Lauren Francis-Sharma - Come il vento - a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 Lauren Francis-Sharma

 Come il vento

 Frassinelli, 2020

 traduzione di Maria Luisa Cantarelli

 

Le isole antillane, in principio popolate da Caribi e Arawak, attraverso le colonizzazioni spagnole, francesi ed inglesi e il contributo culturale di asiatici, in gran parte indiani, hanno dato vita ad una popolazione mista di lingue, culture e individui dalle più svariate gradazioni di colore. E’ da una di queste isole, Trinidad, che proviene la famiglia di questa scrittrice americana emigrata negli Usa, con tanto di nonno indiano, probabilmente servo a contratto, e una nonna nera antillana. Dopo aver dedicato alle sue origini un precedente romanzo, “Figli di un fiore azzurro”, ambientato a Trinidad negli anni ‘40, l’autrice ha voluto esplorare  più a fondo questi gruppi etnici che si sono mescolati a partire dal XVI sec. con i relativi problemi sociali e culturali che ne sono scaturiti, oltre che ovviamente le pesanti conseguenze del giogo coloniale, soprattutto di quello inglese a partire dagli inizi del XIX sec. 

E’ ormai un’esplosione di scritti americani sulla schiavitù e le colonizzazioni d’Africa, che riguarda in realtà molto meno gli scrittori africani, perché è negli Stati Uniti che il problema del razzismo, oggi più che mai acuito, rende necessaria questa operazione storico-culturale, come possiamo vedere dal recente movimento del “black lives matter”.

Il romanzo si legge tutto d’un fiato, soprattutto per due motivi: il primo è la scelta narrativa di intrecciare diversi filoni, seguendo i quali è necessario scorrere in fretta le diverse parti per “sapere come va a finire”; il secondo è il tratteggio magistrale di alcuni personaggi principali, in particolar modo Rosa Rendon, una donna straordinaria e intraprendente a cui stanno scomode tutte le etichette che la famiglia e la società le impongono e contro le quali combatterà tutta la vita.

L’arco temporale, compreso tra il 1796 e il 1832, si apre con il filone dedicato all’adolescente Victor e a sua madre, alla loro vita presso un villaggio di nativi Crow di Apsaalooke, situato nell’attuale Montana, nella parte nord occidentale degli Stati Uniti. Siamo lontani da Trinidad che comparirà poco dopo con la famiglia Redon, e comprendiamo che la madre di Victor, Rosa, è piena di misteri circa la sua origine, è nera, e si distingue perciò dalle altre donne e ha un rapporto particolare con Edward Rose, suo marito, un sangue misto nero, di professione guida e interprete per esploratori bianchi, accolto dalla tribù Crow e diventato un valente capo guerriero. Da lui ha avuto due gemelle , molto affezionate a Victor. La madre intuisce che è giunto il momento di mettersi in viaggio e intraprendere un cammino di conoscenza di se stessi per sé e per il figlio, dirigendosi verso un luogo che ha determinato il destino suo e di suo figlio.

E’ collocata alla fine del ‘700 la presentazione dell’intera famiglia Redon a Trinidad da cui proviene Rosa: il padre Demas è un nero della prima generazione di schiavi affrancati, è proprietario di una casa, di un podere, di un piccolo allevamento di cavalli e una rustica officina da fabbro; proviene da una famiglia priva di cultura, è un po’ rozzo e volgare, ma è una persona abile e capace, molto attaccato  alla moglie e ai tre figli, per i quali cerca di preservare la proprietà, minacciata dai nuovi padroni inglesi, molto più duri e meno accomodanti degli spagnoli e soprattutto rapaci dal punto di vista fiscale. La madre, Myra Robespierre, discendente meticcia da coloni francesi della Martinica, è una black light, come del resto la figlia Eve e adora soprattutto Jeremias il maschio indolente e inetto, l’altra figlia è Rosa;  Myra, imbevuta di lingua e cultura francese, resta attaccata alle convenzioni coloniali della linea del colore. Più si è chiari, più si è simili ai bianchi, più si è belli e accettati dalla società. Proviene da una famiglia di antichi possidenti che tramano per entrare in possesso dei beni di suo marito. In questa famiglia si parla francese spagnolo e inglese, solo il padre a volte parla una sorta di creolo. E’ Rosa la non allineata: è molto nera come il padre e, al contrario della delicata sorella Eve, non accetta per nulla l’educazione all’obbedienza, al conformismo, alla femminilità convenzionale, tutta trine, ricami, cucina e governo della casa. Ama l’aria aperta che accentua ancora di più il suo colore, con grande scorno della madre che dispera per questo di trovarle un marito decente, è pratica di coltivazioni, di falegnameria, adora i cavalli e sogna di poterli allevare di persona in un futuro. E’ convinta che il padre debba lasciare a lei la conduzione della fattoria: ma Demas, per quanto l’adori e le insegni molte cose, come se fosse un ragazzo, resta un capo famiglia tradizionale e pensa di lasciarne la proprietà al maschio, anche se ha grossi dubbi che questi possa riuscirci. 

