Gael Faye, Piccolo paese - recensione a cura di Giulia De Martino

Gael Faye, Piccolo paese

Edizione Bompiani, 2017 

traduzione di Mara Dompè

 

La parola chiave dell’incipit di questo romanzo è la parola nostalgia. Di un posto abitato dal protagonista da bambino, la Bujumbura di un Burundi  alle soglie dello scoppio dell’odio etnico e della violenza, ma colta ancora in un incanto che non ha più trovato nella Parigi, dove con suo padre e sua sorella,si è rifugiato allo scoppio dei gravi disordini.

" Non abito più da nessuna parte. Abitare significa  fondersi in modo carnale nella topografia di un luogo, nei meandri diseguali dell’ambiente. Qui niente di tutto ciò. Mi limito a passare. Alloggio. Sto. Occupo. La mia città è un pratico dormitorio.”Anche l’autore, di padre francese e madre ruandese, ha vissuto in Burundi, a contatto con famiglie di espatriati tutsi  dal Ruanda  e  ha subito la stessa sorte del piccolo Gaby : il testo è in gran parte autobiografico.

Economista e musicista rapper, scrittore teatrale e poeta Gael Faye ha vinto vari premi con questo suo primo romanzo che ha avvinto il pubblico francese per gli accenti di autenticità e verità in esso contenuti. Un ennesimo libro con protagonisti bambini o ragazzi, diranno i nostri lettori, per parlarci di Africa dal buco della serratura innocente dell’infanzia...Ma qui non regna il sarcasmo e la satira di Ondjaki , della Mukasonga o di Mabanckou: l’infanzia, in loro, è spesso un pretesto per parlare di lotte di potere, di retaggi coloniali, di vizi e superstizioni nazionali e di dittature, conditi da ineccepibili e fantasiose logiche infantili che suscitano inevitabilmente sorrisi .

Gael Faye scrive un romanzo in cui fa emergere il buonumore di una infanzia vissuta nell’eden di un  bel quartiere verde e residenziale, con lunghi pomeriggi di beata noia a osservare tramonti e le colline in lontananza, di scorribande a rubare manghi nei giardini altrui, di passeggiate al fiume, di nuotate e fantasticherie sul futuro, provando a fumare sigarette proibite nel rifugio di fortuna di un vecchio scassone di macchina abbandonato , in compagnia della sua banda di amici per la pelle, tutti meticci e di famiglie benestanti.

Al riparo da qualsiasi cosa, ignaro di tutto ciò che riguarda la società e la politica del Burundi, ama riamato i suoi genitori, la sorellina Ana, nonni e zii, cugini e fedeli servitori di casa: in una parola è felice di essere al mondo.

Ricorda l’autore ai suoi lettori che quando vediamo, oggi, lunghe file di rifugiati malmessi non pensiamo mai che comunque sono persone che hanno avuta una vita, che avranno avuto anche momenti di allegria e che il loro passato non è sempre stato miserevole e triste come il loro presente. “L’opinione pubblica penserà che sono scappati dall’inferno alla ricerca dell’Eldorado. Quante idiozie!Del paese che hanno dentro neanche una parola...Distolgo lo sguardo da quelle immagini. Raccontano il reale, non la verità.”

Ma il piccolo mondo sereno di Gaby comincia a scricchiolare: crescendo comincia a notare delle frasi cui prima non badava: il sostanziale razzismo di un vecchio amico di suo padre , atteggiamenti strani di certi collaboratori del papà, soprattutto le furenti litigate tra i genitori.

Il primo crollo è proprio la separazione dei genitori: la mamma se ne va, non sopportando più il clima di guerra creatosi tra lei e il marito: sempre un po’ instabile psicologicamente a causa della fuga precipitosa dal Ruanda da bambina per sfuggire ai pogrom degli hutu è una donna che desidera per sé e per i figli la quiete della Francia, mentre il marito si ostina a mantenere la sua attività in Burundi, negando che le cose possano cambiare bruscamente, come lei sostiene.

Il papà lo aveva vagamente e in un modo scherzoso messo al corrente della presunta differenza tra hutu e tutsi: per il bambino tutto si riduceva alla grossezza del naso, visto che il padre gli aveva assicurato che avevano la stessa lingua, religione e cultura. Che ne sapeva il bambino, che viveva in un mondo dorato di privilegi , di differenze socio-economiche ,di  allevatori e contadini, di antiche preferenze coloniali per i tutsi, di rivolte degli hutu per cambiare la situazione e di colpi di stato?

