Amilca Ismael, La casa dei ricordi (recensione di Giulia De Martino)

AMILCA ISMAEL, “LA CASA DEI RICORDI”

Edizioni Il Filo 2008

 

Il richiamo al recente film “Pranzo di Ferragosto” è d’obbligo.

“La casa dei ricordi” e “Pranzo di Ferragosto riguardano storie di anziani, in qualche caso  abbandonati dai familiari, in altri “affettuosamente” tollerati o peggio trattati con gelida efficienza e deserto emotivo. Sostanzialmente si tratta di storie di solitudine.

Ma sia il libro di Amilca che il film ritraggono anziani, soprattutto donne, anche in momenti di serenità e ritrovata pace, sia pure effimera, con se stessi e il mondo che li scarica come merce avariata. Momenti in cui un raggio di sole penetra a sollevare e rischiarare il buio.

 

Amilca Ismael, mozambicana d’origine, ma dal 1985 in Italia e sposata con figli con un italiano, scrive un libro a partire dall’esperienza di assistente per gli anziani a casa e in case di riposo: da questo trae origine la materia narrativa de “La casa dei ricordi”.

Ma sarebbe riduttivo- e anche se ciò fosse, l’operazione sarebbe del tutto lodevole-  considerarlo un semplice testo di testimonianza di una operatrice.

Questo perché la scrittrice non dimentica un solo istante la sua origine africana e nel testo si intrecciano storie, riflessioni e ricordi che vanno oltre:

il suo arrivo in Italia e il latente razzismo di parenti e amici, da superare come moglie neo arrivata di un italiano in un piccolo paese del varesotto; il Mozambico e l’Italia di fronte alla fretta, allo stress, alla scansione della giornata, all’occuparsi di se stessi ; gli anziani visti in entrambi i contesti con i pro e i contro, il Natale al freddo e con tanti regali e il Natale al caldo, solo con tanta allegria.    

 

L’ abitudine al contatto con la natura la spinge a osservare la vita della casa di riposo con la scadenza delle stagioni: il cielo annuvolato, con le stelle, chiaro e luminoso, gli alberi spogli e l’esplosione primaverile, la neve sui tetti, la pioggia scrosciante, la nebbia e il freddo intenso, il ritorno e la partenza delle rondini, non sono semplici annotazioni descrittive, ma entrano da protagonisti nel testo. Non a caso viene dato spazio al momento in cui gli ospiti guardano il succedersi delle stagioni dalle ampie vetrate o quando trascorrono all’aperto, nel bel giardino con l’ampio gazebo, le ore di quelle poche attività a loro concesse .

Un hotel a quattro stelle sembra l’istituto, con belle camere, la sala da pranzo, la sala blu per la ricreazione, i diversi reparti, a palestra: ma riecheggiano di continuo urla, parole aspre e ripetitive, rimproveri  e recriminazioni insieme al chiacchiericcio fitto degli operatori, essenzialmente donne, di cui alcune straniere, che non sempre hanno voglia di parlare con gli ospiti che ripetono le stesse cose con ossessività.

 

Ma come è arrivata Amilca a questo lavoro?

L’occasione di una sua ospedalizzazione la pone a contatto con questo personale e la spinge, a trentanove anni, verso un corso pagato per assistente socio-assistenziale, frequentato come tentativo di sottrarsi a continui lavori precari. “Tanto devo solo assistere i vecchietti- dice a se stessa- devo solo lavarli e imboccarli, non è poi così difficile”.

In realtà non aveva ancora la minima idea a che cosa andasse incontro. L’impatto visivo della prima volta in una casa di riposo è inquietante : “Era la prima volta che vedevo tanti anziani tutti insieme, seduti sulle carrozzine, ben ordinate come in un parcheggio di un grande magazzino. “Mio Dio, cosa aspetta tutta questa gente”.

Solo in seguito assegnerà un significato a questa scena; dopo il primo anno di lavoro capirà che, seduti lì, aspettano solo la morte che li venga a prendere.

Il pensiero va a Donna Lurdes , una vicina di casa sua in Mozambico, molto vecchia, attiva fino all’ultimo istante della vita, che lavora il suo orticello, perché solo questo le dà da vivere. Non c’è assistenza socio sanitaria per gli anziani in Mozambico, non c’è il centro diurno, non c’è un ospedale che ti cura gli acciacchi fino a che campi, quindi coltivi l’orto e vendi finché respiri; d’altra parte, sia pure in una situazione di emarginazione, continui a essere utile. Per gli anziani della casa di riposo, soli e malandati, spesso la morte, invocata da loro stessi e dai loro parenti, è una liberazione dalla sofferenza di una vita irriconoscibile protratta fino a novantacinque-cento anni e più .  In Mozambico, dove l’aids ha falciato la generazione di mezzo, gli anziani crescono i nipoti rimasti soli, a volte anche questi malati, senza l’aiuto di nessuno e per loro la morte è una maledizione : “Se muoio anch’io, cosa sarà dei miei nipoti?”.

E’ molto lucida e amara l’analisi della condizione degli anziani in istituto : l’anonima e impersonale macchina dell’assistenza  divora le ultime forze, capacità e abilità dei vecchi, rendendoli del tutto incapaci dei più piccoli atti. E’ più semplice occuparsi di loro con fretta ed efficienza piuttosto che avere la pazienza di aspettare i loro tempi lunghi e inconcludenti. Così eccoli lavati, vestiti, fasciati in pannoloni, messi su carrozzine, imboccati ancora prima che una necessità reale lo comporti.

