Erminia Dell'Oro, Il mare davanti - Recensione a cura di Habtè Weldemariam

Erminia Dell'Oro, Il mare davanti. Storia di Tsegehans Weldeseslassie
Piemme 2016
 
Recensione a cura di Habtè Weldemariam
 

Leggere un romanzo-verità è come entrare nel vivo dell'umanità attraverso una questione scomoda: quella dei popoli in fuga dallo schiavismo, dall’umiliazione, dall’oppressione, dalla paura, dalla morte. Fino ad una nuova nascita. L’esperienza del personaggio de Il mare davanti è una storia di tutto questo, ma anche di amore e di speranza, di fuga rocambolesca da una delle più assurde dittature al mondo, di solidarietà e di amicizia (1), dove il bene e il male finiscono per confondersi, per testimoniare la follia di tutte le tirannie.
Il mare davanti, si apre in nome del 3 ottobre 2013: quel naufragio sulle coste di Lampedusa che costò la vita di 370 persone, di cui 367 eritrei: bambini, donne e uomini. È anche una data diventata, a livello mondiale, il simbolo delle tragedie nel Mediterraneo, che quasi tutti gli Stati del mondo commemorano con bandiere a mezz’asta, eccetto lo stato eritreo. Quel giorno, il mondo ha assistito al pianto collettivo di fronte a quella fila di bare, un pianto che è cresciuto lentamente, fino a diventare un grido di dolore, che non riguardava solo la tragedia del giorno prima, ma una richiesta disperata di aiuto, la domanda di una generazione intera di giovani donne e uomini costretti a lasciare il proprio paese oppresso dalla dittatura.
Già nel 2005 l’Autrice aveva affrontato il dramma della fuga degli eritrei con Dall’altra parte del mare, anche se con un taglio pedagogico (tutti i libri di Erminia dell’Oro sono materia di pedagogia narrativa). Poi c’è stato un intermezzo. 
Con Il mare davanti, il tema viene ripreso e conferma il suo legame profondo con il popolo eritreo, il suo impegno umano e di sensibilizzazione verso il tema della migrazione. Erminia Dell’Oro, scrittrice fine e cosmopolita, è cittadina italiana di nazionalità eritrea ed ha sempre sentito grande senso di appartenenza verso la sua terra natia, seguendo le vicende eritree, pubblicando libri, articoli e reportage. 
 
Siamo quindi alla full immersion, fornita dall’incontro con una delle tante esistenze in fuga: il giovane Tsegehans Weldeselassie, per gli amici “Ziggy”. Il libro è infatti frutto di una profonda attenzione e ascolto di una storia-testimonianza, di sofferenze raccontate in prima persona che sono poi emblematiche del calvario di tutto un popolo (2), di una generazione che ha creduto nel sogno della libertà e si è trovata a fare i conti con un regime che non riconoscono come il proprio. “Questo non è il mio Paese. Mi trattavano come se non fossi eritreo”, un governo lontano dal popolo, lontano dal mondo e che nega loro ogni futuro.
I lettori troveranno una breve nota introduttiva -sugli anni duri della dominazione etiopica, fino all’Indipendenza avvenuta nel maggio del 1991- per ricordare le sofferenze che il popolo eritreo ha subito e la sua lotta per la libertà e l’autodeterminazione.
Finalmente, il 24 maggio del 1991, è il giorno dell’Indipendenza. L’Autrice, con poche pennellate, ci fa sentire lo stato d’animo di tutti gli eritrei: la “gioia sfrenata”, “uno sfogo irrefrenabile”, “l’esultanza della tanta attesa liberta” che durò settimane e settimane, “in un’atmosfera che aveva qualcosa di irreale”, nelle città come nei paesini più remoti. 
La tanto attesa ‘Indipendenza’ è una meteora di felicità e di speranza che dura pochissimo: “Se non fossimo stati traditi da chi ci aveva promesso libertà e giustizia “(3), non saremmo fuggiti”. 
Emerge allora l'immagine di un paese dove i venticinque anni di “Indipendenza” e oppressione sono solo il prolungamento di una memoria passata:  contro i turchi Ottomani dal XV al XVIII secolo, poi la parentesi del fascismo italiano cui segue quella etiopica di Haileselassie prima, e il regime militare di Mengistu Hailemariam, dopo.
Come la dominazione estera in passato, l’estraneità tra il gruppo dirigente e il popolo eritreo è ancora più profonda e tangibile. L’Eritrea di Isayas Afewerqi è uno stato senza patria (4). Uno stato sui generis, autoproclamato, sovrano, despota, che fonda il suo potere sulla povertà e sulla debolezza dei suoi sudditi. Esso soffoca le iniziative e la libertà di azione degli individui  perché le teme, e dal momento che non conosce altri diritti se non quelli che si arroga, esso ha come unica regola di giustizia la sopraffazione. Mi fa ricordare la riflessione di Tucidide sugli ateniesi che di fronte agli abitanti di Melo, che supplicavano di essere risparmiati, risposero seccamente: “Dovunque i più forti impongono il loro potere, e i deboli si adattano, questa legge non l’abbiamo istituita noi, ci limitiamo ad applicarla”. (5)
In uno Stato dove manca una minima garanzia giuridica (6) non può esserci altra alternativa che la fuga. Leggendo il libro mi sono ricordato di Selam K., una giovane madre, di tre bambini incontrata a Roma nel 2012 che mi diceva di non avere nessuna paura di morire nel deserto o nel Mare Mediterraneo, “avevo invece paura di vivere per anni, seppellita viva con questi [indicando con lo sguardo i tre bambini] in un paese diventato oramai difficile per  muoversi, comunicare emozioni, pensieri e desideri".
Il personaggio Ziggy è la riprova che i fuggiaschi si assomigliano tutti, siano essi eritrei, siriani, ivoriani, camerunesi, bengalesi… perché si comportano come se nulla li spaventasse più, né le difficoltà del viaggio, né le violenze e decapitazioni che li minacciano. O meglio, nulla li spaventa di più di quello da cui fuggono.
È tremendo constatare che una giovane donna decida di salire, con tre bambini in tenera età, su un gommone stracarico e mezzo sgonfio pur di attraversare quel mare davanti che ha già inghiottito migliaia e migliaia di disperati… Nulla può fermarli, anche perché indietro non possono più tornare.
Infine, la bellissima parte dell’Epilogo, che vorrei non anticipare per non togliere il piacere a chi vorrà leggere Il mare davanti ; vorrei però dire che qui, l’Autrice, con tutto il suo impegno umano vuole mostrarci, ancora una volta, l’aspetto più affascinante dell’uomo: quella capacità di cadere, rialzarsi e ricostruire. 
 
