Leila Slimani - Il paese degli altri - a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Leila Slimani

 Il paese degli altri

 

 La nave di Teseo, 2020

 traduzione di Anna D’Elia

 

 

 

La giornalista e scrittrice ha già vinto il premio Goncourt nel 2016 con “Ninnananna” . A lei, che si dichiara “francese al 100% e marocchina al 100% “, il presidente Macron ha affidato il ruolo di ambasciatrice della cultura francofona nel mondo, anche se sembra un po’ in contrasto con la tematica di questo romanzo… Si tratta della prima parte di una trilogia, quella relativa al periodo 1944-1956, che partendo dalla seconda guerra mondiale e dalle prime ribellioni al protettorato francese arriverà, nei successivi volumi, fino al terrorismo islamico contemporaneo.

 

La storia dell’alsaziana Mathilde che sposa Amin, ufficiale marocchino arruolato nell’esercito francese, segue un po’ le vicende stesse della famiglia della Slimani. Fu infatti la sua nonna alsaziana a sposare realmente un colonnello marocchino, conosciuto in Alsazia, durante il processo di liberazione della Francia, e a seguirlo poi, giovane sposa, in Marocco, dando l’avvio ad una famiglia, di formazione culturale francese, che sarebbe vissuta sempre tra la Francia e il paese nordafricano.

Il testo ruota tutto intorno a dicotomie, apparentemente inconciliabili e a conflitti insanabili in cui vivono i personaggi: la Francia e il Marocco, la cultura cristiana e quella islamica, il cibo locale e quello alsaziano, l’incontro/scontro uomo-donna, l’educazione dei figli europea e quella tradizionale marocchina, l’istruzione, il lavoro, l’indipendenza delle donne europee e la sottomissione di quelle arabe, il modo diverso di concepire le istituzioni e la vita sociale, l’intenerimento per gli animali e la concezione utilitaristica che ne hanno gli arabi ; perfino gli abiti diventano motivo di contesa.

Ma non è iniziata così per Mathilde, alta, vistosamente bionda e di pelle lattea, con un corpo solido e ben piantato, quando si accinge a conoscere il paese del marito bruno, bellissimo, (ma più basso di lei, cosa che non mancheranno di far notare tutti i compaesani che disprezzano la coppia mista, quale segno di cedimento di un maschio ad una donna) .

Lei si era innamorata di un immagine esotica e passionale che pensava l’avrebbe condotta ad una vita eccitante e avventurosa, tanto da far schiattare d’invidia il padre e la sorella insieme a tutto il villaggio provincialotto in cui era cresciuta che cominciava a starle stretto e dal quale desiderava allontanarsi per conoscere altri mondi.

Mathilde è imbevuta, come Madame Bovary, di letteratura e con questo filtro legge una realtà via via sempre più deludente, rispetto ai suoi sogni. Ma non vuole ammetterlo subito, perché significherebbe riconoscere di essersi sbagliata e non vuole darla vinta ai suoi, di cui sente echeggiare la frase “te l’avevamo detto...”. Perciò invia a casa lettere assolutamente false, sul modello della vita africana di Karen Blixen e descrive paesaggi esotici alla Pierre Loti.

La travolgente passione erotica non è sufficiente a smorzare la delusione: dapprima la convivenza a Meknés con la madre di lui, i fratelli e la sorella Selma, poi la vita in una fattoria sperduta nel nulla, ereditata dal marito Amin da parte di suo padre.

 

Tuttavia la donna impara l’arabo delle cucine e della strada, quello dal basso, con nulla di letterario, che sarà la sua chance per essere apprezzata dai contadini del luogo, quando deciderà di mettere su un dispensario per curarli con l'aiuto di un amico dottore.
Ma non sarà mai una di loro, anche se ne condividerà la vita: cercherà sempre un albero con cui festeggiare il Natale, cucirà i vestitini per la figlia Aisha secondo fogge, agli occhi di tutti, esterofile, pretenderà di accompagnare il marito nelle seratine di bisbocce con gli amici, tutti maschi ovviamente, non capirà mai la suocera, vestale delle tradizioni, farà di tutto per avviare la figlia e la giovane cognata sulla strada dello studio e dell’istruzione; non sarà in grado, però, di sottrarre Selma, ancora una ragazzina, ad un matrimonio con un uomo rozzo e violento, molto più grande di lei. Con i francesi non andrà meglio: occhiate di compassione per la connazionale costretta da questo matrimonio ad una povertà a loro sconosciuta, occhiate di disprezzo per essersi umiliata a una sottomissione da parte di chi non era altro che un dominato coloniale.

Una proprietà sassosa e sterile, dotata di una casa priva di agi e con dei dintorni desolanti: questa era stata, per Amin, l’eredità del padre. Le terre migliori le avevano prese i francesi o altri europei e ai proprietari locali toccavano le terre difficili da coltivare e da far fruttificare.

