Alain Mabanckou, Verre Cassé (recensione di Giulia De Martino)

alain mabanckou- verre casséAlain Mabanckou, Verre Cassé

Morellini Editore, 2008

ll libro di Mabanckou ha un immediato incipit in medias res, con la richiesta del padrone del bar Il credito è in viaggio a Verre Cassé, un ubriacone frequentatore più che assiduo del suo locale, di scrivere un libro sugli avventori abituali del posto e le loro storie,  tristi, strane o allegre che fossero. Lo scopo lo dice subito: “gli abitanti di questo paese non hanno il senso della conservazione della memoria” e basta con i luoghi comuni dei vecchi come depositari della memoria collettiva, “nell’era della pagina scritta […] la parola è fumo negli occhi, piscio di gatto selvatico”, abbasso “in Africa quando muore un vecchio è come se bruciasse un’intera biblioteca”! 
Tutto è cominciato quando Verre Cassé ha raccontato, scherzando, al Mollusco ostinato (questo il soprannome del padrone) di un certo scrittore famoso che beveva come una spugna: niente da fare, il Mollusco prendeva tutto sul serio e il protagonista comincia ad essere un po’ preoccupato da ciò che ci si aspetta da lui, dal momento che il suo mecenate si presenta con un quaderno perché lui lo riempia di storie. Anche Il credito è in viaggio avrà il suo scrittore beone. Bere e scrivere si rivelano in questo testo un binomio inscindibile.
Fin dall’inizio il lettore comprende di trovarsi di fronte ad un autore estremamente irriverente nei riguardi delle culture africane, delle culture occidentali, ma anche di se stesso. Oltre che una vicenda, per chi legge, si srotola una immensa biblioteca di scrittori, poeti, intellettuali africani e occidentali attraverso decine e decine di citazioni, quasi sempre nascoste, implicite nella narrazione: una gigantesca sfida giocosa che potrebbe intitolarsi “indovina l’autore”. Ma non è uno sfoggio di bravura accademica, che se fosse solo questo sarebbe divertente sì, ma un po’ fine a se stessa. Le citazioni di titoli, di frasi significative, di detti famosi, le strizzatine d’occhio, i rimandi sono in realtà un cannibalesco omaggio, per inserirsi di diritto, con irrispettosa umiltà, in una tradizione sia africana che europea del romanzo fantastico, di una rappresentazione della realtà grottesca e iperbolica, che passa attraverso lo sberleffo e l’osceno per approdare però ad una sorta di compassione verso l’umanità più derelitta, da Rabelais a Sony Labou Tansi, da Calvino e Dario Fo a Dongala.
Ma si sbaglierebbe a pensare che un romanzo così sia roba solo per palati ultra raffinati e superculturalizzati, perché la narrazione procede in modo molto semplice, attraverso la presentazione di svariati personaggi, dai tratti grotteschi, abitanti di Tre Soldi, un degradato quartiere alla periferia di una metropoli africana: il Mollusco e la storia difficoltosa e ostacolata dai poteri locali della costruzione del suo bar, l’Uomo dai pampers con tutte le violenze e umiliazioni  subite in carcere , il Tipografo arrabbiato amante della Francia e di una donna, finito quasi pazzo a causa delle sue vicende, la prostituta Robinette, cicciona e strafottente e il suo rivale Casimir, uno smilzo ometto che la vince a chi fa la piscia più lunga della storia, la Cantatrice calva, una specie di Mama Africa, che si occupa di sfamare, gentile e solidale, a pochi soldi, quelli cui la vita proprio non ha fatto sconti.
Fuori dai cliché delle rappresentazioni delle miserie d’Africa, non risparmia nessuno: presidenti e uomini potenti, emigrati, donne arriviste, europei di sinistra che quando meno te l’aspetti si rivelano razzisti e colonialisti, ex-contadini inurbati o uomini di potere pronti a credere a stregoni imbroglioni o a guru di religioni fasulle.  Il tutto in un linguaggio sintattico continuo e infinito, pausato solo da virgole e senza mai un punto: l’oralità fatta persona che scorre come il fiume Tchinouka, dentro le cui acque è scomparsa la madre del protagonista, teneramente amata e ricordata insieme alla sua infanzia e in cui si tufferà per un viaggio definitivo, per ricongiungersi a lei, anche Verre Cassé. In un francese, che non è un fiume tranquillo, dice l’autore, ma contro il quale si è in lotta perenne per sbarazzarsi e modificare le regole che avevano tanto affascinato Senghor.
Ma il compito dello scrittore non è quello dell’affabulatore dalla parola salvifica, è solo più modestamente quello del testimone e costruttore di tracce: anche le esistenze più sordide e derelitte ne lasciano una, come quelle dei personaggi del “Il credito è in viaggio”, attraversati da aggressività - o furibondi -, ma anche da solidarietà e tenerezza.

Giulia De Martino

© Scritti d’Africa, 21 novembre 2008

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