Moussa Konaté, L’onore dei Kéita - recensione di Giulia De Martino

Moussa Konaté, L’onore dei Kéita

Del Vecchio editore, 2011

Traduzione di Ondina Granato

 

Come auspicato nella precedente recensione dei romanzi dello stesso Konaté (alla quale rimandiamo per gli aspetti concernenti lo scrittore e la tematica generale a cui è interessato), ecco vedere la luce il terzo libro, uscito in Francia, come L’ASSASSINO DI  BANCONI , nel 1998.
Le cose si complicano per il commissario Habib e il giovane ispettore Sosso: questa volta sono alle prese con una catena di omicidi-suicidi legati al sistema tradizionale delle caste, istallatosi nell’area all’epoca di Soundiata Keita, il grande sovrano mandingo, fin dal secolo XII. Lo strano è che il primo cadavere di un Bagayoko viene trovato in una vasca di un cantiere alla periferia di Bamako, ma non è in città il centro della storia, bensì nei piccoli villaggi di Nagadji e Lobo, che sembrano usciti da fotogrammi di film di Souleymane Cissé o di Idrissa Ouedraogo: qualche capanna, capre e mandrie al pascolo, bambini chiassosi, anziani sotto  grandi alberi, donne al lavoro.
L’antitesi tra città e campagna è colta, innanzitutto, in Sosso, rappresentante di una generazione di mentalità e costumi totalmente urbani e modernizzanti: l’ispettore si presenta sempre a cavallo della sua potente moto, con cui spesso e volentieri ama  sfrecciare, ha terrore degli animali selvatici, i coccodrilli gli procurano incubi a non finire, attraversare il fiume in piroga lo rende completamente irrequieto, resta estraneo a molte tradizioni che gli devono essere spiegate come se fosse uno straniero. Anche il commissario Habib getta occhiate molto infastidite al fango delle grandi piogge o guarda con inquietudine alla cupezza della foresta al calar della sera, ma, data l’età, ha una maggiore dimestichezza con le credenze tradizionali , il che gli permette di avere intuizioni sul caso da risolvere.
Un aiuto viene da un vecchio amico di Habib, il dottor Thiam, capo di una stazione di ricerca su specie arboree a ricrescita più rapida, vicina al villaggio di Nagadji, che lo introduce nella gerarchia sociale e nelle caratteristiche del luogo. Il tema della deforestazione è sempre presente in tutto il testo, anche attraverso l’espediente comico, per cui i poliziotti dell’indagine d’omicidio vengono eternamente scambiati per guardie forestali, a caccia di chi taglia indebitamente alberi, senza preoccuparsi delle conseguenze.
Una complessa vicenda della famiglia Kéita, che non sveliamo per ovvie ragioni, la messa in gioco non solo dell’onorabilità dei suoi membri, uomini e donne, ma della stessa possibilità di permanenza del sistema delle caste, in cui è divisa la società tradizionale, rende intollerabile la vita del capo Sandiakou, del fratello Nema, custode della capanna sacra, protetta da coccodrilli enormi e feroci, della cugina Satourou, del fedele ‘fabbro’ Bagayoko, di tutti i loro congiunti, fratelli, figli e nipoti. Una famiglia maledetta dalla trasgressione delle regole secondo le quali un ‘nobile’ non può sposare un ‘artigiano’ o un ‘griot’; le altre caste sono  condannate ad una vita di sottomissione per servire l’orgoglio smisurato di chi si colloca nella casta nobiliare. Solo i più giovani, studiando e andando in città, forse possono spezzare la catena, ma non senza gravi conseguenze: questi ultimi, tuttavia, non disprezzano i padri, li sanno coerenti con quanto hanno appreso e praticato da tutta una vita. Ma il mondo va avanti e Sosso e Habib non possono permettere che ciò sia al di fuori delle leggi che ormai debbono valere per tutti, senza sconti. Ma una certa pietà pervade l’ispettore e il commissario: gli avvenimenti cui hanno assistito hanno avuto le sembianze di un crepuscolo degli dei. Però, però…certi fatti restano misteriosi, il guizzo di una figura mostruosa tra i lampi della tempesta, una sudorazione improvvisa e una debolezza avvertita nei pressi della capanna sacra. E’ tornato o non è tornato il Grande Antenato dei Kéita nella commemorazione del settimo giorno? E l’autore gioca un po’ a non è vero ma ci credo.
Del resto il sorriso è sempre a portata di mano in questo tipo di noir, basta guardare le figurine del maniaco Daouda, con il suo improbabile impermeabile rosa, del povero storpio Lambirou con la fissazione di andare in America, del piccolo Solo, eroe per un giorno, in quanto testimone di alcuni eventi, sufficiente per fargli desiderare di fare il poliziotto come il commissario Habib. Ridono tanto molti  personaggi di questo libro, ogni occasione è buona per scherzi e motti spiritosi. È veramente uno stile di vita diverso…
Ma il male, da cui il giovane sergente Sidibé dichiara di volere proteggere la società diventando poliziotto, è veramente quello cui abbiamo assistito? Il commissario conduce alla finestra il giovane sergente: “Guarda- gli disse mostrandogli lo spettacolo dei mendicanti - è questo il male, figliolo; gente che sguazza nel fango e abbandona ogni dignità riducendosi ad implorare la generosità dei suoi simili che a loro non fanno neanche caso. E ogni giorno diventano un po’ più numerosi, presto buona parte degli abitanti di questa città sarà composta di mendicanti e senzatetto. Sarei ben contento se mi spiegassi di quali mezzi disponi per ‘proteggere’ la società da questo male, sergente Sidibé”.
Ma si sa, la polizia ha un altro modo di vedere il male e forse, conclude Habib, è lui a essere invecchiato e a non essere al passo con i tempi.
 

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