Samir Toumi - Algeri, il grido - recensione a cura di Giulia De Martino

 

 

 

 Samir Toumi

 Algeri, il grido

 Astarte, 2021

 Traduzione di Giulia Beatrice Filpi

 

Scegliamo questo testo, tra i tanti tralasciati tra il ’20-21, perché, pur nell’apparenza molto diverso, ha dei punti di contatto con La settima sigaretta di Dunia Kamal, come proveremo ad indicare.

Innanzitutto diciamo che è un libro di non facile lettura, troppo “algerien algerois” come ha tagliato corto un editore francese, rifiutandone la traduzione dall’arabo-cabilo mescolato al francese. Ma non è la lingua che intralcia: noi lo leggiamo in una ottima traduzione, bensì il linguaggio e la modalità narrativa. Il testo viene pubblicato nel 2013 da Editions Barzakh in Algeria e nel ’21 compare sul mercato italiano, con un epilogo aggiunto nel ’21 e una intervista finale con l’autore. La sua radice affonda però nelle rivoluzioni egiziana e tunisina tra il 2010 e 2011 che ebbero eco ed emulazione anche in Algeria, come ricorda l’autore nell’epilogo.

Lo scrittore aveva già pubblicato in Italia il suo secondo romanzo nel 2018 Lo specchio vuoto, dunque Algeri, il grido è la prima prova letteraria di questo ingegnere, prestato alla letteratura. Cosa rende particolare questo testo? Non ha una trama vera e propria: c’è un personaggio che oscilla tra Algeri e Tunisi, corre a piedi o in bici, inerpicandosi tra le stradine tortuose e in salita della sua amata-odiata città fino a sentire bollire il sangue e pompare il cuore, come segno di non essere un fantasma, uscito dalle profondità ctonie della sua terra: pensa spesso al suo passato infantile, sprofondato in terrazze panoramiche, o adagiato in meravigliose località marine in Tunisia, dove riesce ad apprezzare il mare, che invece gli suscita paura e inquietudine nella baia di Algeri. Pensa incessantemente in modo caotico, i discorsi si accavallano e il suo pensiero assomiglia ad un fiume in piena, in cui le parole rotolano come sassi urtati dalla corrente.

La Tunisia gli sembra un luogo da cartolina: tutti sembrano sorridenti, la natura è invitante, la gente usufruisce con calma di tutti gli aspetti che può offrire una grande città piena di turisti. Ad Algeri le persone sono costantemente furiose e inquiete, isolate, sostanzialmente la voce serve per esprimere una rabbia cosmica inintelligibile. L’autore individua nelle caratteristiche di questa città il malessere suo e dei suoi concittadini: un terra che si colloca su una faglia sismica, che assume, agli occhi del protagonista, le sembianze di un serpente pronto a ghermire con le sue spire chi tenta di sottrarsi.

Sembra di intravedere qualche eco della Nedjma di Yateb Kacine nel tentativo di interpretare metaforicamente Algeri, che punisce chi cerca di uscire dal silenzio o se ne allontana. Vero è anche che il rapporto ambiguo con la zona di origine rimanda all’eterno ciclo di sentimenti contraddittori di ogni migrante. , l’altrove, desiderare di essere qui, nella terra colpevolmente abbandonata e qui non sognare altro che di fuggire. E ricordiamoci che l’autore per circa 14 anni complessivi ha abitato in Francia e altri paesi… Dunque, il protagonista sente il bisogno di allontanarsi per cercare una sua voce per esprimersi, ma le parole non vengono o vengono in momenti inopportuni o sono troppo deboli per essere udite: cerca il grido che rompa il silenzio di una città che vive immersa nelle glorie del passato guerrigliero senza rendersi conto di quello che è diventata nel momento attuale. Le immagini di morti, quelli della guerra civile, quelli dell’88 ( la rivolta del couscous ) quelli del decennio nero del terrorismo degli anni’90 segnalano un destino di violenza e caos che a tratti rompe l’inerzia.

Si alternano le memorie infantili idilliache, al mare, nelle montagne cabile, durante le feste di fine ramadan e dell’Aid el Kebir ai ricordi di locali chiassosi, da cui escono le voci roche, appassionate, strazianti e urlate dei cantanti del rai. Anche in questo testo come in quello dell’egiziana Kamal la musica occupa una parte preponderante: Cheb Hasni è il suo idolo, insieme ad altri citati a profusione nel romanzo, interpreti del malessere algerinoIl senso della memoria individuale e collettiva, la musica che interpreta gli umori della gente, la difficoltà a definire il proprio io, in rapporto all’identità nazionale mi sembrano tratti comuni a Dunia Kemal e Samir Toumi. Una generazione di quarantenni, disillusa, amareggiata, che non crede più ai partiti, spuntati come funghi dopo le parentesi autoritarie per avviare una democrazia che non decolla; una generazione che forse non crede più nelle lotte violente, ma soprattutto vuole che, oltre la giustizia sociale, ci sia spazio per i diritti dell’individuo, così bistrattati e negletti presso questi popoli oppressi da dittature politiche e religiose.

Ma quando in Tunisia, dopo il rogo di Mohamed Bouazizi, che dà inizio alla rivoluzione dei gelsomini e alla caduta di Ben Ali e del vecchio regime, sale il grido, soprattutto dei giovani, per il nostro protagonista la bella cartolina turistica con cui aveva misurato quel paese si macchia di sangue e ha l’odore di corpi carbonizzati. Segue l’evento in tv e in streaming insieme ad amici tunisini, mentre ad Algeri impazzano i festeggiamenti dell’ultimo dell’anno e sente che ”il grido porta con sé la speranza, malgrado il fango, malgrado l’odio, malgrado la morte. Foriero di avvenire, il grido ci sacrifica. E’ arrivato, corre lungo le spire del serpente, infiamma le rovine di Cartagine, attraversa il Mediterraneo in imbarcazioni di fortuna. Risale il deserto e soffia con lo scirocco”. E se ancora una volta la repressione dei poteri forti si abbatte sui cittadini, le parole però hanno cominciato ad uscire e se di fronte al pericolo arretrano e si acquattano è per rinascere più vitali in bocca ai giovani.

 

 

 

 

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