Oiza Queens Day Obasuyi - Corpi estranei - a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  Oiza Queens Day Obasuyi

 

  Corpi estranei

 

  People, 2020

 

 

La scrittrice è una italiana di Ancona di origine nigeriana, una afroitaliana per intenderci: laureata in lingue si sta preparando alla tesi del corso di laurea magistrale in Global politics and International Relations. Diamo queste informazioni perché non sempre a 25 anni,oggi, si ha la sua stessa la chiarezza d’ idee e di analisi, unita ad un linguaggio espositivo semplice ed incisivo.

A differenza di altri libri finora recensiti di giovani della seconda, se non terza generazione, questo testo non parte dalla sua vita, se non per qualche accenno nelle ultime pagine, e si configura come un saggio. Del resto l’autrice già scrive per le riviste Internazionale e The Vision ed esprime quel linguaggio comunicativo tipico della generazione dei millenials.

 

Cominciamo dal titolo: l’autrice ricorda che il razzismo e l’intolleranza non li ha inventati l’era salviniana, ma si annidano in una annosa questione storico-culturale che si trascina dal periodo coloniale, mai autenticamente affrontato a livello di opinione pubblica. Ecco da dove nascono le immagini dei migranti stranieri, specialmente quelli neri, ora come invasori, ora come stupratori, ladri di lavoro italiano e da ultimo importatori di terrorismo o di covid. E per la nostra sinistra sempre come cuccioli del wwf da salvare. Mai come persone reali con identità , pensieri, opinioni. Corpi spersonalizzati con cui non si vuole fare i conti. Con l’avvertenza, richiama la scrittrice, che chi non subisce può provare empatia, può parlare di razzismo, ma non quanto le persone che ne sono vittime. Che ci piaccia o no…

Una schiera di storici più recenti, capitanati da Angelo Del Boca, ha fortunatamente svelato l’ipocrisia degli ‘italiani brava gente’, narrazione distorta dietro cui nascondere le stragi, i soprusi, l’uso della yprite sui civili, la concezione di dominio e superiorità nelle relazioni umane, comprese quelle sessuali con donne nere. Nasce da allora l’immagine della donna nera, particolarmente predisposta a concedersi sessualmente, eccezionalmente vogliosa e incline alla prostituzione. Questo non vuole dire che non esistano prostitute nere, ma l’autrice vuole parlare dell’immaginario stereotipato.

 

Come esempio della non volontà di affrontare veramente la questione la Obasuyi cita la polemica sulla rimozione e imbrattamento della statua di Indro Montanelli, nel giardino a lui intitolato. Sull’ondata di emozione, restata in Italia, a dire la verità, superficiale e poco produttiva, suscitata dal movimento americano “Black lives matter”, dopo l’uccisione del nero George Floyd da parte di un poliziotto bianco, ancora c’è chi ha scusato Montanelli di aver comprato, sposato e violentato la sua sposa bambina di 12-14 anni: un atto che in Europa sarebbe stato classificato come stupro se si fosse trattato di una ragazzina minorenne bianca. Ma il sindaco di Milano Beppe Sala e il giornalista Beppe Severgnini hanno ridotto l’argomento a un generico errore di gioventù, da parte di un uomo poi diventato un grande professionista e difensore della libertà di stampa. Sminuire la colpa, sostenendo che tutti sbagliamo e poi ci pentiamo è un modo classico per non prendere sul serio la questione. Del resto, in una intervista nel 2000, Montanelli parlò ancora dell’episodio, facendolo rientrare, con un pizzico di nostalgia, nelle smanie di gioventù, nell’adeguamento ai costumi locali e via dicendo: non sembra proprio un’autocritica, commenta dura la Obasuyi.

 

Dunque oggi i giovani neri nati o cresciuti in Italia,soprattutto giovani ragazze, in modo un po’ diverso dalle scrittrici post-coloniali di origine somala, eritrea, etiopica, ma provenendo da molte parti dell’Africa, cominciano a far sentire le loro voci, a dare un corpo ad una narrazione diversa del razzismo: si propongono, come obiettivo, la decostruzione, la decolonizzazione culturale. Finora hanno parlato i bianchi, alcuni anche in modo giusto, senza interpellare nessuno degli africani e se la sono cantata tra di loro. Ma non basta più mettere un bambolotto nero tra le braccia della statua di Montanelli…

Ecco perché è importante analizzare tutti gli stereotipi con cui i neri sono rappresentati sulla stampa, in tv, al cinema. La Obasuyi insiste molto sulla etnicizzazione delle notizie che riguardano i migranti. “Senegalese stupra una ragazza”: premettere la nazionalità invece che il nome e cognome della persona che commette il reato o le circostanze in cui è avvenuto, lascia intendere che tutti i senegalesi sono stupratori. La colpa non è più individuale, come in ogni stato di diritto, ma si allarga all’intera comunità. La propaganda da smontare non è tanto quella di chi parla di sostituzioni etniche, in riferimento all’accoglienza di stranieri, peggio se neri, aggrappandosi ad un razzismo scientifico che li bolla come inferiori: a questo ci hanno già pensato, storici e scienziati.