NOTE
(1) Quella stessa forza di solidarietà e amicizia che lungo il viaggio verso la libertà, Ziggy ha dimostrato nei confronti degli etiopi, suoi compagni di fuga. Possiamo citare quando gli eritrei fanno una colletta ad un etiope perché gli mancano dei soldi da dare ai trafficanti, che altrimenti lo avrebbero abbandonato nel deserto.
(2)  La storia di Ziggy ci fa capire con immediatezza perché in Eritrea è in corso una vera e propria emorragia dei suoi abitanti. Secondo stime delle Nazioni Unite del 2015, il 9% della popolazione eritrea – circa 400 mila persone – sarebbe scappata negli ultimi anni.
(3)  Il paradosso vuole che nel 1993, dopo il referendum che sancì l'indipendenza dell'Eritrea, il glorioso Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo (FLPE) si trasformi, in partito politico col nome di Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia (FPDG).
(4)  In venticinque anni di indipendenza, il partito al governo è riuscito a demolire quella forza millenaria che aveva contraddistinto gli eritrei: la convivenza tra i diversi gruppi etnici e religiosi; la forza e il senso di appartenenza, di identità, di solidarietà… forze che nemmeno i turchi Ottomani, né il colonialismo italiano, né l’Imperatore Haileselassie, né il regime del “terrore rosso” di Mengistu Hailemariam erano riusciti a scoraggiare. Ma il partito al potere da 25 anni, sì.
(5)    Un giornale nazionale europeo, non so in quale circostanza, ha definito i componenti del regime in Eritrea, “… troppo rozzi per essere cinici, troppo primitivi per aver sempre ragione”
(6)    In Eritrea assistiamo a una sorta di calcificazione della situazione, una immobilità politica e sociale che vive di se stessa, in cui non esiste alcun orizzonte personale e umano che sia al di fuori dell’immobilità, appunto. Secondo fonti attendibili, oltre 5 mila eritrei lasciano la madrepatria ogni mese, non solo per chiedere asilo in Europa, ma per respirare, per salvare la vita da “uno stato prigione”, da quei luoghi che sorgono dove c’erano i campi di concentramento del colonialismo italiano! Da anni lo “stato eritreo” ha cercato di occultare gli effetti di una strategia del terrore istituzionalizzato a danno del popolo; ha esercitato poteri governativi con strumenti incompatibili con qualsiasi principio di tutela dei diritti umani e in assenza di qualsiasi forma di garanzia civile: torture fisiche e psicologiche, rappresaglie verso i familiari degli arrestati… ha continuato come strategia finalizzata a tenere la popolazione in un perenne stato di terrore e di invisibilità agli occhi della comunità internazionale.  Il rapporto ONU, presentato a fine giugno del 2015 al Consiglio dell'Onu sui diritti umani in Eritrea è alla luce del sole: pagine e pagine di atrocità in cui versa da tempo il Paese, ha riportato oltre 500 testimonianze ascoltate e circa 180 resoconti scritti, provenienti da cittadini in fuga. Si tratta del rapporto della commissione d'inchiesta istituita ad hoc, che ha lavorato per oltre un anno sulla raccolta ed analisi di informazioni, reperite a distanza, poiché nessun ispettore Onu è stato autorizzato a visitare il territorio dello Stato eritreo, nonostante le insistenti richieste.

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