Mohamed Mbougar Sarr- Terra violata - recensione a cura di Giulia De Martino

Mohamed Mbougar Sarr

Terra violata

edizioni E/O, 2019

traduzione di Alberto Bracci Testasecca

 

A soli 25 anni questo giovane autore senegalese ha vinto, nel 2015,  il premio Ahmadou Kourouma al Salone del libro di Ginevra proprio con “Terre ceinte”, “Terra violata” in italiano, uscito da poco in traduzione. E’ decisamente un testo che non passa inosservato: pur essendo legato alla delirante e terribile cronaca dei territori in mano alla jihad islamica non si configura come una fiction che ci dà informazioni di tipo giornalistico sull’argomento. Proprio per evitare questo, il paese e la città, il Sumal e Kalep, dove si svolge l’azione, sono inventati, perché l’autore vuole una connotazione filosofico-politica piuttosto che di reportage specifico. Certo i nomi sono in assonanza con Somalia, Kalid, città del centro-nord del Mali, Aleppo di Siria, tutte zone dominate dalle violenze e dalle guerre islamiste, e alcune situazioni richiamano il nord della Nigeria dei Boko Haram.

In una intervista dichiara di essere stato spinto alla scrittura dall’esecuzione pubblica di una giovane coppia, colpevole di aver avuto rapporti senza matrimonio, nel nord del Mali nel 2012, evento che ha ispirato anche il regista mauritano Abderrahmane Sissako per il film “Timbuktù”. Ma hanno sicuramente influito anche la costituzione e le vicende del califfato islamico in Siria. Nel finale ci sono gli echi dell’enorme scalpore e orrore suscitato in occidente dall’incendio della  biblioteche di Timbuctù, per la distruzione di preziosissimi manoscritti medievali islamici e pre islamici, avvenuta in Mali nel 2012.

Detto questo, la vicenda ruota, in modo polifonico, intorno ad un gruppetto di personaggi che decidono di pubblicare un giornale clandestino per continuare ad usare la parola e la libertà di pensiero, anche quando il regime ha reso tutti afasici e assoggettati al pensiero unico religioso coranico. Lo scrittore vuole sottolineare, tra l’altro, il fatto che le prime vittime dell’integralismo sono proprio i musulmani arabi e africani, abituati come siamo a pensare che si tratti di una lotta solamente contro la cristianità occidentale.

Nella scena raccapricciante con cui si apre il romanzo l’autore comincia ad analizzare i comportamenti della folla, che si ripeteranno in occasione di una flagellazione per strada e nel finale, davanti all’esecuzione di due dei giornalisti del gruppo: interessa allo scrittore vedere la trasformazione degli individui comuni sotto un dominio tirannico e totalitario. Come durante il periodo nazifascista o nel comunismo sovietico  c’è chi resiste e chi collabora, ma anche chi tace e si astiene quando potrebbe ancora parlare e agire, e chi si rinchiude nella propria sofferenza, perché toccato, personalmente o nella famiglia, dal regime.

E’ questo, in realtà, lo scopo degli integralisti: usare tutti la stessa parola, quella presunta di Dio, uniformità ottenuta con intimidazioni, rappresaglie, esecuzioni, proibizioni di ogni genere. Di più ancora: suscitare una paura che induca alla delazione del famigliare, del vicino di casa, dell’amico,  spezzare quei legami individuali tra persone in nome dell’unanimità di un rassicurante collettivo religioso.

Sono bellissime e profonde, perché prive di giudizi, le pagine dedicate alla paura degli uomini comuni, di chi si trova a dover sopravvivere in una situazione non solo deprimente, ma soprattutto pericolosa per la propria vita e quella dei suoi cari. Ma nello stesso tempo viene fatto emergere come sia possibile che un medico e sua moglie, un infermiere, una informatica d’ospedale e un professore universitario, uno stampatore e un vecchio e taciturno padrone di bar , trovino la forza e il coraggio di agire, sia pure nella clandestinità, mettendo a rischio se stessi, il proprio lavoro e la famiglia.

