Abdellah Taia - La vita lenta - a cura di Giulia De Martino

  

 Abdellah Taia

La vita lenta

Funambolo edizioni, 2021

traduzione di Stefano Valenti

 

Abdellah Taia è uno scrittore, sceneggiatore e regista marocchino: vive in Francia da circa vent’anni, dopo aver studiato anche in Svizzera. Laureato in letteratura francese non scrive in arabo, ma nella lingua dei marocchini benestanti: il francese giustappunto. Lui invece proviene da una famiglia povera di Salé, dove si parlava solo l’arabo: la conquista della lingua francese è avvenuta per cancellare o attenuare questa origine che sapeva di miseria, di una casa di tre stanze in cui vivevano in 11, di un padre debole che non sapeva provvedere alla famiglia e di una madre energica che, sostituendosi a lui, ha fatto di tutto per mantenerla.

Già conosciuto in Francia per altri testi e il film “L’armée du salut”, parzialmente la notorietà è avvenuta per il suo coming out su alcune importanti riviste marocchine, creando un caso nel suo paese d’origine.

Ma detto ciò, non si pensi che “La vita lenta” sia solo un romanzo autobiografico sull’omosessualità dell’autore. Il libro prende le mosse dal precipitare di un rapporto del protagonista con una anziana ottuagenaria malata e sola che vive sopra di lui in un microscopico monolocale di 14 m.q. con bagno sul pianerottolo. La storia s’intreccia con le nevrosi di entrambi: l’uno, l’arabo, preso dal clima teso e avvelenato creatosi in Francia dopo gli attacchi terroristici del 2015, l’altra, una donna sola, con una misera pensione e dei ricordi famigliari dolorosi. Tutti e due fuori posto nell’elegante strada in cui vivono, la rue de Turenne. Emarginati da rimossi storici che i francesi non hanno voluto o saputo metabolizzare: il colonialismo e il collaborazionismo durante la seconda guerra mondiale, soprattutto da parte di donne giovani che volevano vivere e non solo sopravvivere.

L’uomo, Mounir, un professore quarantenne, per qualche tempo si è cullato nell’idea che essere integrato, accettato nella sua diversità sessuale ed etnica, frequentatore di luoghi e persone adeguate, lo avesse tirato fuori dall’immagine del ragazzino arabo povero e frocio, abusato da molti maschi del quartiere di Salé in cui abitava, dove esisteva l’omosessualità ma non la cultura gay, che scoprirà in Francia più tardi.

Improvvisamente, dopo il 2015, quello che sembrava un traguardo raggiunto si sgretola, rivelandosi fittizio: ormai, per tutti e non solo per la polizia, potrebbe essere un pericoloso terrorista e la sua figura è accompagnata sempre da un ombra di sospetto e neanche la sua patente di “omosessuale”( evidentemente sinonimo di accettazione delle grandiose libertà occidentali e di uno stile di vita lontano dai rigori dell’islam...) lo mette in salvo da ciò.

Per questo il protagonista va in tilt e revisiona le sue idee, rendendosi conto che Parigi gli ha tolto il calore umano che trovava nel suo paese, lo ha reso sterilmente libero e freddo come il resto dei parigini benestanti, nati e vissuti nella fretta che non concede spazio ad autentici rapporti umani, incapaci di vera solidarietà. Patria dei diritti moderni la Francia e tuttavia in contraddizione con se stessa, giudica Mounir. Un posto che non conosce la vita lenta in cui si formano i desideri, le attese reciproche che sono alla base dei rapporti tra gli esseri umani.

Anche lui aveva condiviso queste contraddizioni che lo avevano portato a tenersi lontano dai migranti, dagli arabi delle banlieu, dalla vita vera di chi fatica a trovare il suo posto nella società francese.

La donna, la signora Marty dell’ultimo piano, è l’unica ad averlo avvicinato senza pregiudizi, coccolandolo con pietanze appetitose, ricambiate con scatole di cioccolatini. Si ricordava di aver condiviso le case di Barbés con gli arabi, conoscendone usanze e gastronomia. Fino a che lo stadio nevrotico di entrambi fa scoppiare un dissidio irreparabile: lui non sopporta il benché minimo rumore prodotto dall’anziana o da altri del condominio, accusandoli di rubargli il sonno e la vita.

Lei, nella sua solitudine, ciabatta per casa, pulendo ossessivamente l’appartamento, non frequentato da nessuno, anche in ore notturne, pur di sentirsi ancora viva. Nel suo cuore alberga l’amore incondizionato per la sorella maggiore, collaborazionista con il nemico invasore, durante l’occupazione di Parigi, punita dai vicini alla fine della guerra e bollata come ‘puttana’ dei tedeschi, infine costretta alla fuga in Sudamerica: la signora Marty sa soltanto che ha salvato dalla fame la famiglia, offrendo quello che aveva, la sua giovinezza e la sua bellezza.

Mounir pronuncia, in uno stato di ossessione indescrivibile, parole forti e minacce contro la donna e la questione finisce in mano alla polizia.

Infatti il romanzo inizia proprio in un commissariato di polizia e con una specie di confessione mentale del protagonista, fatta a se stesso più che ai poliziotti, si avvia un vero e proprio delirio.

Il lettore precipita nella stessa confusione del personaggio e veniamo immischiati in una ipotetica storia d’amore che lui avrebbe avuto con l’ispettore di polizia che si occupa del suo caso, che diventa via via sempre più complicato con le rivelazioni che vengono fatte sulla vita del marocchino francese, colpevole, secondo gli inquirenti, di essersi radicalizzato .

E’ allora che apprendiamo gli squarci di vita del bambino, poi adolescente a Salé, la sua violenta iniziazione al sesso, la sua resistenza forgiata in una cattiveria che serve a proteggerlo, la sua rivolta e ricerca non di sesso, ma di amore, le storie che gli lasciano tenere nostalgie o forti risentimenti. Capiamo anche il suo tentativo di avvicinarsi a quella realtà che per tanto tempo aveva distanziato: la sua posizione di intellettuale non lo poneva in una situazione diversa da quella degli altri arabi.

Il romanzo si sviluppa con una modalità ansiogena, proponendo anche due finali, uno sulla bocca di Simone Marty e l’altro del commissario, forse o no amante di Mounir.

Il lettore resta con tutti i dubbi...Ma nel frattempo ha letto un’opera poetica e frammentaria come la poesia moderna, una narrazione spesso costituita da frasi singole e brevi che si susseguono, a volte, come dei singhiozzi, a volte come delle sentenze che inducono a riflettere.

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