Ezzedine C.Fishere -Abbracciarsi sul ponte di Brooklyn- a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 Ezzedine C.Fishere

 Abbracciarsi sul ponte di Brooklyn

 Francesco Brioschi editore, 2019

 traduzione di Elisabetta Bartuli

 

 

Pubblicato in arabo nel 2011 da un diplomatico giornalista e accademico, prestato al mondo della narrativa, il titolo sembra evocare incontri romantici, magari strappalacrime e pensi ai film “Il ponte di Waterloo” o ai “Ponti di Madison County”. Vero è che il titolo prende spunto dagli appuntamenti alla stazione Ponte di Brooklyn di due amanti dalla storia impossibile…

Tuttavia non c’è romanticismo in questa narrazione pur se il il testo parla di sentimenti, famiglia, amicizia, amore. Rapporti distanti padri e figli, relazioni al veleno tra ex-coniugi,legami di antiche stime e presenti disillusioni tra professori ed ex-allievi brillanti, e, soprattutto, vincoli ambigui di odio-amore con l’Egitto, la terra natia e con l’America, terra di immigrazione.

La vicenda ruota intorno ad una cena di compleanno che l’anziano professore universitario Darvish organizza per sua nipote Salma, figlia di Leila, avuta insieme al maschio Yussef, da una moglie mai amata, da cui si era separato e ormai deceduta da tempo. I suoi ospiti sono parenti, amici, ex-allievi: nessuno arriverà a questa cena, neanche la festeggiata, a causa di imprevisti e intoppi. Molti personaggi ruoteranno intorno alla Penn station, quella dove scendere per recarsi a casa del professore, ma senza incontrarsi, forse.

Un giorno dura la storia e i diversi personaggi, novelli Ulisse alla Joyce, vagheranno per la città di New York, per i più svariati motivi, in realtà mettendosi alla prova e cercando disperatamente se stessi. Però i protagonisti che seguiamo non sono solo gli invitati alla cena e i tempi della storia non sono solo quelli del girovagare dei personaggi. La scena del romanzo si popola di uomini e donne che appartengono al passato dei protagonisti, delle loro infanzie e dei periodi storici attraversati in Egitto o nel mondo arabo in genere, e negli Stati Uniti, primo tra tutti la tragedia del 11 settembre.

I personaggi, anche i più teneri e disponibili, hanno tutti qualcosa di antipatico ed eccessivo, ma come sottolinea in un’intervista l’autore, che gusto c’è coi personaggi simpatici ed accattivanti che i lettori amano subito? Più difficile costruire l’umanità di personaggi con lati irritanti e spesso non condivisibili. Perché questo vuole l’autore: restituirci la complessità degli essere umani, le motivazioni nascoste e non sempre dicibili che li muovono, la tenerezza e la pietà che  suscitano quando li vediamo impastoiati in decisioni difficili da prendere, esattamente come accade nella realtà a tutti noi.

Il campione di antipatia è senza dubbio l’anziano accademico Darwish, uomo egocentrico ed autoritario, che  ha preteso di dirigere le vite di  tutte le donne che ha avuto, dei suoi figli, dei suoi studenti, trasformandosi da professorino deluso dall’ambiente accademico cairota a intellettuale arabo americanizzato e fustigatore dei costumi degli egiziani. Tuttavia Darwish viene colto in un momento triste della sua vita: ricevuta la notizia di essere malato grave di cancro, abbandona il lavoro, regola i suoi affari e intende ritirarsi in una casetta in riva ad un lago per scrivere l’ultimo libro, in realtà per attendere in totale solitudine la morte. Cerca a modo suo di riallacciare i rapporti coi figli che ha sempre tenuto lontani dal suo cuore, spera che richiamare dall’Egitto sua nipote Salma a studiare a New York possa essere un modo per rimediare ai suoi comportamenti passati. Non confida loro, però, la sua malattia ( anzi la nasconde a tutti) e commette gli errori di sempre: giudicare e non comprendere mai il punto di vista dell’altro.

Il figlio Yussef ha disatteso completamente le aspettative paterne, trovando un po’ di stima solo quando accetta un lavoro negli organismi di aiuto internazionale dell’Onu: al padre sembra un lavoro sufficientemente stimabile. Ma gli anni passati nei campi profughi in Darfur faranno crollare tutte le sue illusioni: non crede più che l’ordine e l’organizzazione dell’Occidente siano in grado di risolvere i problemi . I suoi occhi hanno visto troppe ingiustizie perpetrate verso popolazioni inermi, anche con la connivenza tacita dell’Onu, più preoccupata di barcamenarsi tra le questioni diplomatiche e la sopravvivenza stessa dei suoi organismi. Ripiomba nella passività di cui si era dotato per resistere da bambino e da giovane al genitore, una sorta di resilienza nei confronti del padre bulldozer, rifugiandosi in Canada, ufficialmente per scrivere un libro sulle sue esperienze, in realtà, per vivere di rendita, da sfiduciato, su quanto aveva risparmiato al lavoro.