Sembra di essere trasportati nel periodo delle resistenze al nazifascismo, quando gente comune diventa eroica e altrettanta gente si mette, per i motivi più diversi, dalla parte degli oppressori. Voci contrapposte, tutte ugualmente ascoltate, si alternano e si esprimono nel romanzo, comprese quelle delle due madri dolenti del giovane e della ragazza, uccisi all’inizio della storia. Le due donne, entrambe chiuse nella propria sofferenza, non aiutate da mariti violenti o collaborazionisti si inviano lettere, rese graficamente in corsivo, per chiarire come si sentono e come sopravvivono al dolore: l’una non spera più che qualcosa cambi, neanche dopo la ribellione della gente, perché è morta con la figlia, l’altra invece immagina che sia possibile di nuovo aprirsi alla speranza e combattere per far sì che il figlio non sia morto invano.

Un caos di sentimenti agita tutti questi uomini e donne, anche la moglie del dottore che ha vissuto l’esperienza del figlio maggiore, ascetico e solitario, che da tempo si è unito ai ‘barbuti’, nel periodo della guerra di conquista,  gettando la famiglia nello sconforto più totale.

L’idea del giornale clandestino, enunciato all'inizio, è quella di far emergere ed ordinare questo grumo di sofferenza e di dargli comprensibilità e chiarezza attraverso la parola, per riprendersi il diritto a capire prima ancora che ad agire, cercando di spezzare la barriera del pensiero monolitico ed ossessivo degli integralisti. Non a caso, in tutti i regimi totalitari i libri e i giornali e oggi anche il web sono nel mirino; si perseguitano e si uccidono per primi intellettuali, artisti, scrittori e giornalisti, per togliere l’esercizio del pensiero libero che ci rende umanamente degni. Poi si cerca di cancellare la memoria di che cosa si è stati o di che cosa era una città prima del loro arrivo: ci sono delle pagine bellissime dedicate alle passeggiate notturne di Alioune, l’infermiere del gruppo clandestino, nella città vuota e priva di quella verve ed energia date dalle fiumane di gente che si riversava nelle strade, dal rumore del traffico, della musica dei bar e dagli odori che si spandevano nell’aria.

Viene data  voce anche al figlio islamico del dottore, al suo percorso faticoso di avvicinamento e convincimento alla radicalizzazione ; così pure al dotto Abdelkarim, il potente capo della polizia dello stato islamico instaurato a Kalep.  Esempi di intellettuali affascinati dalla parola ultima e totale di un dio possessivo, a cui ricondurre un gregge riottoso, anche con la forza e la violenza, con una guerra totale, se serve. Due figure diversamente connotate rispetto alla massa degli integralisti combattenti, spesso analfabeta e ignorante del Corano, capace di biascicare solo qualche preghiera e in balia dei vizi di sempre, attratta dalle armi e dal potere che dà la ‘Fratellanza’ anche a chi non ha niente e non è nessuno. 

Abdelkarim escogita la trappola giusta per far uscire allo scoperto gli improvvisati giornalisti clandestini, a cui dà una caccia spietata e senza quartiere: bruciare i libri della più antica biblioteca per azzerare qualsiasi memoria, pensando di attirare i resistenti, riconoscendoli dalle reazioni, spiate nei volti.

Ma non diciamo di più perché una storia è una storia, e non si può rivelare il finale…

Per dire tutto ciò l’autore, controcorrente rispetto ad altri autori africani assai più meticci e sperimentalisti nel linguaggio, adopera un francese piano di una chiarezza ed eleganza illuministe, adatto ad un fraseggio filosofeggiante e politico in senso lato, che traspare anche in traduzione. Lo scrittore distribuisce tra i vari personaggi evidentemente le sue riflessioni, i suoi dubbi, le sue speranze, facendoli emergere in modo dialogico, attraverso le diverse caratterizzazioni che ha dato ai protagonisti. Riesce ad evitare però le secche e la noia di un romanzo a tesi, perché la vicenda rimane ancorata ad un  solido  realismo.

Per ora solo le armi hanno spezzato i jahidisti, come in Siria per esempio; chissà che la speranza di una parola intelligente e persuasiva di un giornale possa smuovere quella folla indistinta che vive nella paura e che sembra rispondere solo all’istinto della sopravvivenza fisica: qui si suggerisce anche la sopravvivenza del cuore e dell’intelligenza.

Come è successo in Europa negli anni ‘30 e ‘40 - l’autore ha indagato a fondo il periodo - potrebbe succedere anche in Africa.

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