A questo punto s’inserisce il filone di Creadon Rampley che lega la terra dei nativi americani ai neri antillani. Del resto era frequente per molti schiavi fuggiaschi dal sud degli Stati Uniti o dalle isole rifugiarsi su a nord per cercare una via d’uscita alla loro situazione.

Come rivela  l’autrice, in una intervista,  è stato proprio l’aver scoperto le testimonianze su Edward Rose, personaggio realmente esistito e le carte sull’esplorazione del Nord America e dell’Ovest di David Thompson che le hanno suggerito la figura di Creadon Rampley, metà inglese, metà nativo amerindio. Inventa perciò questa figura di vagabondo, insicuro e teso verso una vita di amore e soddisfazioni che non riesce ad avere, dato che è eternamente in cammino e si sposta, talvolta letteralmente scappando, dalla terra di Rupert, nell’estremo Nord, alle acque tropicali di Trinidad, passando per quella che allora veniva chiamata Nuova Spagna comprendente gli attuali Messico, Guatemala, la costa venezuelana e parte delle Antille. Arrivando a Trinidad, dopo una lunga serie di avventure (anche troppe) entra nelle grazie del padrone Demas , per cui comincia a lavorare, incuriosisce Rosa e poi…

Sarà così che Rosa si troverà nell’America del nord, quando gli inglesi provocheranno il crollo della famiglia Redon e sarà costretta a scappare, come il resto della famiglia, lasciando solo il padre, ormai malato, a presidiare coraggiosamente la fattoria.

Nel romanzo le notizie si desumono da un diario di Creadon Rampley di cui entrerà in possesso Victor, il figlio di Rosa e finalmente capirà tutto delle sue origini e il perché la partecipazione alle iniziazioni degli adolescenti Crow del villaggio sia stata sempre fallimentare, non riuscendo ad avere la ‘visione’ che ne avrebbe guidato il passaggio all’età adulta. Passerà attraverso molte sofferenze, conoscerà finalmente la storia di sua madre e i segreti che gli hanno impedito di trasformarsi in un vero uomo.

Come molte scrittrici odierne americane l’autrice non si limita all’analisi della deportazione degli africani, del colonialismo ma inserisce anche il discorso di “genere”, riportando molte riflessioni di Rosa sui ruoli femminili e maschili, che si ripropongono diversi ma uguali nella sostanza dai neri antillani ai nativi amerindi, dai coloni bianchi agli straccioni vagabondi del Nord che popolavano l’epoca delle esplorazioni e della caccia alle pellicce e alle ricchezze. Su tutti domina la violenza e la sopraffazione come modalità di relazione umana . Sorprendentemente viene messo in bocca al padre Demas, in risposta al disagio espresso da Rosa nell’ aderire alle aspettative “femminili” della madre, un discorso sulla difficoltà di essere maschi, sulle pressioni della società nei loro confronti. Non a caso la scrittrice ci propone diversi gradi di “virilismo”: dal macho Edward Rose agli insicuri Creadon Rempley e Victor ( il “figlio delicato” viene definito)  in  ricerca continua del proprio posto nella vita che si spalanca minacciosa ai loro occhi.

E’ a questo punto che si chiarisce il messaggio contenuto nel titolo inglese ”Book of the Little Axe”, completamento disatteso da quello italiano, come al solito modificato in nome di non si sa che cosa: il testo premette alla narrazione un proverbio africano-caraibico e una frase citata dall’  “Enrico VI” shakespeariano circa l’azione di una piccola ascia che, sebbene di piccole proporzioni, può abbattere un grande albero: metafora della splendida resistenza del passato di dolore ma anche speranza di possibilità per il futuro.

Un libro cinematografico che ci spalanca le profondità cristalline di un mare tropicale, di una vegetazione lussureggiante, di montagne inospitali e fredde del grande nord, foreste ricche di selvaggina e tanti cavalli, soprattutto i favolosi mustang ( a tratti nel testo sembra di essere dentro il romanzo-film Black Beauty...) L’immagine dell’eroina Rosa, libera a cavallo, che fa nascere puledri e conosce le medicine per curarli, che è in grado di cacciare e conosce i versi degli animali resta impressa nella memoria, unendo tratti virili e femminili, forieri di un futuro diverso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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