Petina Gappah - Oltre le tenebre - a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 

 

 Petina Gappah

 Oltre le tenebre

 Guanda, 2020

 traduzione di Stefania De Franco

 

L’avvocatessa scrittrice dello Zimbabwe ha già pubblicato in Italia - sempre con Guanda, nel 2016- “La confessione di Memory”, in cui si serve della sua attività professionale per narrare un’Africa in bilico tra modernità e tradizione, con la storia di una albina che uccide il suo benefattore.

Qui, però, affronta una storia con cui si sono cimentati in molti, scrittori, giornalisti e registi cinematografici: le vicende del dottor Livingstone, il celebre esploratore. La narrazione è affidata a due africani della spedizione di Livingstone: Halima, la cuoca  e Jacob, un eterno aspirante prete.

Per le sempre misteriose ragioni per cui l’editoria italiana modifica i titoli originari nella traduzione italiana, segnaliamo che il resto del titolo Out of darkness, Shining Light allude probabilmente alle modalità diverse con cui i protagonisti della vicenda affrontano i cambiamenti della Storia: siamo nel periodo della fine della schiavitù esercitata dai potentati locali e dai mercanti arabi e la cancellazione di regni e istituzioni di potere tradizionale da parte di una feroce penetrazione coloniale europea.

Lei, Halima la cuoca che da ragazzina segue Livingstone, alla fine della storia sa di poter resistere alle bufere della libertà riconquistata: non tutti gli schiavi, vissuti sempre sotto padrone, ebbero la possibilità di rifarsi una vita, non avendo mai conosciuto prima, autonomia di pensiero e di azione. La luce splendente del titolo originale sembra una metafora di questo: dopotutto essere stata al servizio di David Livingstone è servito a qualcosa.  Si vogliono far emergere non solo le ingiustizie e i soprusi subiti, ma anche i risvolti luminosi di questa vicenda.

Il testo è dunque la fiction romanzata della fine dell’esploratore scozzese David Livingstone e del lungo, estenuante e pericoloso viaggio di 285 giorni intrapreso, nel 1873, da circa 70 dei suoi servitori. Porteranno, a loro rischio e pericolo, la salma dal luogo dove bwana Daudi (così veniva chiamato il dottore esploratore) era morto - a Chitambo, presso il lago Bongweulu in Zambia-  a Bagamoyo, sulle coste della Tanzania, per raggiungere la nave inglese che avrebbe riportato in patria le sue spoglie. Testimonianza prima di questo viaggio, la lapide posta sulla tomba di Livingstone nell’abbazia di Westminster “trasportato da mani fedeli per terra e per mare…”.

Dieci di loro perderanno la vita nel viaggio che ha dovuto affrontare nemici, intemperie climatiche, la fame, le incomprensioni e le paure delle genti incontrate durante il trasporto di un cadavere straniero che nessuno voleva far passare nei suoi confini. Un impegno gravoso assunto per svariati motivi, vuoi per devozione e rispetto come per Susi e Chuma, collaboratori da sempre del dottor Livingstone; o per il timore che non consegnare ai parenti la salma, sottraendo loro la possibilità di piangere sulla sua tomba, potesse portare sventura, secondo alcune superstizioni condivise un po’ da tutti; vuoi per la speranza di una lucrosa ricompensa da parte degli inglesi o, come nel caso di Jacob, poter arrivare a Londra e coronare il suo sogno di essere un prete missionario. Per questo si affretta a riordinare le carte del bwana e a inscatolarle per salvarle: la benemerenza che ne sarebbe scaturita lo avrebbe innalzato agli occhi di tutti.

In una intervista al “The Guardian”, l’autrice dello Zimbabwe dichiara di avere impiegato 20 anni per portare a termine questo romanzo: per la prima volta sente parlare della vicenda nel 1998, dal padre, appassionato di storia. Impara lo swahili, soggiorna a Zanzibar e frequenta il David Livingstone Memorial Trust, dove trova parecchio materiale sia dello stesso esploratore, sia dell’americano Stanley che  ritrovò Livingstone dopo tre anni che se ne erano perse le tracce. Ma le saranno utili anche articoli dell’epoca, relazioni di società missionarie e scientifiche e tracce di un diario di Jacob Weinright, la seconda voce narrante della storia, edito però, sfortunatamente per la scrittrice, dopo la pubblicazione del suo testo.

Siamo in presenza di una storia romanzata sì, ma scrupolosamente studiata e documentata, sulla scia di altri giovani autori africani o di origine africana, desiderosi di dare voce a chi non l’ha mai avuta, nel tentativo di integrare la storia ufficiale, scritta dagli occidentali, con altri punti di vista finora mai presi in considerazione.

Le tenebre, di cui nel titolo, sembrano apparentemente accomunare il romanzo a “Cuore di tenebra” di Conrad e al viaggio di Marlow sul fiume Congo, ma in realtà la parentela è più con “As I lay dying” di Faulkner, come sostiene la stessa autrice. Infatti non è tanto la discesa agli inferi che viene descritta quanto il realistico resoconto di un viaggio con un cadavere, che scatena invidie, gelosie e rancori, ma fa emergere anche solidarietà e umanità, come nel racconto del citato scrittore americano.

Quello che ne esce fuori è un ritratto umano non convenzionale dell’esploratore, al di là del mito e della leggenda agiografica, fatto di contraddizioni: a volte il dottore si rivela venale e meschino, superbo e testardo, convinto della superiorità delle sue idee che lo porteranno a commettere errori fatali; a volte Halima e Jacob lo descrivono estasiato da un tramonto su un lago, da un fiore mai visto, da una cascata di mille colori, eccitato dall’avventura, piuttosto che dall’entusiasmo di creare proseliti cristiani.