Di questi ultimi veniva a conoscenza solo perché la radio improvvisamente cominciava a trasmettere lunghi brani di musica classica al posto della normale programmazione

Ma dopo la separazione dei genitori comincia la fine della sua infanzia e dell’inconsapevolezza. La sua sensibilità si fa più acuta: a scuola nota divisioni che hanno a che fare con chi è hutu e chi è tutsi, insieme a sua sorella sente scoppi improvvisi di armi, assembramenti minacciosi, di muri che si ergono a difesa delle ville del suo quartiere. Perfino all’interno della sua banda si accorge di una richiesta di schieramento: non si può restare neutrali, anche se si è meticci, anche se non si condividono i disagi della popolazione, anche se si crede che la violenza non sia un mezzo adatto a risolvere le situazioni.

Si susseguono i colpi di stato e i presidenti; la famiglia, in alcuni momenti, vive reclusa in casa, nel terrore di attacchi. Addio alle ‘innocenti’ ruberie di manghi, anche il suo miglior amico Gino vuole armarsi  e passare all’inclusione in bande facinorose di giovani tutsi . Percorrere la città alla ricerca di membri del gruppo avverso da picchiare o ammazzare diventa un’attività sempre più incalzante.

 Gaby comincia a sentire una differenza tra sé e i suoi amici, si rifugia spesso da una anziana vicina greca, la signora Economopoulos, provvista di una grande biblioteca: i libri lo tengono a distanza dalla realtà, gli fanno chiudere gli occhi di fronte agli orrori, ma svolgono  anche la funzione essenziale di conservare e coltivare  sogni , percepire un mondo che non è solo la violenza a cui sta assistendo.

Della Francia Gael Faye dirà che è talmente piena di biblioteche che la gente non sa più che farsene. Come molti autori africani attribuisce un valore salvifico alla letteratura che dona al  testo una sfumatura di ottimismo : lo aiuterà a superare alcune lacerazioni che avvengono nella sua vita.

La mamma, ad un certo punto, ritorna, ma non è più la stessa donna elegante e profumata che lui e sua sorella conoscevano. E’ stata in Ruanda a cercare una parte della sua  famiglia, restata nel paese, scoprendone con orrore il massacro. Ha visto i cadaveri martoriati e non si libererà più di quelle immagini, uscendo fuori di senno, ossessionando sua figlia con la descrizione dei particolari più macabri.

I lutti cominciano a circondare da vicino il ragazzino: gli zii accorsi a difendere il Ruanda, il padre ambasciatore dell’amico Armand , il vecchio servitore che lo ha accudito da bambino.

Costretto ad una prova di coraggio tremenda per dimostrare che è schierato dalla parte giusta, conserva la carta d’identità dell’uomo, picchiato selvaggiamente dagli altri e che è stato costretto a  bruciare vivo, per ricordare per sempre cosa ha fatto. Ai massacri si può sfuggire, ma quelli interiori, come sa bene la madre, continuano a tormentarti. Siamo ormai nel’94, i francesi provvedono ad evacuare i connazionali e le loro famiglie. In Burundi è troppo pericoloso vivere dopo quel quasi milione di tutsi uccisi in Ruanda.

Ha cercato di ricostruirsi una vita di pace in Francia Gael Faye, ma recando con sé irrequietezze di cui la sorella si è liberata, rifiutandosi  ostinatamente di parlare di Burundi, Ruanda, genocidi e di sua madre.

Ma neanche la Francia è più un porto sicuro: odi violenti la stanno guadagnando, il terrorismo islamico con gli attentati instaura una spirale di intolleranze e risentimenti difficili da sanare per il momento.

L’autore, autore di un rap struggente dedicato al Burundi, che invitiamo a visionare su You tube,dal titolo “Pili pili sur un croissant au beurre”, ha deciso di trasferirsi, con moglie e figli, in un Ruanda oggi pacificato e che ha fatto sforzi enormi per uscirne fuori, al confine di quel Burundi dove non si può vivere in pace, percorso com’è , ancora, da conflitti, corruzione e colpi militari.

Una decisione controcorrente, visto che la maggior parte degli autori africani che conosciamo vive altrove o a cavallo di più mondi, deciso ormai a percorrere la strada ,di recente imboccata, della narrativa.

Colpisce la lingua usata. Frasi brevissime. Fatte di una sola parola , una prosa scandita ritmicamente, che ripete liricamente il concetto, proprio come fa la musica rap, anche se lo scrittore ha cercato di liberarsene per non diventare solo ‘il rapper che ha scritto un romanzo’ .

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