Anche la figlia Leila ha condotto le sue battaglie contro il padre con armi opposte a quelle del fratello: ribellione aperta e scelte divergenti da quelle del padre, compreso il ritorno al Cairo e ad una religiosità conservatrice e ipermoralistica, cui a sua volta tenta di sfuggire debolmente la figlia Salma. Leila ormai si rifiuta di discutere con il padre, mostrando però nei confronti di Salma lo stesso dirigismo di Darwish. Il divorzio della madre dal genitore, le vite distrutte delle donne che hanno vissuto con lui l’hanno indotta ad un matrimonio rivelatosi sbagliato da subito.

L’ex- marito Lookman ama la figlia, ma non sa sottrarla all’influenza della madre e non riesce a risolvere una volta per tutte le difficoltà di un rapporto con una donna olandese che dura da anni. Lui che ,a parte qualche periodo di lavoro negli Usa, non intende staccarsi dal suo lavoro di medico in un ospedale cairota per andare a vivere in Europa, laico e adoratore di Edward Said non comprende l’attaccamento di lei ad una religione protestante, che non gli sembra neanche una religione. Si amano, ma non trovano la forza o non credono alla possibilità di staccarsi dalle proprie convinzioni ed origini. In bilico tra i diversi ‘orientalismi’ di Said e Hourani, il grande mito di Darwish, non decide mai nulla né per se stesso né per la figlia.

Scorrono sotto gli occhi dei lettori  altri personaggi, legati in qualche modo a Darwish, che esprimono i soprusi e le intolleranze degli americani nei confronti degli arabi, in particolare modo dopo gli attentati delle torri gemelle, ma la sorpresa principale è riservata a Dawoud, parente acquisito del professore. Qui l’autore supera se stesso: quale romanziere di origine araba ha osato rappresentare, rivolgendosi ad un pubblico prevalentemente occidentale e senza giudizi di sorta, il punto di vista di un ex-guerrigliero palestinese, che ha avuto la famiglia distrutta nelle guerre contro gli israeliani e nelle stragi del campo profughi di Chatila? Dawoud ha gioito di fronte agli attentati del 11 settembre, perché non ne può più della politica del ‘due pesi due misure’ che l’occidente, soprattutto l’America, applica nei confronti dei morti altrui. I loro morti sono vittime incolpevoli, i morti musulmani sono danni collaterali delle guerre fatte per esportare la democrazia.

Il piano del 11 settembre è stata la fionda di Davide contro Golia, finalmente l’occidente avrebbe capito. Invece, pensa Dawoud, non è cambiato niente, tutto è continuato come prima e allora lui ha mutato strategia. Abbandonate le armi, è entrato negli Stati Uniti, si è fatto imam moderato, rispettoso delle leggi americane, pronto a lavorare sui giovani, perché non dimentichino le loro origini, perché non si facciano sopraffare dalla propaganda materialista, dai falsi miti di uguaglianza e libertà. Forse si vince solo spostando il campo di battaglia, Davide non ha ancora sconfitto Golia, ma appuntisce il sasso che accecherà il gigante, forse la guerra non finirà mai,  ma avrà insegnato ai giovani musulmani a decidere per cosa vivere.

Come si vede un personaggio scottante e suscettibile di molte critiche, soprattutto quando il lettore lo vede all’opera, subdolamente, per convincere la giovane Salma a entrare sotto il suo mantello protettivo, a cui lei si sottrarrà, non per convinzione ma per una istintiva paura. Neanche Yasmina Khadra ne “L’attentato”  o in “Khalil”era stato così esplicito.

Il finale è aperto come tutta la struttura del romanzo e i luoghi rappresentati, aeroporti, stazioni, hall di alberghi, caffè e ristoranti sono l’emblema delle debolezze e delle indecisioni, dei casi fortuiti o dei destini  in cui sono invischiati i personaggi. I binari sbagliati, le stazioni vuote e spaventose, i cellulari che si scaricano e impediscono il contatto con gli altri sono tutte spie delle difficoltà di questi uomini e donne alla prese con la storia, la loro e quella di tutti. Il testo ha pochi dialoghi diretti, tutto avviene nella testa dei personaggi che pensano, riflettono, ricordano e narrano. Un romanzo ostico per molti versi, come abbiamo detto, ma capace di accendere entusiasmi una volta che se ne sia compresa la direzione.

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