Maryse Condé -La vita senza fard- a cura di Giulia De Martino

 

 

 

Maryse Condé

 La vita senza fard

La Tartaruga edizioni, 2019

Traduzione di Anna D'Elia

 

 

 

Per rimediare ad una dimenticanza di riconoscimento internazionale nei confronti di una scrittrice come Maryse Condé , arrivata tardi, sulla quarantina, alla scrittura, ma considerata di grande spicco e successo nel panorama della letteratura mondiale, nel 2018 le viene conferito il cosiddetto Nobel alternativo .

Nel 2019 esce in Italia una sua autobiografia, scritta in realtà  nel 2012, rivelando una ottantenne vivace ed acuta, che si guarda senza ipocrisie, a tratti piuttosto impietosamente, senza fard appunto. Ricordiamo la traduzione in italiano della sua saga di “Segou” in due volumi, uscita nell’88 e nel ‘94 e “Io Tituba, strega nera di Harlem”, dove alla ricostruzione storica si affianca una capacità di affabulazione straordinaria.

Una vita vissuta all’insegna della peregrinazione, alla ricerca di quell’Africa originaria, tenutale così accuratamente nascosta dall’educazione familiare a Pointe-a-Pitre, nell’isola di Guadalupa dove era nata e vissuta fino ai 20 anni, in cui aveva dominato l’assimilazione totale alla cultura francese che distingueva, come diceva la madre, i’ negri di livello’. Un modo, per la piccola e media borghesia locale, di scrollarsi di dosso il passato ‘vergognoso’ di schiavitù che aveva modellato le popolazioni delle Antille.

E se la Francia, conosciuta durante gli studi universitari alla Sorbona, rappresenta il primo contatto con gli africani d’Africa, con i gruppi intellettuali ispirati alla corrente della “negritudine” e i fuoriusciti dalle dittature dei Duvalier dalla sua isola di  provenienza, l’autrice avrà bisogno di passare attraverso le esperienze di vita e di cultura in Costa d’Avorio, Guinea, Ghana e Senegal per farsi un’idea di cosa realmente cercasse. Molti antillani francesi furono assunti dai nuovi stati francofoni nel campo dell’istruzione, della sanità, dell’amministrazione così come molti afroamericani lo furono nei paesi anglofoni: tutti desiderosi di contribuire allo sviluppo della nuova Africa che stava risorgendo dalle ceneri del colonialismo.

Pur ammettendo un certo interesse  per questa posizione, la Condé non si nasconde dietro un paravento di consapevolezza politica e di militanza per spiegare come mai la sua vita ad un certo punto la condusse in Africa. Spesso dietro certe scelte di peregrinazioni ci sono rapporti sentimentali difficili, povertà e necessità di sfamare i 4 figli, non potendo fare affidamento su un marito irresponsabile o amanti che si occupassero sul serio della sua piccola tribù.

E qui entra in scena un altro tema portante di questa autobiografia: gli amori, le passioni, i rapporti sbagliati o opportunistici con gli uomini a cui si lega e la relazione di ambiguità con i figli. Figli teneramente amati, ma anche ostacolo alla ricerca di quale posto occupare nella società: in questo testo s’incontra il dilemma di tutte le donne che lavorano o che aspirano a non essere totalmente identificate con il ruolo di madre. Per quanto riguarda i suoi amori citiamo una sua frase :”La passione non procede per analisi, non fa la morale. Brucia, incendia e consuma”. Illuminante...Certo è che il senso di colpa verso i figli, soprattutto verso Denis, il suo primogenito, quel suo continuo sdradicarli da amici, scuole , tate, ambienti dove avevano trovato accoglienza e congenialità, la perseguita per tutta la vita.

Seguiamo il nascere, a poco a poco, della sua coscienza politica, delle riflessioni sul colonialismo e post-colonialismo, il passaggio  da una generica e astratta ‘negritudine’ all’impegno, da Senghor a Cabral e Fanon.nIndaga profondamente la questione del colore e della linea del colore, apertamente fa emergere la diffidenza degli africani per gli antillani, considerati neri di seconda scelta, per il loro passato di schiavi che non si ribellavano e acculturati dai paesi che li hanno dominati e meticciati, ma anche la delusione degli antillani, la sua in particolare, per questa terra d’Africa che stenta a riconoscerli come veri fratelli e non come cugini un po’ bizzarri, come l’autrice sottolinea nel testo. D’altra parte lei si sente diversa e, pur avendo delle esperienze positive nelle società africane che ha frequentato, tuttavia sente di  non condividere molti tratti delle loro culture, per esempio il tribalismo, in modo particolare si sente lontana dalla concezione della donna e dal maschilismo accentuato, anche in coloro che si collocano in parti politiche progressiste.

Un dato emerge in tutto il libro: l’amicizia, durata fino alla vecchiaia, con uomini e donne che ha incontrato nelle sue diverse attività come l’insegnamento in piccole scuole di provincia, oppure in prestigiose università, durante il suo lavoro nella redazione di programmi culturali in radio locali o internazionali e nel giornalismo.  Alcuni di loro l’hanno aiutata in momenti difficili della sua vita, così come molti altri, gli sconosciuti, che provvisti di grande senso di solidarietà, le hanno teso la mano, quando sembrava difficile districare certe situazioni.

Molti personaggi famosi che appaiono nel testo, uomini politici o esponenti di spicco della cultura, africani, inglesi, francesi, afroamericani e antillani, le consegnano qualcosa che servirà a cambiarla, fino a renderla la scrittrice che è diventata, la donna impegnata in attività importanti contro le discriminazioni di razza o genere.  La denuncia delle sofferenze fisiche e morali inflitte alle popolazioni nere africane, durante il lungo processo di costruzione delle colonie, la porta a essere il presidente del Comitato per la memoria della schiavitù che ha visto riconoscere la tratta atlantica come un crimine contro l’umanità; anche se nel testo mostra fastidio per la speculazione turistico-commerciale operata da alcuni paesi nei luoghi teatro di questa immane tragedia...

Sarà il secondo marito, un professore inglese, traduttore di tutte le sue opere nella lingua anglosassone, a darle  finalmente una stabilità sentimentale, a farla tornare a Guadalupa e a farle conoscere gli Stati Uniti, dove oggi in gran parte  risiede.

Quella ricerca interiore  ed esteriore della vera Africa da cercare ad ogni costo è cessato, filtrato ormai dalla letteratura, che le ha permesso di guardare ad essa senza il tormento di un tempo. Finalmente ad un’età più che matura si riconcilia  con la sua isola, da cui era fuggita per strapparsi di dosso la puzza sotto il naso che avevano i ‘negri di livello’, per deporre il senso di sradicamento e solitudine che l’aveva presa alla morte dei suoi famigliari o alla loro dispersione in mezzo mondo.

Non c’è che dire, è proprio l’autobiografia di una vita da romanzo, pari in avventure ed eccitanti storie a quelle delle sue fiction, scritta in una lingua priva di patetismi, a volte persino sgradevole per il suo accento di verità, affascinante proprio perché sa di vita vera, senza infingimenti.

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