 

Ma il testo non è un saggio, è una raccolta di storie che ruotano intorno all’esperienza umana e lavorativa di Amilca e alla relazione di amicizia che si instaura con Rita, una bella donna cinquantenne, molto più giovane perciò degli altri degenti, colpita e resa invalida da un ictus, annientata nella sua volontà di vivere dalla dolorosa sorpresa di essere accudita come una vecchia inutile, dopo una brillante carriera in banca. Accanita fumatrice, usa il fumo per esprimere la sua rabbia: sarà il lento crescere dell’amicizia con Amilca, il mutuo soccorso che si presteranno nei momenti difficili, stress da malattia e stress da lavoro usurante, ad allentare le sue scontrosità e a farle vivere l’ultimo sogno di speranza. Attraverso la storia d’amore di Rita con un antico amante, anche lui ricoverato nella struttura, la scrittrice ci porta anche a riflettere sulla sessualità degli anziani e dei malati.

Sono tanti i volti dei personaggi che si affollano alla memoria del lettore, a lettura conclusa.

Renato, che a causa dell’Alzheimer scambia sua moglie con sua madre e sua nuora con sua moglie, accudito premurosamente da quest’ultima fino a che la sua violenza non si è fatta pericolosa. Fernando e Mauro che come un paguro Bernardo vivono in simbiosi, aiutandosi nelle rispettive deficienze: l’uno scambia una parola per l’altra e nessuno lo capisce  e l’altro è lento come una lumaca e non riesce a stare al passo con gli altri del suo reparto.

Laura, afflitta da demenza senile, viene visitata dal figlio e della nuora solo per un seccante e noioso dovere, incapaci di un gesto d’affetto nei suoi confronti: saranno il sorriso e una carezza di Amilca ad accompagnare la sua morte.

La tenera Giuseppina  che i suoi sei figli non vanno mai a trovare; indimenticabile e commovente la giornata di Giuseppina, convinta che i suoi figli arriveranno per il suo ottantesimo compleanno : al mattino presto vuole aiuto per scegliere un bel vestito, poi si piazza tutto il tempo davanti alla porta d’ingresso per non perdere neanche un secondo del loro arrivo che non avverrà. Non una parola di biasimo uscirà dalla sua bocca: può una madre odiare i suoi figli?

Gemma, rimasta sola e malata, dopo la morte per tumore di suo figlio, arrabbiata con Dio e con tutti per la sua condizione, regala ad Amilca una foto di quando era giovane e incredibilmente bella, perché qualcuno conservi il ricordo di ciò che lei era stata.  Maria, razzista, come altri ospiti del resto, verso Amilca e tutte le operatrici straniere, cattiva e maligna verso tutti. Chiara, cento anni tondi tondi che continua imperturbabile a raccontare le sue storie della prima e seconda guerra mondiale, meglio di un libro di storia, sostiene, perché lei c’era.

Narrare storie, ma questa volta d’amore, è anche prerogativa di Paola che nessuno vuole più ascoltare.  Luisa, ex-suora poi sposatasi e rimasta presto vedova del suo grande amore, incapace di uscire dall’alcolismo, mente continuamente a se stessa sulle sue condizioni.   Bruna che s’innamora disperatamente di un infermiere più giovane di lei di quasi quarant’anni, dimostrando che non esiste un’età per amare e un’età per smettere di amare.

Tante, tante storie….

Passa il tempo, le “sue vecchiette” muoiono e sono sostituite da altre vecchiette. Lo stress è notevole in un lavoro duro che ha sempre a che fare con la mancanza di speranza, la sofferenza e il dolore, la morte, come sa chiunque abbia avuto esperienza di assistenza a un proprio caro in casa.

“Quella gente è lì per morire. Su cento persone, forse dieci, esagerando, sono tornate a casa camminando, le altre novanta solo dentro una cassa da morto, dirette al cimitero. Allora, in nome di Dio, facciamole morire con dignità “.

Un giorno Amilca era sta richiamata dalle urla di Cristina, ottantotto anni, che ripeteva incessantemente di essere stata derubata ; “Come ti abbiamo rubato tutto? Cosa ti manca?” chiede Amilca, e lei risponde”Avete rubato me, la mia vita, la mia dignità! Questo mi manca, mi manca me stessa, non so più chi sono, mi sento un verme. Questo mi avete rubato: la mia dignità”.

I vecchi non hanno solo bisogno di accudimento, ma sono affamati di essere ascoltati e considerati : se vieni trattato solo come un problema da risolvere te ne convinci anche tu, sottolinea un anziano della casa. “Dobbiamo pensare- conclude Amica- che i vecchi di oggi sono i giovani di ieri e i giovani di oggi, cioè noi, saremo i vecchi di domani e non ci farà piacere che qualcuno ci privi della cosa più bella al mondo: la dignità di essere uomini”.

Sembra un’osservazione ovvia e banale, ma rifletteteci, noi evitiamo di pensare alla vecchiaia e alla morte e non vogliamo essere disturbati dalla nostra idea di eterna giovinezza ed efficienza, tipici del mondo occidentale: per questo i vecchi li emarginiamo o li abbandoniamo. Amilca ce lo ricorda con forza e convinzione.

 

Giulia De Martino
© Scritti d’Africa, Novembre 2009

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