Tuttavia Amin, che con la guerra aveva viaggiato, aveva visto come una fattoria potesse essere modernizzata, messa a cultura di olivi ed alberi da frutta, irrigata con pozzi scavati secondo nuovi metodi, lavorata con mezzi meccanici: guardava quello che facevano i suoi vicini coloni per rendere rigogliose le terre. Nessuna banca però gli concederà mai un prestito: i francesi coltivavano una certa modernizzazione negli arabi, ma non troppo, non volevano certo essere sostituiti da loro. Amin si dedica con passione alla terra, lavora come un forsennato , trascura moglie e figli, spende i soldi guadagnati per reinvestirli nelle migliorie della terra, mentre la famiglia si arrabatta con vestitucci di lana pizzicosa fatti in casa e resta sempre chiusa in casa ad aspettarlo. Ma anche lui ha addosso gli occhi dei compaesani che gli saettano ” sei un traditore, hai sposato una nemica”. La sua vita gli parrà un eterno pendolo in oscillazione. Quando richiama la moglie per certi suoi comportamenti, non lo fa perché segue principi religiosi, anzi Amin non è per niente un musulmano ossequiente, ma per un attaccamento alle tradizioni, agli insegnamenti della madre, ad una volontà di non distinguersi troppo dagli altri, temendo anche le feroci critiche di suo fratello Omar, tutto conquistato dalle idee nazionalistiche e antifrancesi. Lui ama sua moglie, ma non le risparmia schiaffi e parole dure, perché sfoga su di lei le umiliazioni subite dai francesi: siamo nel pieno di una ricostruzione della psiche del colonizzato, come analizzata da Fanon.

 

Non c’è solo la dinamica colono/colonizzato, ma anche la guerra dei sessi, causata da un patriarcato, duro ancora oggi a morire, come fa notare in una intervista l’autrice: anche nel cosiddetto mondo civile le donne sono sfregiate e ammazzate, hanno salari inferiori agli uomini e non occupano posti di potere se non in numero esiguo.

Tutti i personaggi sembrano dei guerrieri che non cedono mai e tutto sembra essere vissuto con una passione intrisa di carnalità e violenza: l’amore, la religione, la patria, la terra.

In questa storia ognuno cerca un modo suo di sopravvivere alle difficoltà: anche la piccola Aisha, mandata alle scuole francesi, ma guardata di traverso dalle compagne e dai loro familiari, rivelando immediatamente la sua doppia origine con una espansa e crespa capigliatura di un biondo acceso, resistente a qualsiasi spazzola. Si rifugia, amareggiata e impaurita, in una religiosità cristiana teatrale e autopunitiva con cui cerca di collocarsi, in qualche modo, nel mondo intorno a lei. E’ intelligente e studiosa, attaccata al padre, ma difficilmente capirà bene da che parte stare quando la situazione familiare e politica comincerà a dare segnali di guerra e squilibrio.

Selma crederà che scimmiottando moda e comportamenti francesi potrà essere accettata dai coloni che vivono con libertà i loro sogni; si ribella alla madre e ai fratelli, ma non ce la farà: ormai incinta di un europeo che se l’è data subito a gambe levate, Amin la farà sposare ad un suo vecchio attendente con cui aveva fatto la guerra in Europa e con cui aveva condiviso l’orgoglio di aver contribuito a liberare l’Europa dal nazismo.

 

Così tutti vivono ‘nel paese degli altri’: i francesi , occupando un paese che non è il loro, gli arabi nazionalisti perché non sono liberi e sono dominati nella loro stessa terra, le famiglie miste perché si sentono avvolte da una coperta stretta tirata da tutti e da tutte le parti.

Tutto ciò pone dei problemi ancora oggi ai francesi di origine marocchina circa il posto che occupano nella società in Francia e sottolinea come non sia stata sufficiente una decolonizzazione politica a mettere le cose a posto.

Il testo può semplicemente apparire interessante a noi italiani, ma in Francia sta suscitando polemiche: tutti si sentono coinvolti in queste critiche e giudizi, anche perché ufficialmente il Marocco non è mai stato una colonia, terra francese d’oltremare come l’Algeria, ma un protettorato con tanto di re lasciato al suo posto, anche se sotto controllo. Tuttavia, di qualsiasi colonialismo si sia trattato, ha scavato profondamente un solco. Le conseguenze si sono viste nel terrorismo islamico che ha particolarmente colpito la Francia.

Anche il fratello Omar, che diversamente da Amin farà la scelta di armarsi con i gruppi combattenti che lottano per l’indipendenza, sembra recare già, nella sua visione islamica, i germi dell’odio religioso.

Solo l’amico ebreo con cui la famiglia aveva fatto amicizia, fuggito dall’Europa orientale, sembra attrezzato per vivere in un equilibrio pericoloso: gli ebrei da sempre vivono ‘nel paese degli altri’.

Molti francesi hanno spesso magnificato il progresso e la modernizzazione operata dai Residenti Generali in Marocco negli anni’ 40-’50, ma queste cose le abbiamo già sentite anche noi italiani: ‘quando i treni arrivavano in orario’, le strade e i collegamenti realizzati nell’Africa orientale e i poveri africani sollevati dalla miseria e dalla superstizione…

Amin, proprio perché è legato dalle scelte fatte, non si schiera da nessuna parte, il suo interesse principale sembra essere quello di salvare la fattoria e la famiglia.

Il romanzo termina con una sorta di citazione , crediamo voluta, dell’incendio di Atlanta in “Via col vento”: siamo nel ‘55, anche sulle colline di Meknés le fiamme divorano il passato dei francesi con le loro case e fattorie. Tutto pare dominato dall’odio e dalla violenza.

Crolla un mondo, ma quello che nascerà sarà veramente libero e giusto per tutti?

Sicuramente la scrittrice esibisce una visione non buonista e non stereotipata del multiculturalismo, propria di certi antirazzisti, invitandoci ad una forte dose di realismo ed anche forse a scavare di più sullo zoccolo duro dell’alterità che comunque esiste.

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