migliore è la molla principale delle migrazioni.
Ma soprattutto immaginano, sognano come tanti giovani: cambiare paese, allargare gli orizzonti, avere idee diverse da quelle inculcate dalla tradizione: un ragazzo europeo o americano prende l’aereo e va a tentare l’avventura a Londra, a Barcellona, a Berlino, forse un lavoro migliore o una università prestigiosa cambierà la loro vita, faranno esperienze, forse torneranno o forse no…Ma questo non è dato a dei giovani africani, i quali devono affrontare rischi e pericoli per terra e per mare, affidandosi a gente senza scrupoli e pietà per arrivare nella terra dei sogni, corruzione di corpi di polizia di ogni frontiera africana o mercanti di morte, mascherati da benefattori. Ma chi decide che non hanno diritto?
Non si parte dunque solo per emergenze climatiche, guerre, dittature, fame e carestie. Ce lo ricorda anche il romanzo Il silenzio del coro del senegalese Mbougar Sarr che ci parla di un'altra parte di cui ignoriamo tutto: il tempo burocratico dell’attesa dei permessi dei migranti, disseminati in vari centri qua e là per l’Italia, che vede precocemente la fine delle loro speranze ancor prima di cominciare una nuova vita.
Il regista non segue solo la nuda e feroce cronaca: gli incontri con quelli che li sconsigliano di partire, con le madri che si oppongono al viaggio, temendo che muoiano come altri prima di loro, con i mille lavori fatti di nascosto per arrivare alle somme richieste dai trafficanti, i mezzi che li trasportano nel deserto, in mano a guide infami cui non interessa il benessere dei viaggiatori, le prigioni dei predoni o della polizia libica che non esitano a ricorrere alle torture per cavare soldi dai parenti delle vittime.
Il film è in parte un docufilm, basato su storie vere di cui regista e sceneggiatori sono venuti a conoscenza, in parte è una fiaba di formazione, in cui soprattutto il giovane Seydou da una ingenuità iniziale arriva alla percezione di una realtà deludente rispetto alle aspettative, ma anche ad una nuova consapevolezza.
Per questo il film ha richiamato un po’ a tutti il Pinocchio dello stesso Garrone: le bugie dette per poter partire, la disobbedienza, la credulità nei confronti dei vari Gatti e Volpi incontrati e creduti amici, gli interventi di personaggi aiutanti, la determinazione a proseguire il cammino fino alla meta finale. E il film si serve anche di immagini oniriche o magiche che aiutano il giovane Seydou, in momenti critici, come la donna che vola nel deserto o la possibilità di rivedere la madre attraverso un angelo che lo guida. Aiutano il protagonista ma anche gli spettatori per alleviare la visione delle immagini crude e feroci. La presenza di Paolo Carnera come direttore della fotografia assicura visioni del deserto di giorno e di notte di una grande qualità che regala immagini indimenticabili. Un deserto vuoto, un mare vuoto, riempiti solo dalle sofferenze di chi li attraversa. Garrone evita anche la banalità della tempesta e dei naufragi di cui siamo televisivamente già carichi. Il mare è la grande prova di un ragazzo che non sa nuotare né tanto meno guidare un barcone fatiscente: accetta di diventare scafista, per avere la possibilità di fare questo viaggio, dal momento che non ha più soldi per pagarlo. Di fronte alle difficoltà di essere ascoltato, con il telefono satellitare, dagli eventuali salvatori, immerso nelle baruffe che nascono tra i migranti per un po’ d’acqua o una posizione migliore sull’imbarcazione, si assume da adulto, ormai, le sue responsabilità e getta sul finale con orgoglio la frase “Io capitano”. Non sa che rischia il carcere, ma sa che con lui alla guida non morirà nessuno. I ragazzi come lui sono gli eroi di una nuova epica in un mondo che regolato da algoritmi e regole eterodirette, non concepisce più l’avventura.
Il film è potentemente aiutato dai due giovani attori presi dalla strada, trovati in Senegal e che non hanno tentato nessuna traversata, in particolare il giovane Seydou Sarr, che ha vinto a Venezia il premio Mastroianni per attori emergenti: non sappiamo quale sarà il loro futuro, ma per il presente sono invitati, insieme a Garrone, a tutte le presentazioni e promozioni del film…
Non è un film impegnato, politico in senso stretto, lo diventa proprio in virtù della qualità cinematografica che ti entra dentro e ti costringe a sapere, a conoscere. Per questo dovrebbe essere proiettato nelle scuole, in parlamento, anche nei bar dove si blatera senza sapere…