Saba Anglana - La signora Meraviglia - recensione a cura di Giulia De Martino

Saba Anglana

La signora Meraviglia

Sellerio, 2024

Ad attestare la poliedricità di questa artista: cantante, autrice teatrale e attrice, conduttrice radiofonica, è anche il fatto che la copertina del libro reca una sua opera dal titolo “Patrona II”, enigmatica come molti esseri magici e spettri presenti nel testo.

Ora Saba Anglana si offre ai lettori anche come scrittrice di un romanzo con questa sua prima prova che ci pare assai pregevole, non solo per il contenuto ma anche per il suo linguaggio crudo, tenero ed ironico ad un tempo.

Romanzo e memoir famigliare, cronologia di oggi e del passato si aggrovigliano in modo vorticoso, un momento sei nei vicoli di Mogadiscio e la pagina dopo su un tram romano a Piramide. S'intrecciano riflessioni sull'identità, sul razzismo, sull'Italia fascista e coloniale e sull'Italia odierna. Soprattutto sui malesseri e disagi di chi è stato costretto a lasciare un terra considerata 'casa' per affrontare le incognite di un nuovo paese, lingua e cultura.

Ma qui le cose si complicano per questa saga famigliare: tutto comincia con una ragazzina etiope, Abebech, inseguita da un ascaro somalo durante la seconda guerra mondiale e la lotta tra italiani e inglesi. Preda di guerra non può fare altro che opporre un ostinato silenzio, “ una resistenza esibita senza clamori” all'uomo che la rende madre di una bambina, Maryam, e di un maschietto che morirà neonato. Condotta in Somalia, alla mercé di una famiglia che non l'accetta, abbandonata poi dall'uomo, ad un certo punto la ritroviamo a Mogadiscio, dove, in seguito, l'etiope Worku Haftermariam, più vecchio di lei, se ne innamora : lui, bello ed elegante, con il fascino dell'uomo che ha fatto la resistenza agli italiani in Etiopia e ha subìto un duro campo di concentramento a Mogadiscio, per tutta la vita non si adeguerà mai alla lingua somala e parlerà con la moglie esclusivamente nell'amarico della terra d'origine. In 19 anni metteranno al mondo 8 figli e cercheranno sempre di affrontare insieme tutto ciò che il destino porrà loro davanti.

Ma Abebech sa tutto questo ancor prima di conoscere il marito: un misterioso indovino e mago somalo, incontrato durante il suo cammino verso Mogadiscio con la bambina in collo, gli predice, tramite delle conchiglie, che non tornerà mai nel suo paese, incontrerà però un brav'uomo etiope dal quale avrà 8 figli.

Tutto ciò produrrà in lei, però, un segno indelebile: Quale è il suo paese? Quale è la sua lingua? Che identità hanno i suoi figli, nati e cresciuti in Somalia e perfettamente parlanti il somalo? Perché portare sempre addosso quell'amhar, scagliato come un epiteto ingiurioso dai somali, non appena i rapporti tra Etiopia e Somalia s'inquinano a causa della contesa dell'Ogaden? Fino ad arrivare a una guerra aperta con la figlia Maryam, nata dall'ascaro, che s'identifica totalmente con la patria somala. In cerca di un'uscita dal disagio di cui tutti soffrivano, Maryam “s'inventa un nemico, ma questo è del suo stesso sangue”...la propria madre.

Un oscuro male s'impossessa di Abebech, alcuni lo chiamano Makubi, una specie di demone interiore, e solo una persona può intervenire: Wezero Dinkinesh (il cui nome significa signora Meraviglia), una maga etiope acculturata anche con le superstizioni e mitologie dei somali, seguendo riti magici e arcani che insegnano a trattare con l'essere demoniaco .

La prima figlia di Worku e Abebech, la bellissima Nina, sposerà Carlo, un ricco italiano con numerosi affari in Somalia. Anche se era stato un alto graduato dell'esercito fascista non ha remore nell'unirsi alla donna etiope, nonostante le reticenze dei genitori di lei. Questo matrimonio sarà la causa della partenza definitiva per l'Italia, quando nasceranno malumori e asti feroci verso gli italiani, non appena ci sarà sentore che l'Onu intende affidare all'Italia il mandato per portare all'indipendenza la Somalia. Quel buon vicinato di quartiere che aveva permesso alla cristiana Abebech di avere amiche musulmane somale e yemenite termina con le pesanti baruffe tra i figli della famiglia etiope e i nativi.