Ora si tratta di affrontare qualcosa di più sottile, che non sembra neanche razzismo agli occhi di molti: quel continuo chiacchiericcio della stampa e tv sul primo avvocato nero, sul primo corazziere nero al Quirinale, sulla nomina del primo ministro nero: sulla meraviglia che un nero parli bene italiano e occupi posti di rilievo. Ma dove sta la sorpresa? La pelle nera diventa un tema di utilizzazione politica sia da parte dei razzisti che degli antirazzisti. Salvini ha il suo senatore ‘negro’? Certo, anche nello staff o nel partito di Trump ci sono. I neri non sono corpi spersonalizzati, ma individui pensanti di classi sociali diverse: possono lottare per i diritti di tutti contro un razzismo sistemico ed economico o concentrarsi sui loro successi personali,con una differente visione del mondo.

Quindi una lotta antirazzista fondata solo sul colore della pelle in nome del fatto che siamo tutti uguali è fallimentare e parziale. Con convinzione l’autrice asserisce che se la lotta non si lega alla questione sociale nel suo complesso, non cambia niente: il razzismo buonista di tanta sinistra scivola quasi sempre nel paternalismo o lascia intendere che ‘purtroppo’ i tempi non sono maturi per affrontare i cambiamenti.

 

Tante organizzazioni di intervento in Africa inviano in quei paesi personale non sempre qualificato e consapevole delle differenze socio-politico-culturali da paese a paese. L’idea che sta sotto è che basta essere occidentali per risolvere i problemi, spesso occupando stipendi e alloggi assai più importanti del personale locale, che quasi mai viene interpellato, ma solo catechizzato.

Tutti sanno che Roma non è Londra e la Francia non è l’Italia, ma ci si rifiuta di credere la stessa cosa per i paesi africani, arrivando all’assurdo di considerare l’Africa un solo grande e unico paese e che un progetto pensato per un villaggio del Burundi sia buono indifferentemente per la periferia di Bamako.

Non si parla mai dei paesi che hanno affrontato l’epidemia di ebola con successo o di progetti portati a termine, sia pure in mezzo a mille difficoltà, o degli eroi come N’krumah, Lumumba, Sankara, Ken Saro- Wiwa che hanno tentato di cambiare le cose e i rapporti con l’occidente, pagando alcuni con la morte. L’immagine è sempre la stessa, quella del bisogno che solo l’uomo bianco può alleviare.

Oltre all’analisi della rappresentazione dei neri sui media, l’autrice rivolge la sua attenzione alle leggi che si sono succedute nel tempo, nel tentativo di regolamentare gli ingressi e i permessi degli stranieri fino ai decreti ultimi di Salvini; critica i centri di accoglienza, identificazione e rimpatrio, che hanno cambiato spesso nome ma acquisito tutti le stesse caratteristiche carcerarie: affollamento, burocrazia e regole penitenziarie. Si è visto recentemente nella gestione del covid 19 cosa sia successo al loro interno.

La Obasuyi sostiene che finché non si svincola il permesso di entrata dal contratto di lavoro non si fermeranno le morti nel mediterraneo. I giovani che partono non lo fanno tutti per fame, molti partono come i giovani italiani laureati o diplomati insoddisfatti da quello che il paese offre loro. Ma i giovani africani pagano un tributo altissimo di morte nel farlo.

L’Italia si è barcamenata per 30 anni con sanatorie grandi e piccole che risolvono solo il problema di una minoranza: si sa che per molti datori di lavoro l’immigrato è meglio sfruttabile se resta clandestino e c’è quindi tutta la convenienza a lasciarli nell’illegalità. E per la sinistra (ma l’autrice intende sempre il PD) ipocrita, in generale, l’immigrato va difeso e tutelato con leggi perché l’Italia non può coprire tutta una serie di lavori che gli italiani non vogliono più fare... non perché possa essere un individuo detentore di diritti. Immigrato, meglio se nero = solo forza lavoro. Dalla padella alla brace...come aveva già fatto notare il sindacalista dei braccianti Aboubakar Soumahoro.

 

L’altro grande dato a cui attribuisce molta importanza è la mancanza di una legge di riforma della cittadinanza. Tema estremamente sentito da tutta la generazione G2 e di cui abbiamo dato testimonianza in alcune recensioni recenti sul nostro sito.

Nel 2017 le proposte dello ius soli temperato e dello ius culturae presentavano tante regole, alcune sostanziali altre burocratiche, quante l’attuale disposizione della possibile richiesta di cittadinanza ai 18 anni per i giovani nati o scolarizzati in Italia. Se, per esempio, uno ha la sfortuna di avere uno o tutti e due i genitori che hanno perso il lavoro, anche se stanno da 20 anni nel nostro paese, il figlio non può accedere alla richiesta. Non se ne fece nulla per motivi di politica interna ai partiti.

Gli italiani poi, anche i politici che le leggi le emanano, fanno di tutta l'erba un fascio: c’è una grande differenza nel percorso di chi nasce o cresce in Italia e il percorso di chi è appena sbarcato e finisce in un centro di accoglienza. La riforma della cittadinanza è un conto e la disciplina degli ingressi un altro. Senza contare l’idea balzana che la cittadinanza si deve sudare e meritare, possibilmente con qualche atto di eroismo, vedi la vicenda dei due ragazzini egiziani in viaggio in bus con la scuola che hanno sventato l’atto terroristico di un autista in vena di suicidio-omicidio o gli atleti che fanno vincere l’Italia.

In sostanza l’Italia si rifiuta di comprendere che ci troviamo di fronte ad una realtà cambiata, che non basta più l’antirazzismo della prima ora emotivo e solidale, ma che si tratta ormai di dare spazio ai ragazzi e alle ragazze che in Italia cominciano a reclamare cambiamenti culturali profondi. I bianchi, conclude l’autrice, devono fare un momento di silenzio per ascoltare queste voci e lasciare che abbiano visibilità.

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