Anna Maria Gehnyei - Il corpo nero - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

Anna Maria Gehnyei

 Il corpo nero

 Fandango libri, 2023

 

 

Ormai è un'onda che monta travolgente quella delle scrittrici italiane di origine africana che decidono di affidare alla scrittura la loro esperienza di italiane non bianche, di nere troppo nere per essere italiane, di africane che spesso non hanno mai visto quell'Africa da cui sono emigrati i genitori o che non la ricordano perché adottate piccine: tuttavia tutte si ritrovano sempre l'etichetta di immigrate. Una vita di lunghe file in questura, dapprima bambine in braccio ai genitori, poi adulte finché, dopo i 18 anni, può avvenire la sospirata richiesta di cittadinanza, non senza una trafila burocratica di ottemperamento a requisiti più o meno pretestuosi. E non tutto finisce con la cittadinanza, perché resta quel corpo nero che è il biglietto da visita di una diversità che molti italiani non riescono ad accettare e con cui intrattengono rapporti ambigui.

E' proprio questo che indaga e descrive l'autrice di questo libro in una sorta di memoir che inizia da quando è bambina e termina da adulta con l'individuazione di un proprio posto nel mondo, all'insegna della contraddizione e della molteplicità culturale. Un testo semplice senza troppe pretese letterarie, ma molto chiaro, diretto e per questo, a tratti, forse indigesto anche per antirazzisti di comprovata fede, a cui può apparire esagerata questa feroce disamina dei difetti italici. Un esempio di questo è proprio nel rapporto con Federico , un ragazzo di cui si innamora e da cui è riamata: condividono tutto, anche uno splendido viaggio in Liberia, alle ricerca delle radici di Anna. Tuttavia, il giorno che la ragazza ottiene la sospirata cittadinanza lui non comprende il malumore di lei: tutti si congratulano e Federico contento le organizza una festa a sorpresa, insistendo sull'eccezionalità dell'evento. Cosa non capisce? Lei è una vita che è italiana e questo fatto è solo una tardiva registrazione burocratica, gli butta in faccia arrabbiata la ragazza, non c'è niente da festeggiare...

La Gehnyei parte, nel libro, dalla quotidianità dell'andare a scuola, insieme alla sua gemella Maria, tanto diversa da lei nel carattere e nel fisico: i piccoli soprusi dei compagni che non la fanno sedere vicino a loro o che si rifiutano di giocare insieme e i pregiudizi di qualche insegnante che ritiene, in quanto provenienti da zone retrograde, non possano accedere al sapere più di tanto. Alle due ragazzine capita anche di affrontare le bande dei maschi che le prendono in giro, le insultano e lanciano pietre. Fino a terminare con gli uomini sul posto di lavoro o semplicemente per strada che le apostrofano come prostitute, unico lavoro aperto a ragazze come loro...

Ma Anna, la protagonista, non solo si sente italiana, anzi, ci tiene a precisare, romana di Roma nord; in più occasioni dichiara il suo amore per la carbonara e i tramonti della splendida città in cui è nata. Fortunatamente vive in una famiglia - che ama e da cui è riamata- che assorbe gli urti provenienti dall'esterno. E per famiglia non intendiamo solo papà e mamma, ma una congerie di parenti e non, (comunque tutti sono rigorosamente chiamati zii e i loro figli cugini) che sciamano da varie parti d'Italia e passano per Roma in attesa di essere chiamati per gli Usa o il Canada. Sono tutti rifugiati liberiani.

Il padre è stato il primo della sua famiglia a uscire dal villaggio e partire per l'Italia, non come migrante o richiedente asilo ma come personale ( insieme alla moglie) al seguito dell'ambasciatore liberiano, poi fuggito negli Stati Uniti alle prime avvisaglie di una guerra civile che sarebbe durata circa 15 anni. I genitori rimasero perciò senza mezzi, senza casa, senza lavoro, iniziando così un duro percorso di lavoro come muratore lui, come colf lei. Le guerre civili rendono difficile un eventuale ritorno.

Quella casalinga è l'unica Africa che conosce Anna, con i suoi cibi, le musiche, gli abiti, peraltro non indossati dalle gemelle, ad evitare ulteriori discriminazioni con i loro coetanei. Ma Anna accetta di buon grado le treccine con le perline, tradizionali per bambine e ragazze, rito cui le sottopone la mamma ogni domenica mattina. Certo la venuta a Roma di una sorella un po' più grande, che era stata lasciata in patria pensando di farvi ritorno in breve, le solleva dei dubbi. La sente diversa da lei: insomma la romana Anna è o no anche africana?

Ha un rapporto d'affetto controverso con il padre: lui le apre l'orizzonte della musica africana a partire da quella giamaicana di Bob Marley fino ai più noti cantanti dell'Africa occidentale, ma si rifiuta di parlare con lei del suo passato, del suo villaggio che viene definito dai parenti di “stregoni pericolosi”. L'Africa resta un doloroso non detto, che avrà una conseguenza sull'identità della figlia.

L'autrice riferisce sogni e tumulti di cuore ( uno strano tum tum, dice) in cerca di un raccordo con le cose che lei conosce e quelle che ignora, con i nonni mai visti, con una natura, occhieggiata solo nei documentari: simboli e messaggi che cercano una via nella sua persona, ma da cui è spaventata, perché rappresentano un ignoto a cui non sa se cedere o meno.

Sarà solo il viaggio in Liberia a placare tutto ciò: conoscere l'ospitalità dei parenti delle famiglie di suo padre e sua madre, la generosità pur nella povertà, la voglia di stabilire un legame che si era spezzato, sentire dal vivo quella musica che l'aveva affascinata fin da piccola, ballare come loro ma non proprio mangiare come loro: i vermi fritti ( tema molto di attualità...) proprio no. E neanche la corruzione incontrata ad ogni angolo che la faceva, in qualche modo, sentire estranea: dunque per i liberiani era una europea da mungere, perché in compagnia di un bianco, non una compaesana.

Paradossalmente sarà l'Africa riconquistata nel suo cuore a darle la possibilità di capire quanto si sentisse anche veramente italiana, con un corpo diverso ma finalmente accettato: ”E anche il mio corpo , ormai, ha preso un'altra forma, il mio corpo è presente, il mio corpo si muove in strade che gli appartengono, il mio corpo non è più una barriera, il mio corpo è africano, è italiano, il mio corpo è.”

Quel viaggio le ha dato l'energia per esprimersi attraverso la musica, la danza, il teatro e la scrittura. Si è laureata alla John Cabot University di Roma in Comunicazione e Scienze politiche. Ancora una volta la scrittura è stata terapeutica per correre verso il suo futuro di donna africana nera italiana: ora è pronta per combattere per i diritti delle altre che non vi sono ancora arrivate.

Per dire no al vittimismo che spesso è una difesa contro la necessità di cambiare le cose.

 

 

 

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