Il lettore non apprende tutto questo di seguito, ma inframmezzato da inserti italiani, che si svolgono ai tempi nostri a Roma, a Ostia, dove risiede la protagonista narrante con la madre e la zia Dighei, e in Veneto, dove abitano gli zii Bab, Esther e Sophia . Anzi, i tempi odierni costituiscono il primo piano narrativo: la figlia di Nina, italiana, cerca di convincere la zia a prendere la cittadinanza italiana, dato che ad un certo punto, dal 2018, è sembrata molto concreta a molti stranieri, pure residenti in Italia da più di quarant'anni, la possibilità di perdere il permesso di soggiorno, se non si rientra in determinati parametri (lavoro o pensione, metratura della casa adeguata, pieno possesso di un livello della lingua italiana dimostrato con esame certificato di B1 ecc. ). In questa parte si entra in una sarcastica descrizione dell'Italia burocratica, rivelatrice di quali siano gli intendimenti delle classi dirigenti italiane nei confronti dell'immigrazione con avvocati confusi dalla congerie di regole cui ottemperare, con il preteso buonismo di impiegati statali dei vari uffici che cercano di aiutare zia e nipote a disbrigarsi, magari ricordando i tempi belli dei padri o nonni in Eritrea, non distinguendola neppure dall'Etiopia. Il tutto complicato dalla distruzione dell'archivio nazionale somalo di Mogadiscio che impedisce di chiarire la loro intricata situazione. Ma insomma sono somali o etiopi? Chiave della faccenda sarà una foto della famiglia, ritratta insieme ad Hailé Selassié, in un raro viaggio dell'imperatore etiopico in Somalia.

La zia Dighei ha un ruolo importante nel chiarire come tutti loro siano preda dell'oscuro malessere, che prende varie forme nei figli di Abebech (e persino nella protagonista narrante) anche se questa zia buffa e sorniona, è la più conciliante nel sentirsi somala e italiana, ma non amhar, dato che gli etiopi non hanno mai permesso un loro rientro e la radice etiopica non ha mai veramente attecchito in lei, dal momento che i suoi ricordi d'infanzia sono tutti di Mogadiscio. Lo zio Bab si è rifugiato in uno strano limbo di non-identità, che lo ha portato ad una mesta solitudine, le zie Sophia e Esther (che devono i loro nomi a Sofia Loren e ad Esther Williams, i cui film venivano proiettati nei cinema di proprietà del padre) ormai residenti in Italia, litigano su una presunta presenza amarica nella loro vita.

Ne deriva una nostalgica descrizione della assolata Mogadiscio, unica città perduta della loro vita, con i suoi monumenti, le strade, le spiagge e il mare. S'intrecciano molti altri personaggi legati alla professione di levatrice di Abebech o al vicinato, compresa la romantica storia di una sharmutta . La famiglia, però, sembra voler ignorare la Mogadiscio di oggi, preda di eterne guerre civili tra clan e dei miliziani di al Shabaab. Ma l'Italia ha offerto loro un approdo valido? Si direbbe di no, dato che il Mukabi ama viaggiare e si è trasferito con loro insieme alle valigie. Noi il Mukabi lo chiameremmo attacco di panico, disagio psicologico, disadattamento in un paese che ad ogni istante, a scuola, al lavoro, per strada, in metropolitana o in treno non smette mai di ricordarti che non sei di qui, che non sei dei loro e lo denuncia la tua pelle, la tua pronuncia della lingua italiana.

Ma la famiglia chiama questo malessere con i nomi dati dalla loro tradizione culturale alle possessioni di esseri che si nascondono nel profondo dell'animo umano e che non ti lasciano in pace: tutta la vita diventa una lotta. Il trauma della nonna vive anche nei suoi discendenti, “come una memoria trasmessa nelle cellule”. Si è nascosto in vite difficili, nella rabbia e nella diffidenza di chi non si sente accolto pienamente, nel fatalismo di chi preferisce non occuparsene.

Un viaggio provvidenziale della protagonista ad Addis Abeba per rimediare l'ultimo foglio burocratico, necessario alla cittadinanza della zia, dopo il superamento dell'esame di italiano, le offre la chiave per capire. Deve cessare la lotta con il Mukabi, bisogna accettare quello che ti sta davanti. “Probabilmente si placa solo attraverso un riconoscimento, un perdono, un rito”.Non posso ucciderlo, ci ho provato in tutti questi anni da quando mio padre è morto. La bestia non muore, ci devo convivere”, conclude la narratrice.

E la Signora Meraviglia del titolo? Non a caso la strega Wizero Winkinesh e l’appellativo dato dalle zie e dalla nipote al documento della cittadinanza italiana hanno lo stesso nome...

 

 

 

 

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