Certo i narratori sono “inattendibili” e forse proprio per questo la narrazione si tinge di verità nascoste che saltano fuori fresche e ingenue.

Halima guida il lettore nella prima parte: ci sprofonda in un cicaleccio, una specie di flusso di coscienza in cui mescola il presente con i ricordi della sua vita di piccola schiava di corte, figlia di una schiava cuoca-concubina del sultano di Zanzibar: una schiavitù dorata fatta di buon cibo, vestiti decenti e ambienti luminosi.

Non ha cultura, è maliziosa e pettegola, fonte di liti continue con le altre donne del gruppo, comprate da bwana Daudi per alleviare la solitudine sessuale dei servitori e portatori, che hanno lasciato a casa mogli e figli. Anche lei è stata comprata per Amoda, uno dei servitori del gruppo più vicino a Livingstone. Non riuscendo ad avere figli, il bwana le affida una bimba trovata tramortita ai margini di un villaggio assalito dagli schiavisti, con cui ripara alla sua maternità mancata.

Lingua lunga e biforcuta, sentenzia il cristiano Jacob, ma sarà lei a trovare la soluzione per il trasporto della salma. Il suo sapere di cuoca viene messo al servizio dei compagni di viaggio: come si fa per conservare la carne di un animale ucciso? lo si eviscera e lo si secca...Così sarà fatto per il bwana, interrando cuore e interiora sotto un gigantesco albero nel luogo dove è avvenuta la morte del dottore.

Solo cent’anni dopo sarà posta una lapide per ricordarlo. Halima se la cava con furbizia, ricorrendo anche alla sua prorompente sensualità per vincere nel difficile dibattito che si apre dopo la decisione presa del trasporto della salma.

Di una cosa resterà convinta fino alla fine: ma che cavolo di storia è questa, andare alla ricerca delle sorgenti di un fiume, che comunque esistono e scorrono al di là della loro scoperta? E appunto per questo il dottore ha abbandonato i suoi figli, fatto morire sua moglie di malaria, seppellendola dove nessuno la troverà mai e praticamente ammazzato sua figlia neonata? Lui che ha pianto per la morte del suo amato cagnolino, non ha avuto pietà dei suoi? Però gli è grata per le cose che le ha insegnato e per la promessa della sua liberazione, comprensiva dell’acquisto di una casetta tutta sua.

L’altro narratore, Jacob, ci presenta la vicenda attraverso la scrittura: un diario in cui si alternano brani di storia vissuta, invettive infarcite di citazioni e preghiere contro chi si oppone alla sua visione del mondo e ai dettami cristiani, interpretati alla luce di un fanatico rigorismo e di una misoginia esposta a suon di Bibbia  e lettere di san Paolo. Misoginia, diciamolo, in gran parte condivisa dal dottore... Oralità contro codice scritto, dunque. Segnala le trasformazioni del giovane schiavo yao, liberato durante il viaggio per mare verso l’India, su una nave degli inglesi. Questi avevano cominciato ad abolire la schiavitù nell’oceano indiano e pattugliavano i mari per fermare le navi negriere.

Jacob viene mandato nella scuola missionaria di Nashik dove studia, impara l’inglese e diventa un fervente cristiano protestante. Diviene il prototipo del colonizzato mentale di cui parla Fanon: crede in modo acritico alla cultura occidentale, non presta il fianco a nessuna critica circa le modalità totalizzanti con cui è stato cristianizzato, per lui la lingua inglese è il culmine di ogni desiderio. Diventa più bianco dei bianchi, come lo accusano i suoi compagni di viaggio. Tutto ciò lo contraddistingue dagli altri, verso i quali non cessa di mostrare superiorità, anche nei confronti del bwana Daudi, colpevole ai suoi occhi di aver abbandonato i propositi di cristianizzare il continente in favore di ridicole mete pseudoscientifiche. Quando, dopo la morte del bwana, gli capita di leggere brani del diario di Livingstone, si accorge che il suo preteso antischiavismo è fortemente ambiguo, dati i contatti frequenti con le tribù africane e i capi arabi che praticavano la tratta. Se la prende con il dottore perché pensa di più a soddisfare la lussuria degli uomini, procurando loro le donne che a fare proseliti. Nonostante ciò è l’unico di tutti i servitori e portatori che si sente in grado di essere alla pari con la cultura del bwana: ma anche lui cadrà nella rete dell’ipocrisia e di impulsi sessuali irrefrenabili…

Certo alcune pagine del presunto diario di Jacob sono a volte sovrabbondanti, un po’ noiose e frenano la trama degli eventi, provvista anche di un killer vendicatore.

Il testo termina come certi film, basati su eventi reali dove ci viene raccontato cosa ne è stato di molti dei protagonisti della storia: chi muore, chi trova la sua strada, chi aspetta ancora un futuro radioso, chi finisce male. E’il finale che serve a far riflettere sulle conseguenze disastrose dell’attività missionaria di epoca vittoriana, su come l’avanzamento della penetrazione commerciale segni l’ingresso della colonizzazione vera e propria. La tratta l’hanno fatta da tempo prima arabi e africani, ma le grandi proporzioni successive del fenomeno sono dovute agli europei. Questi uomini e donne sono i testimoni di un mondo che sta scomparendo, negato nella sua storia e nella sua cultura.

Un testo narrativamente ben congegnato, con una caratterizzazione dei personaggi notevole, un linguaggio semplice e accattivante, espresso in una lingua in cui l’inglese si mescola allo swahili. Non preoccupatevi, c’è un glossario...

 

 

 

 

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