Roland Rugero, Vivi!, a cura di Giulia De Martino

Roland Rugero, Vivi!

Edizioni Socrates, 2013

 

In attesa delle novità del 2014, vorremmo parlarvi di un piccolo prezioso libro, uscito nel novembre del 2013 a firma di un giovane scrittore del Burundi, alla sua seconda prova narrativa, ma alla prima traduzione italiana ad opera di una piccola casa editrice romana, molto attenta e coraggiosa.
Si tratta di un testo di appena una settantina di pagine, più una pre- e postfazione sul Burundi, con un richiamo alla guerra civile tra hutu e tutsi negli anni ’93-2006, durata ben tredici anni. Lo scrittore, appena ventottenne, è un vulcano di idee: romanziere, creatore del primo premio narrativo del paese, di un caffè letterario, di una rivista e di un giornale, oltreché cineasta.
Fa parte di quella generazione di scrittori che ha cominciato ad analizzare non più soltanto le sofferenze provocate dai colonizzatori, ma soprattutto il dolore e le conseguenze derivate dal comportamento dei padri fondatori del paese. Che cosa può succedere ad un paese che per molti anni si è odiato ad oltranza, scannato ed è cresciuto nel sospetto e nella violenza?
I nostri lettori ricorderanno gli orrori suscitati dagli eccidi della zona dei grandi laghi, ma per noi finita la guerra, finito tutto. Non lì dove si sono ammazzati i vicini, dove i ragazzi hanno ucciso la propria famiglia che conteneva membri dell’altra etnia, dove nessun valore tradizionale ha resistito all’urto di uno sconvolgimento senza pari. Non si parla, nel testo, delle cause eterodirette del massacro etnico, ma del fatto che non si è resistito abbastanza, non ci si è ribellati alla piega malefica che stavano assumendo le circostanze, a come la gente semplice ha consciamente o inconsciamente collaborato a che ciò accadesse.
In un linguaggio a volte secco e perentorio, a volte lirico e sognante, “ a tratti quasi sapienziale”, come suggerisce una recensione apparsa sull’Unità, lo scrittore, tramite due personaggi di un piccolo villaggio contadino, ci restituisce lo sguardo di chi non ha voluto soccombere a queste trasformazioni negative, ma non è riuscito per la sua oggettiva debolezza ad incidere sulla realtà.
Uno  è il muto Nyamuragi, orfano della guerra civile, cresciuto ai margini del villaggio, poco più che un giovane animale abituato a soddisfare allegramente i suoi bisogni più elementari, immerso in un presente totale, perché ricordare il passato fa troppo male e non riporta in vita nessuno.
L’altro è una vecchia guercia, pastora di capre,con l’occhio sinistro vede e agisce, con l’occhio invalido” riordina i pensieri”. Una donna curiosa e filosofa, le cui elucubrazioni vengono riportate dall’autore tra memorie di giovinezza e descrizioni di dolci paesaggi collinari. Dubita e non partecipa della follia collettiva che prende il villaggio allorché il giovane muto, per un equivoco, viene scambiato per uno stupratore. E’ interessante l’origine dell’equivoco, perché la dice lunga sugli stati d’animo di questa gente: il giovane si avvicina ad una ragazza al fiume, perché ha urgente bisogno di defecare e vuole farsi indicare un luogo adatto,rispettoso del fatto che alcune donne sono lì al fiume a lavare i panni. La ragazza s’impaurisce ai frenetici grugniti del muto e pensa ad uno stupro, dal momento che qualche giorno prima ne era stata vittima un’altra donna. Quando anche nei gesti più piccoli e nelle situazioni più ordinarie s’intravede un atteggiamento minaccioso e violento vuol dire che  la guerra ha prodotto guasti difficili da recuperare.”…la guerra aveva fatto a pezzi l’uomo, dilaniato dal machete, bucato dai proiettili, consumato dai veleni, stuprato dall’innominabile…Dissociò il tempo dall’uomo nel modo di concepire la vita…era riuscita a dissociare l’umano dallo spazio, perché aveva svelato con terrore che l’uomo dispone di spazio solo attraverso la sua storia e la sua cultura; violandole, lo spazio svanisce, l’uomo fugge e allora è retto dai grugniti del suo ventre, dalla paura e dalla fame”.
Nyamuragi non può parlare e non può spiegarsi, allora scappa, ma per la gente, per la triste esperienza passata, chi fugge è per definizione colpevole: impotente si lascia pestare da una folla inferocita , ormai assurta al rango di tribunale, è capace di mormorare solo un “ejo”/ “ego”.
Strana lingua il kirundi,pensa anche la guercia, dove “ejo” vuol dire contemporaneamente passato , ieri e futuro, domani. La vicenda si sbroglierà in un modo imprevisto, che però non scioglie gli interrogativi che agitano la vecchia e la sua gente. Certo essere condannato alla pena di vivere ( da qui il titolo) anziché a quella di morte può rappresentare uno spiraglio.
Lo stesso autore può essere considerato un “ejo”: scrive in francese ma il testo è pieno di discorsi in kirundi, di proverbi locali, è aperto al futuro, ma non dimentica la dolcezza delle sue colline e la saggezza di certe tradizioni e ce lo dice anche infilando una fiaba, tra le mosse della folla inferocita e l’abbozzo  di certe figure di villaggio, espresse con pochi tratti assai efficaci.

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